Corriere 25.10.17
Le mani libere dei partiti e le piccole-grandi intese
di Paolo Franchi
Negli
anni, il quaranta per cento conquistato dal suo Pd nelle elezioni
europee del 2013 si è trasformato per Matteo Renzi in un mantra, o forse
in un’ossessione. Non si spiega altrimenti come Renzi, dopo la
bruciante sconfitta nel referendum costituzionale, abbia pensato per
qualche tempo di poter annettere al Pd il quaranta per cento ottenuto
dai sì, rappresentandolo addirittura come un’ottima ragione per puntare
dritto al voto anticipato. E tanto meno come faccia adesso a sostenere
che, grazie al Rosatellum, il quaranta per cento (rieccolo!) dei voti al
Pd e ai suoi alleati (quali?) gli consentirebbe di governare evitando
imbarazzanti connubi.
Dice bene Michele Salvati (Corriere, 18
ottobre). Con la nuova legge elettorale che il Senato si appresta quasi
sicuramente a varare, per avere una maggioranza, seppur risicata, alla
Camera, come ha segnalato sul Sole 24 Ore Roberto D’Alimonte, il
quaranta per cento dei seggi proporzionali può bastare, sì, ma a
condizione di disporre del settanta per cento di quelli maggioritari.
Bum: servirebbe un terremoto elettorale che però oggi è impensabile, e
che in ogni caso, se si verificasse, avvantaggerebbe semmai la destra.
La prospettiva più concreta sarebbe quindi l’ingovernabilità, se non
fosse che la politica ha orrore del vuoto e, quando l’alternativa non
c’è, se la inventa. Una maggioranza, numeri permettendo, potrebbe così
anche prendere corpo, ma sulla base di una scomposizione, certo non
indolore, delle coalizioni che si sono appena presentate agli elettori,
l’una contro l’altra armata. Per intenderci: una piccola — larga intesa
«di sistema» tra Pd e Forza Italia, o magari anche, chissà, una
coalizione «antisistema» tra i Cinque Stelle e la Lega.
Almeno la
prima di queste due possibilità, come tutti sanno, è nell’aria. Ma gli
interessati la smentiscono con sdegno. Sarà un corpo a corpo con la
destra fino all’ultimo voto, assicura Renzi. La sola idea di un’alleanza
con il Pd non sta in piedi, gli fa eco Silvio Berlusconi. Come se il
Rosatellum ci avesse restituito un’Italia a modo suo bipolare, se non
proprio bipartitica come sperava diventasse, dieci anni fa, Walter
Veltroni. Il perché di una simile rimozione della realtà è presto detto.
Quelle due paroline, larghe intese, sono, in campagna elettorale,
letteralmente indicibili: chi le pronunciasse, si condannerebbe da solo,
in partenza, a perdere una valanga di voti. I più smaliziati ci
avvisano che così funziona un sistema tuttora in misura preponderante
proporzionale, ancorché ritoccato dal Rosatellum. Finita la stagione in
cui agli italiani sapevano la sera delle elezioni chi li avrebbe
governati negli anni a venire, siamo tornati ai tempi in cui erano i
partiti a stabilire in assoluta libertà come avrebbero speso i loro
voti, facendo e disfacendo alleanze a loro piacimento. In fondo, si
osserva, nemmeno nella virtuosa Germania cristiano democratici, Spd,
liberali e verdi hanno speso una sola parola, in campagna elettorale,
per far sapere con chi si sarebbero alleati dopo il voto.
In
realtà in Germania le cose non sono andate esattamente così: chi ha
premiato liberali e verdi sapeva benissimo di candidarli a futuri
partner di governo della Cdu, chi ha punito i socialdemocratici lo ha
fatto quasi sempre per riportarli all’opposizione. E non andavano così
nemmeno nella mai sufficientemente deprecata Prima Repubblica, o almeno
nei tornanti cruciali della sua storia. Nelle elezioni del 1963, la cui
posta era il nascente centrosinistra, un milione e passa di elettori dc
che lo vedevano come il fumo negli occhi per contrastarlo votarono il
Partito liberale di Giovanni Malagodi: non bastò. Nel 1968, un milione e
mezzo di elettori socialisti che sottrassero il loro voto al Psi-Psdi
unificati bastarono, invece, a decretare nello stesso tempo la fine
dell’unificazione socialista e la crisi preagonica del centrosinistra
medesimo. E nel 1976 i quattro milioni di italiani che votarono per la
prima volta per il Pci certo non prevedevano che, dopo il voto, i
comunisti avrebbero reso possibile con la loro astensione la nascita di
un monocolore dc guidato da Giulio Andreotti, ma sapevano benissimo che
il partito di Berlinguer era per il compromesso storico, non per
l’alternativa di sinistra.
Insomma. Non solo nei sistemi
maggioritari, ma anche in quelli proporzionali, i partiti avevano e
hanno le mani meno libere (e il popolo sovrano ha più voce in capitolo)
di quanto comunemente si dica. Nel nostro sistema non-si-sa-che-cosa non
è così. E a un elettore non tifoso possono passare per la testa dei
brutti pensieri. A differenza del 2013, i principali attori politici
(soprattutto il Pd, perché le destre sono convinte di avere il vento in
poppa) sanno di non poter conquistare la maggioranza, ma si presentano
lo stesso come se questo, e solo questo, fosse il loro irrinunciabile
obiettivo. Per i Cinque Stelle, che tra politica e propaganda non fanno
troppe differenze, nessun problema particolare: semmai qualche
vantaggio, perché potranno rappresentare i loro avversari come i ladri
di Pisa. Ma gli altri? Dovremmo supporre che stiano scientemente per
dare il via alla più ambigua (o magari alla più ingannevole) delle
campagne elettorali? Forse, anzi, sicuramente, questi sono sospetti
eccessivi e ingiusti. È più sensato, piuttosto, pensare che la maionese
rischi di impazzire soprattutto per via dell’imperizia dei cuochi. Ma,
anche in questo caso, non ci sarebbe proprio di che sentirsi
rassicurati.