Corriere 1.10.17
Le «imam» delle carceri
Il progetto
sperimentale anti radicalizzazione su un migliaio di reclusi di 8
penitenziari italiani Fra le guide spirituali anche quattro donne:
«Spieghiamo il Corano, spesso ad analfabeti»
di Goffredo Buccini
La
prima volta, al carcere di Bollate, non tutti le hanno prese sul serio:
alcuni sono rimasti nelle celle, diffidenti o, forse, oltraggiati da
quella presenza femminile. Ma lei e la sua collega Soraya non si sono
perse d’animo. «Abbiamo parlato del perdono», dice: « Se il Creatore
perdona noi, noi dobbiamo perdonarci a vicenda... ». Libro alla mano,
Sura 39, versetto 35: « Allah cancellerà le loro azioni peggiori e li
compenserà per ciò che di meglio avranno fatto».
Yamina e le altre
Già,
perché Yamina Salah se l’è studiato a fondo, il Corano, s’è laureata in
diritto islamico ad Algeri, è presidentessa delle donne musulmane
d’Italia e può spiegare detti e precetti del Profeta a chi non è neppure
in grado di leggerli («in prigione abbiamo trovato un 70 per cento di
analfabeti tra la nostra gente, tanti non hanno fatto neppure le scuole,
per questo sono così rigidi, chiusi»).
L’Ucoii, la più forte
organizzazione islamica italiana, ha mandato lei e Soraya Houli a
Milano, la marocchina Fatna Ajiz a Verona e la tunisina Fattum Boubaker a
Canton Mombello, nel Bresciano, a predicare tra i detenuti che vengono
da Paesi musulmani, per prevenire la radicalizzazione, sostituire parole
di tolleranza a litanie di rancore: quattro guide spirituali in
aggiunta a otto imam accreditati dal nostro ministero. «Un salto
culturale», dice Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia: «Una
delle maggiori distorsioni del radicalismo sta proprio nel
disconoscimento del valore delle donne».
Il progetto sperimentale
«La
prima volta erano cinquanta detenuti, nel teatro del carcere», racconta
Yamina (Bollate ha un’importante tradizione di recupero legata alle sue
attività teatrali): «Poi abbiamo sentito le voci che giravano tra
loro... “sono donne in gamba”, dicevano. È andata meglio». Il progetto,
in gestazione per oltre un anno, è infine partito sei mesi fa: in
collaborazione tra il Dap (il nostro dipartimento penitenziario) e
l’Unione delle comunità islamiche d’Italia. L’Ucoii, un tempo assai
vicina alla Fratellanza Musulmana, è stata riformata con coraggio dal
suo presidente Izzedin Elzir, palestinese di Hebron, imam a Firenze,
convinto che la fede sia una libera scelta e il velo lo sia ancora di
più (ha una figlia diciassettenne, Lin, che, benché credente, non lo
indossa): «Alle donne che subiscono imposizioni o violenze noi diciamo:
denunciate, denunciate, denunciate».
I numeri
Le carceri
coinvolte nel progetto pilota sono per il momento otto (Torino, Cremona,
Modena, Sollicciano a Firenze, San Vittore a Milano oltre a Bollate,
Canton Mombello e Verona). La partecipazione va dagli 80 ai 140 detenuti
per carcere: dunque circa un migliaio di detenuti sugli undicimila
provenienti da Paesi islamici oggi reclusi in Italia. È un inizio, un
segno. Secondo il XIII rapporto dell’associazione Antigone (che cita il
ministero della Giustizia) i detenuti islamici a rischio sarebbero 365.
Di questi, 165 sono «monitorati» («con condanne o precedenti di
proselitismo»); 76 «attenzionati» (per atteggiamenti che fanno
«presupporre la vicinanza all’ideologia jihadista», il più scontato dei
quali è l’esultanza dopo gli attentati) e «124 segnalati» («per
relazioni con soggetti che appartengono ai due precedenti livelli»). Un
aggiornamento delle cifre, benché non ufficiale (si tratta di dati
riservati), induce a ritenere che sensibili al contagio jihadista
possano essere al momento almeno quattrocento detenuti. I criteri sono
elaborati dal Nic, il nucleo investigativo centrale della polizia
penitenziaria, e dal Casa, il comitato di analisi strategica
antiterrorismo.
Migliore sostiene che al Casa circolino «ogni
settimana notizie aggiornate che vengono dal carcere e dal mondo attorno
al carcere». Il rapporto con le comunità «è fondamentale», dice, per
conoscere e prevenire. Ma il terreno è assai accidentato. Il criminologo
Alvise Sbraccia ha spiegato per il dossier di Antigone come gli imam
venuti dall’esterno, per bravi e motivati che siano, vengano spesso
considerati «spie» dai detenuti musulmani che preferiscono scegliersi un
imam tra i compagni di prigionia (per l’Islam, imam può essere chiunque
diriga la preghiera e venga eletto dagli altri). Ciò fa capire perché
in dieci anni siano stati appena 22 gli imam accreditati dal ministero
dell’Interno e ammessi nei nostri istituti di pena. E in fondo dà anche
la misura della sfida lanciata dall’Ucoii.
La sfida
Gli
italiani convertiti all’Islam sono un centinaio. «E non devono
assolutamente radicalizzarsi perché non potrebbero neppure essere
espulsi, appunto in quanto italiani», ragiona Izzedin Elzir: «In carcere
ci si può convertire per cose semplici, piccole, per gentilezza, per un
dattero...». Nel totale dei detenuti a rischio vanno naturalmente
compresi i più a rischio di tutti, quei 44 arrestati per reati di
terrorismo internazionale, sottoposti al regime di As2 (alta sicurezza
2) a Sassari e Rossano Calabro. Da laggiù, la strada delle guide
islamiche e della ragione contro il radicalismo appare ancora tutta da
inventare.
«Eppure dobbiamo spiegare a queste persone, che
proclamano con durezza “il Profeta ha fatto così, il Corano dice così”,
come nella pratica dell’Islam ci siano tante cose che si possono fare in
modo più leggero, più facile», sorride lieve Yamina. Che si coccola il
ricordo migliore: «A giugno un ragazzo che doveva essere scarcerato mi
ha detto: “Quale moschea mi consigli?”. Aveva paura di finire in una
moschea radicale, cercava già il pensiero più equilibrato. Uscendo ha
pianto».