Corriere 22.10.17
Caporetto
Intervista al generale Graziano, capo delle forze armate
«Fu una sconfitta, non una disfatta
Lo sbaglio del comandante Cadorna è stato quello di incolpare i suoi soldati»
di Aldo Cazzullo
Generale Graziano, lei comanda le forze armate italiane. Che cent’anni fa, a Caporetto, vissero la loro disfatta più terribile.
«Non fu una disfatta. L’8 settembre fu una disfatta».
E Caporetto?
«Fu
una gravissima sconfitta. Che portò alla vittoria. Senza Caporetto non
ci sarebbe stata Vittorio Veneto. L’esercito si riprese. Accadde una
cosa mai accaduta, né prima né dopo: il Paese intero scese in guerra. E,
brutto a dirsi, cominciammo a odiare il nemico. Capimmo che era in
gioco la sopravvivenza dell’Italia. Fu la nascita, o la rinascita, della
nazione».
Com’è stato possibile il crollo?
«C’erano i
tedeschi. Le forze imperiali germaniche furono fondamentali nello
sfondamento. Due mesi prima sulla Bainsizza eravamo andati vicini a
vincere la guerra, anche se non ce n’eravamo accorti. Alla spallata
successiva l’Austria sarebbe crollata; per questo chiese aiuto alla
Germania».
Quale fu la responsabilità di Cadorna?
«Il
comandante in capo è sempre il primo responsabile; anche se Capello, il
comandante della seconda Armata, non mise in atto tutte le prescrizioni.
C’era stata una regressione nella qualità di comando. Mancò il
controllo dell’artiglieria».
Come mai i cannoni di Badoglio tacquero?
«La
commissione d’inchiesta fu severa con tutti tranne lui, che al fianco
di Diaz stava riorganizzando l’esercito. Ma a Caporetto sbagliò: non
riuscì a far arrivare l’ordine di aprire il fuoco, e i suoi ufficiali
non avevano l’autonomia che avevano i pari grado tedeschi».
Quali sono le altre cause di Caporetto?
«Venne
usato il gas. Non vi fu la percezione del disastro: era una giornata di
nebbia e pioggia. Le prime linee combatterono. Poi le retrovie
crollarono. La stanchezza per due anni e mezzo di “inutile strage”, la
propaganda disfattista, gli effetti della rivoluzione russa: queste
percezioni filtravano. Purtroppo Cadorna non colse quella stanchezza
morale».
I soldati andavano all’assalto piangendo.
«Sull’Ortigara
si comprese che era finita la fase eroica delle prime battaglie. I
fanti andavano alla morte rassegnati. Eppure continuavano ad attaccare,
con un’abnegazione ammirata più dai nemici che dagli alleati, come i
francesi, che continuavano a criticarci».
Ci sono troppe vie dedicate a Cadorna?
«Cent’anni
dopo non si può mettere in discussione la memoria. Ho studiato la
personalità di Cadorna alla Scuola di guerra americana. Era un uomo
rigido, con problemi di comunicazione e poca capacità di empatia. Ed era
un comandante vigoroso, che seppe gestire due momenti fondamentali:
fermò la spedizione punitiva sugli altopiani, e preparò le linee sul
Piave e sul Grappa, dando sia pure in ritardo gli ordini che hanno
permesso di salvare il Paese. L’elemento negativo fu la tentazione
iniziale di dare la colpa di Caporetto ai soldati. Questo un capo non
può farlo. Mai. I soldati caduti o che stanno combattendo li devi
sostenere. Rimpiazzare chi ha ceduto, ricreare il morale. Purtroppo il
generale delle battaglie non ha mai saputo diventare il generale della
vittoria».
È giusto riabilitare i fucilati?
«Nessun Paese
l’ha fatto. Gli inglesi hanno decretato il “perdono collettivo”, e
questa mi sembra una via condivisibile. All’epoca il senso della
vittoria prevaleva su altri sentimenti; il codice militare risaliva
all’800 ed era molto rigido; ci furono eccessi nell’applicazione della
pena di morte. Nei momenti di crisi c’era l’esigenza di mantenere la
solidità dell’esercito».
Ci furono fucilazioni di massa.
«Infatti
è giusto distinguere tra i processi celebrati regolarmente, dove non ci
può essere revisione di giudizio, e le esecuzioni sommarie. Tra chi ha
commesso il fatto rischiando di mettere a rischio la stabilità del
fronte, e le vittime delle decimazioni. Tra chi ha combattuto e chi è
fuggito. I friulani e i veneti delle terre occupate videro soldati
battersi per proteggerli e altri ritirarsi. Oggi noi dobbiamo
riconoscere il giusto merito ai valorosi, e pensare con pietà a tutti i
caduti. Una forma di rispetto nazionale».
Ma quella guerra era meglio non farla.
«Non
potevamo non farla. Tutti i Paesi europei, le potenze ma anche gli
Stati balcanici, stavano combattendo. E noi non eravamo isolati come la
Spagna. Prima o poi saremmo stati coinvolti».
Come spiega la rinascita sul Piave?
«Tutto
accade in pochi giorni. La linea tiene sul Grappa. Il 16 novembre nella
battaglia di Fagaré entrano in linea i ragazzi del ’99, accanto ai
fanti della Terza Armata ritiratisi dal Carso. Quella prima vittoria fu
un raggio di luce nel momento della disperazione. A dicembre la grande
battaglia d’arresto sul Piave era vinta. I tedeschi ritirarono i loro
contingenti».
