sabato 21 ottobre 2017

Corriere 21.10.17
Nelle strade di Raqqa vincitori, mine e macerie Viaggio nella «capitale del Califfato», dalla piazza delle esecuzioni allo stadio-prigione: i graffiti dei torturati, il manuale dei carcerieri
dal nostro inviato a Raqqa Lorenzo Cremonesi

Gli spogliatoi dei calciatori trasformati in celle, la piccola palestra in camera di tortura con i ganci per le impiccagioni al soffitto, i gabinetti in pertugi per l’isolamento delle punizioni prolungate. Da tempo non giocavano più a pallone i guardiani dell’Isis: avevano riconvertito lo stadio di Raqqa nel carcere centrale del «Califfato», che per almeno tre anni ha rappresentato il cuore del sistema di controllo, minaccia e castigo sulla popolazione, ma anche, e negli ultimi tempi soprattutto, contro i suoi militanti che sempre più numerosi cercavano di disertare e scappare verso le linee curde.
«Attenti alle cariche inesplose. Ci sono bombe e trappole ovunque», avvisa il miliziano curdo che ci scorta. L’accesso è sotto le tribune. Ma gli scalini sono coperti di calcinacci, l’inferriata che separava il campo da calcio dal pubblico è in parte divelta, le barre di ferro trasformate in lance arrugginite. Le bombe perforanti Usa hanno fatto scempio della struttura. Poi sono arrivate le granate e la devastazione della battaglia che strada per strada, casa per casa, negli ultimi cinque mesi ha portato all’impressionante distruzione della capitale dell’Isis.
Tutto attorno, macerie e silenzio. Una città di oltre duecentomila abitanti totalmente abbandonata. Come il cuore di Mosul, i nuclei della piana di Niniveh, parte di Aleppo, oltre a Tikrit, Falluja, Tal Afar, Amerli e centinaia tra villaggi e cittadine delle regioni sunnite al confine tra Iraq e Siria. Ma Raqqa è di più. Molto di più. A Mosul la parte orientale è sempre rimasta abitata e già oggi, meno di quattro mesi dopo la sconfitta di Isis, la città in qualche modo vede la popolazione tornare. Al contrario Raqqa è vuota, spettrale, un nucleo urbano di rovine. Con i negozi sventrati: attraverso le saracinesche divelte si vede la mercanzia abbandonata. Accanto, gli scheletri anneriti delle automobili bruciate, l’olezzo del cibo avariato, vestiti per la strada, stracci impolverati a segnare fughe precipitose, masserizie dei bivacchi dei soldati, lattine vuote. E tanti cani randagi, nervosi, spaventati.
La cerimonia
I responsabili dell’enclave curda-siriana hanno voluto organizzare ieri proprio nello stadio la cerimonia per la dichiarazione della vittoria. Non è un caso. Qui sono avvenuti gli scontri più feroci negli ultimi giorni. L’Isis aveva utilizzato le sue massicce strutture di cemento per montare l’ultima disperata resistenza. I suoi sotterranei sono ottimi rifugi da cui partono dedali di tunnel che permettono ottime vie di fuga e il lancio di imboscate dietro le linee nemiche. Ovvio che i capi del gruppo abbiano avuto tutto il tempo per allestire il carcere.
All’entrata sottoterra si trovano le cucine, gli archivi, gli uffici. Sul muro è appeso un cartello con le regole per gli interrogatori. «Ordini per il trattamento dei prigionieri al loro arrivo», si legge. «Verifica sempre che le informazioni siano vere. Sequestra documenti, portafogli e cellulari. Prendete le carte Sim, controllate le memorie, le immagini. Prendete le loro identità e le loro foto, che siano chiare». Attenzione agli stranieri: «Se non parlano arabo occorre un bravo traduttore, scrivete tutto e archiviatelo».
Il motivo di tanta meticolosità è evidente scorrendo i ghirigori di scritte sui muri della dozzina di grandi celle che seguono. Le inferriate sono state aggiunte solo di recente. Chiaro che qui non stavano anche tanti militanti. «Tra i prigionieri c’erano soprattutto quelli che non rispettavano le regole della legge religiosa e ovviamente i sospettati di voler disertare», racconta Hassan Ghadi, 38 anni, che tra il giugno-luglio rimase in cella 36 giorni. È lui a mostrarci la lugubre «cella 48», dalla larghezza dell’antro dove erano costretti in piedi i condannati all’isolamento. Ci sono scritte in francese, russo, ceceno, azero, inglese, turco. Sono firmate tra i tanti da Huzeyer Azeri, Abu Salman al Franci (il francese), Abu Saeed al Britani. Uno di loro scrive in arabo: «L’uomo non può ottenere tutto ciò che vuole. È come il vento che contrasta le rotte delle navi». Un altro osserva: «I muri sono i confini dei prigionieri. Ma ora non è rimasto nulla dentro di me, se non le lacrime dei mei occhi».
