Corriere 25.10.17
Anteprima La prefazione del nuovo saggio
della filosofa Donatella Di Cesare (Bollati Boringhieri) sui temi
dell’accoglienza e della giustizia globale
Emigrare è un atto politico
L’ospitalità e il rispetto dei diritti umani impongono di ridiscutere la centralità dello Stato
di Donatella Di Cesare
Il
mondo attuale è suddiviso in una molteplicità di Stati che si
fronteggiano e si fiancheggiano. Per i figli della nazione, che sin
dalla nascita hanno condiviso l’ottica statocentrica, ancora ben salda e
dominante, lo Stato appare un’entità naturale, quasi eterna. La
migrazione è allora devianza da arginare, anomalia da abolire. Dal
margine esterno il migrante rammenta allo Stato il suo divenire storico,
ne scredita la purezza mitica. Ecco perché riflettere sulla migrazione
vuol dire anche ripensare lo Stato.
Una «filosofia della
migrazione» viene qui delineata per la prima volta. Neppure la filosofia
ha riconosciuto sinora al migrante diritto di cittadinanza. Solo di
recente lo ha ammesso al proprio interno, ma per tenerlo sotto stretta
sorveglianza, pronta a respingerlo con il primo foglio di via.
Nel
primo capitolo di questo libro ( Stranieri residenti , Bollati
Boringhieri) è stato ricostruito il dibattito, molto acceso nel contesto
angloamericano e in quello tedesco, tra i partigiani dei confini chiusi
e i promotori degli open borders . Si tratta di due posizioni che
rientrano nel liberalismo e, anzi, ne rivelano l’ impasse : l’una
sostiene l’autodeterminazione sovrana, l’altra rivendica un’astratta
libertà di movimento. Da entrambe si prende distanza. Non si vuole
contemplare il naufragio dalla riva.
Una filosofia che muove dalla
migrazione, che dell’accoglienza fa il suo tema inaugurale, lascia che
il migrare, sottratto all’ arché , al principio che fonda la sovranità,
sia punto d’avvio, e che il migrante sia protagonista di un nuovo
scenario anarchico. Il punto di vista del migrante non potrà non avere
effetti sulla politica come sulla filosofia, non potrà non movimentare
entrambe.
Migrare non è un dato biologico, bensì un atto
esistenziale e politico, il cui diritto deve essere ancora riconosciuto.
Questo libro vorrebbe essere un contributo alla richiesta di uno ius
migrandi in un’età in cui il tracollo dei diritti umani è tale, che
appare lecito chiedersi se non sia stata suggellata la fine
dell’ospitalità.
Nei libri di storia, che non asseconderanno la
narrazione egemonica, si dovrà raccontare che l’Europa, patria dei
diritti umani, ha negato l’ospitalità a coloro che fuggivano da guerre,
persecuzioni, soprusi, desolazione, fame. Anzi l’ospite potenziale è
stato stigmatizzato a priori come nemico. Ma chi era al riparo, protetto
dalle frontiere statali, di quelle morti, e di quelle vite, porterà il
peso e la responsabilità.
Oltre alla terra, uno spazio importante
ha in queste pagine il mare, frammezzo che unisce e separa, passaggio
che si sottrae ai confini, cancella ogni traccia d’appropriazione, serba
memoria di un’altra clandestinità, quella di opposizioni, resistenze,
lotte. Non la clandestinità di uno stigma, bensì di una scelta. La rotta
del mare indica il risvolto dell’ordine, la sfida dell’altrove e
dell’altro.
Troppo a lungo la filosofia si è crogiolata nell’uso
edificante della parola «altro», avallando l’idea di un’ospitalità
intesa come istanza assoluta e impossibile, sottratta alla politica,
relegata alla carità religiosa o all’impegno etico. Ciò ha avuto effetti
esiziali. Anacronistico e fuori luogo, il gesto dell’ospitalità,
compiuto dagli «umanitari», quelle anime belle che credono ancora nella
giustizia, è stato spesso bersaglio di scherno e denuncia. Anzitutto da
parte della politica che crede di dover governare obbedendo allo
sciovinismo del benessere e al cinismo securitario.
In questo
libro il migrante entra nelle porte della Città come straniero
residente. Per capire quale ruolo possa svolgere in una politica
dell’ospitalità si è percorso un cammino a ritroso, che non segue però
un ritmo cronologico. Le tappe sono Atene, Roma, Gerusalemme. Tre tipi
di città, tre tipi di cittadinanza ancora validi. Dall’autoctonia
ateniese, che spiega molti miti politici di oggi, si distingue la
cittadinanza aperta di Roma. L’estraneità regna invece sovrana nella
Città biblica, dove cardine della comunità è il gher , lo straniero
residente. Letteralmente gher significa «colui che abita». Ciò
contravviene alla logica di saldi steccati che assegnano l’abitare
all’autoctono, al cittadino.
Il cortocircuito contenuto nella
semantica di gher , che collega lo straniero all’abitare, modifica
entrambi. Abitare non vuol dire stabilirsi, installarsi, stanziarsi,
fare corpo con la terra. Di qui le questioni che riguardano il
significato di «abitare» e di «migrare» nell’attuale costellazione
dell’esilio planetario. Senza recriminare lo sradicamento, ma senza
neppure celebrare l’erranza, si prospetta la possibilità di un ritorno. A
indicare la via è lo straniero residente che abita nel solco della
separazione dalla terra, riconosciuta inappropriabile, e nel vincolo al
cittadino che, a sua volta, scopre di essere straniero residente. Nella
Città degli stranieri la cittadinanza coincide con l’ospitalità.
Nell’epoca
postnazista è rimasta salda l’idea che sia legittimo decidere con chi
coabitare. «Ognuno a casa propria!» La xenofobia populista trova qui il
suo punto di forza, il criptorazzismo il suo trampolino. Spesso si
ignora, però, che questo è un lascito diretto dell’hitlerismo, primo
progetto di rimodellamento biopolitico del pianeta che si proponeva di
stabile i criteri della coabitazione. Il gesto discriminatorio rivendica
per sé il luogo in modo esclusivo. Chi lo compie si erge a soggetto
sovrano che, fantasticando una supposta identità di sé con quel luogo,
reclama diritti di proprietà. Come se l’altro, che proprio in quel luogo
l’ha già sempre preceduto, non avesse alcun diritto, non fosse, anzi,
neppure esistito.
Riconoscere la precedenza dell’altro nel luogo
in cui è dato abitare vuol dire aprirsi non solo a un’etica della
prossimità, ma anche a una politica della coabitazione. Il con -
implicato nel coabitare va inteso nel suo senso più ampio e profondo
che, oltre a partecipazione, indica anche simultaneità. Non si tratta di
un rigido stare l’uno accanto all’altro. In un mondo attraversato dal
concorrere di tanti esili coabitare significa condividere la prossimità
spaziale in una convergenza temporale dove il passato di ciascuno possa
articolarsi nel presente comune in vista di un comune futuro.