Come fu possibile?
«I fanti compresero che la
sconfitta non avrebbe portato la pace, ma la disgregazione nazionale.
Realizzarono che non c’era altra via che resistere e vincere.
Combattevano per salvare le loro famiglie e il Paese. Fu anche merito
del vecchio capo, che aveva costruito linee e riserve. E poi per la
prima e unica volta nella storia l’esercito ebbe dietro tutto il Paese.
Comincia la guerra totale, animata da una totale volontà di vittoria. Le
fabbriche costruiscono più aeroplani nell’anno tra Caporetto e Vittorio
Veneto che in tutta la seconda guerra mondiale. Le donne dimostrano di
saper fare gli stessi lavori degli uomini, magari meglio. Si impongono
regole militari anche ai civili. E si sviluppano l’odio e l’aggressività
verso il nemico».
Fino a quel momento non odiavamo gli austriaci?
«No,
tranne alcuni di noi. I bergamaschi, intrisi di cultura risorgimentale e
garibaldina. I valdostani, considerati i soldati perfetti: rudi
montanari e cacciatori, da sempre erano la guardia dei Savoia,
combattevano gli austriaci da sei generazioni. Infatti bergamaschi e
valdostani ebbero la più alta percentuale di caduti. Tutto cambia di
fronte allo stupro del Friuli, all’occupazione, alla violenza contro i
civili».
Nella seconda guerra mondiale l’Italia non ritrovò quello spirito.
«No.
L’Italia entrò in guerra convinta che fosse già finita, senza capirla,
senza sapere quel che stava facendo. Poi arrivò l’8 settembre. Badoglio,
che si era battuto bene sul Sabotino, sul Piave, in Etiopia, concluse
male la sua lunga carriera, lasciando le truppe senza ordini. Quello sì
fu un disastro senza rimedio. Ci sono voluti decenni all’esercito per
riprendersi».
Quale fu la svolta?
«Libano 1982. Le forze
armate italiane, già apprezzate per l’intervento dopo il Vajont, il
Friuli, l’Irpinia, tornano a svolgere il compito fondamentale: impugnare
le armi per la sicurezza internazionale. Poi vengono il Mozambico, la
Somalia, i Balcani, l’Afghanistan, l’Iraq. C’è il riconoscimento
identitario delle forze armate come un lavoro importante, che dà
prestigio al Paese. Si abolisce la leva perché gli italiani non vogliono
più pagarne il prezzo sociale, e anche perché le missioni di pace
richiedono militari professionisti».
Anche questo è brutto a dirsi, ma i soldati italiani hanno ripreso a morire.
«Hanno
dimostrato che sono pronti a dare la vita per la patria. Da loro viene
un fortissimo messaggio etico e di forza morale: ci si mette al servizio
di altri Paesi, e dei compatrioti con l’operazione Strade sicure».
Come mai finora il terrorismo non ha colpito l’Italia?
«Nessuno
è al riparo. L’Italia sa far cooperare Esteri, Interni, Difesa,
servizi. Lavoriamo sulla sicurezza interna e sulla difesa avanzata in
Iraq, Afghanistan, Medio Oriente. Il terrorismo è sempre esistito. Ora è
più pericoloso a causa del fondamentalismo islamico, della
disgregazione di Stati come Siria e Libia, dell’emigrazione senza
controllo».
Teme che i «foreign fighter» sconfitti a Mosul e a Racca possano tornare in Europa nascondendosi tra i migranti?
«I
migranti non sono terroristi, sono vittime dei trafficanti. Ma questi
irriducibili esistono. Li dobbiamo individuare e bloccare, con l’aiuto
dell’intelligence internazionale».
Lei due anni fa disse al «Corriere» che fermare gli scafisti non era impossibile.
«Lo
confermo. Quel che non si può fermare è la migrazione. Nella storia
nessuna migrazione è mai stata fermata. Si può limitare, governare, è
una questione epocale, che ci accompagnerà per anni».
Qual è il ruolo dell’Italia in Libia?
«Stiamo
aiutando i libici perché ce l’hanno chiesto. Contribuiamo a costruire
organismi di sicurezza. Siamo nell’operazione “Mare sicuro” per
proteggere le linee di comunicazione. Abbiamo la guida di “Sofia”,
l’operazione internazionale contro i trafficanti che coinvolge unità
navali spagnole, tedesche, irlandesi, olandesi. Addestriamo la guardia
costiera libica. La Tremiti è nel porto di Tripoli. Abbiamo un ospedale a
Misurata per curare i feriti negli scontri con Daesh e formare i medici
libici».
Quando torneremo dall’Afghanistan?
«Stabilizzare i
Paesi è un lavoro lungo. Siamo in Kosovo da quasi vent’anni. Il Libano,
dove siamo dal 2007, adesso è relativamente stabile. In Afghanistan
abbiamo 900 uomini, il secondo contingente dopo gli americani. Nel
2005-2006 ero comandante di brigata, l’esercito afghano aveva poche
migliaia di soldati, male armati e male equipaggiati: ora sono centinaia
di migliaia, ma si battono in un’area dove agiscono l’Isis, i talebani,
i trafficanti droga. Non è il momento per abbandonare l’Afghanistan».