Avanzando per il corridoio scuro, con il pavimento coperto di calcinacci, le celle si fanno più strette. «Nelle prime erano rinchiusi anche oltre cento prigionieri alla volta. Ma in quelle più avanti venivano portati quelli destinati alla tortura. Le loro grida si sentivano soprattutto di notte», racconta un combattente curdo che è stato a sua volta chiuso qui dentro nel 2016. Nei periodi di massimo affollamento si era giunti a oltre 2.000 detenuti. Lui ci mostra la stanza delle torture. Vi si trovano due attrezzi per il sollevamento pesi. Una volta le usavano gli atleti per allenarsi. L’Isis le aveva trasformate in macchine per spezzare gradualmente la schiena ai detenuti. Una tortura lenta e letale, che lasciava alla vittima tutto il tempo per soffrire prima di spirare.
Pazienza e gps
Un jihadista di origine inglese consiglia a chi lo legge di «avere pazienza, tanta pazienza, e confidare in Allah». Spiega che uno dei motivi per le punizioni è l’impiego errato della rete e l’accesso ai «siti sbagliati». Osserva: «Se mi leggi probabilmente sei stato scoperto a utilizzare il tuo cellulare tenendo aperta la localizzazione del gps. Non lo puoi fare. È vietato, non rivelare mai la nostra posizione. Ora devi solo avere fiducia nella clemenza del Profeta e pregare». Un altro appena sotto sullo stesso muro nota in arabo che però, «qui la verità e la giustizia sono state dimenticate». Segnale che, specie negli ultimi tempi, serpeggiavano malumore e pessimismo tra i militanti jihadisti di Raqqa?
«Certamente sì», rispondono i comandanti curdi. «La situazione per loro ha iniziato a mutare quando non sono riusciti a prendere Kobane nell’autunno 2014. Sino ad allora l’Isis aveva continuato a ricevere volontari e a conquistare territorio. Poi è cominciata la loro progressiva ritirata sino alla sconfitta finale odierna», dicono festeggiando nello stadio in un tripudio di canzoni marziali e sventolio di bandiere. Una verità confermata anche da Mohammad Abdallah, un sunnita 22enne di Raqqa che adesso scrive per un sito online locale e ha scelto di affiancarsi alla causa curda e di plaudire entusiasta all’intervento Usa. «Inizialmente la grande maggioranza della popolazione sunnita si è schierata con l’Isis. Nessuno criticava i loro metodi brutali, neppure le decapitazioni o le teste mozze infilate sulla palizzata in Piazza Inferno», racconta accompagnandoci nella piazza in un viale circondato di macerie a circa 300 metri dallo stadio. A suo dire la svolta fu nel gennaio 2015, quando crescevano le liste dei caduti sotto le bombe americane: «Con le sconfitte militari sono cresciute le imposizioni contro la libertà di movimento delle donne. Gli uomini hanno dovuto far crescere lunghe barbe e accorciare i baffi. Poi ci sono state le prime crocifissioni per i cosiddetti infedeli. E la gente ha preso le distanze». Parole che sintetizzano la sfida che attende i vincitori: riusciranno ad avviare il dialogo coi sunniti? Sapranno trasformare la vittoria in successo politico? A visitare i campi profughi attorno a Raqqa i dubbi emergono. In quello di Ain Issa, i giovani sunniti di Raqqa, ma anche della vicina Deir Azzor, affermano aggressivi che non accetteranno mai di essere governati da Bashar Assad. «Quello di Damasco è un regime criminale, che è sopravvissuto grazie all’aiuto di russi, sciiti e iraniani. Non ci sarà pace sino a quando prevarrà questo stato di cose». Una posizione diversa dai curdi siriani, che comunque sono bene attenti anche adesso ad evitare lo scontro frontale con il regime e parlano di «Siria unita, democratica e federale».
Familiari
Probabilmente la prova del nove per una coesistenza pacifica sarà il trattamento delle centinaia di famigliari dei 275 combattenti Isis locali che una settimana fa hanno accettato di arrendersi (ora in una prigione curda). Assiepati in tende di fortuna alla periferia di Ain Issa, sono controllati a vista dai militari. Nessuno può uscire dal campo , gli interrogatori sono serrati. «Sono tutti filo-Isis. Si nascondono terroristi tra loro», mettono in allerta le sentinelle. Come dopo ogni evento bellico con vittime e distruzioni il sospetto regna sovrano. La polvere soffocante che domina sulle rovine di Raqqa prenderà ancora tempo prima di dissiparsi.