domenica 22 ottobre 2017

Corriere 22.10.17
La lingua del popolo
Siena celebra la pittura di Lorenzetti
di Francesca Bonazzoli

All’inizio del Trecento, nella Siena ghibellina, si parlavano due linguaggi artistici: il greco e il gotico, perfettamente distinguibili nelle due «Vergini in maestà» commissionate rispettivamente per il Duomo e il Palazzo Comunale. Una era la lingua aulica delle élite, ereditata da Bisanzio; la seconda era quella alla moda nelle corti del nord Europa degli ideali cavallereschi. Il campione del greco era Duccio da Buoninsegna che nel 1311 aveva terminato la sua Maestà così grande e dorata da sembrare un’iconostasi. Solo quattro anni più tardi, nel 1315, toccò al cavaliere del gotico, Simone Martini, il compito di riequilibrare il potere religioso di quell’immagine con un’altrettanto magnifica Maestà affrescata nello spazio laico del Palazzo Pubblico. Intanto, però, tutt’intorno a Siena, da Pisa a Firenze ad Assisi, si sentiva parlare un nuovo idioma: il «volgare» che Giotto andava diffondendo sostenuto da intellettuali come Dante.
Anche nell’arte stava avvenendo la prima grandiosa affermazione della lingua del «sì» e Siena doveva trovare i suoi bardi. I fratelli Pietro e Ambrogio Lorenzetti svolsero proprio questo compito: scrivere in volgare testi originali che costituissero il peculiare contributo senese allo stile moderno. Né greci, né gotici, né fiorentini. Della vita dei Lorenzetti sappiamo poco. Pietro era il maggiore e lo vediamo documentato dal 1306 mentre le prime testimonianze su Ambrogio risalgono al 1319. Il decesso, invece, viene fissato per entrambi al 1348, l’anno della «morte nera», la famigerata epidemia europea di peste che quasi dimezzò gli abitanti di Firenze e Siena. Gli storici hanno fatto fatica a mettere a fuoco vicende biografiche, catalogo e addirittura ad attribuire a ciascuno dei fratelli una fisionomia autonoma. Di Ambrogio non esiste ancora un’aggiornata monografia scientifica e dunque la convocazione a Siena (che conserva circa il 70% delle sue opere) della quasi totalità di quelle disperse nei musei del mondo, assieme alle ricerche e ai restauri fatti in occasione di questa mostra, è un’occasione speciale. La lacuna storiografica comincia già con Lorenzo Ghiberti, lo scultore fiorentino che nei suoi Commentari considera Ambrogio, accanto a Giotto, il più grande artista del Trecento, pittore «singularissimo», del quale difende anche la primazia su Simone Martini.
Pietro, invece, viene completamente ignorato tanto che Vasari non riuscirà nemmeno più a collegare la parentela tra il «Pietro Laurati per tutta Toscana chiamato e carezzato» e il fratello minore trasformato ormai in un pittore gentiluomo. Così lo tratteggiò Vasari: «Furono i costumi d’Ambruogio in tutte le parti lodevoli e più tosto di gentiluomo e di filosofo che di artefice». A consacrarne la fama di dotto furono senz’altro le allegorie del Cattivo e del Buon Governo affrescate nel Palazzo Pubblico di Siena, considerate anche da Giulio Carlo Argan, nella sequenza della storia dell’arte italiana, «la prima opera civile, con un contenuto non più soltanto religioso ma filosofico e politico». Quel gran paesaggio dell’ ager senensis è infatti niente meno che l’illustrazione della concezione del mondo della società comunale dove l’ordine delle città serrate nelle mura si estende al contado con i campi squadrati, i filari allineati, le colline. Ambrogio fu il regista di questa narrazione voluta dal governo di straordinaria durata chiamato dei Nove (dal 1287 al 1355), un regime filopapale di mercanti, che chiese di essere rappresentato come orgoglioso garante del buon governo. Duccio e Simone Martini ponevano il loro ideale altissimo di bellezza in Vergini in maestà fuori del tempo e dello spazio; la parlata in volgare di Ambrogio sapeva invece trovare la bellezza nell’accordo di tutti i valori civici costruiti con il lavoro dell’uomo.
La sua fu però una parentesi. La peste nera del 1348 mandò in frantumi il Buon Governo e diede avvio a una crisi che, come raccontato nel celebre saggio di Millard Meiss, porterà al disordine e al terrore dell’insicurezza nei villaggi. L’arte della generazione successiva ad Ambrogio registrerà questo clima con il ritorno all’arcaismo duecentesco e proprio attraverso l’irrazionalità della fiaba Siena darà un contributo essenziale allo sviluppo di un nuovo stile europeo chiamato «gotico internazionale».