Corriere 19.10.17
«La repressione non basta, la corruzione va prevenuta»
Per He Jiahong l’indipendenza del sistema giudiziario è un valore. «Altrimenti è sopruso»
di G. Sant
PECHINO
Xi Jinping dice che il Partito continuerà a spazzare via i corrotti.
Già più di un milione e trecentomila funzionari sono stati puniti da
fine 2012. Questa massa di purgati odia il governo? Lo chiediamo a He
Jiahong, professore di diritto penale all’Università Renmin di Pechino e
nel tempo libero scrittore di romanzi criminali (in Italia Mursia ha
pubblicato «La donna pazza»). «Non posso leggere nella loro anima, ma
penso di sì», dice il giurista e spiega: «Incarcerati, hanno confessato,
è stata la rovina e l’umiliazione per le loro famiglie, è credibile che
provino odio».
E questo risentimento di massa non è un pericolo
per la stabilità cinese? «In un certo senso sì, c’è lotta politica, ma
parliamo sempre di una frazione della nostra burocrazia, che conta 9-10
milioni di funzionari. E poi la campagna anticorruzione ha il sostegno
della gente, che odia chi abusa del potere. Quindi la battaglia
proseguirà, anche se ora dovrebbe esserci un cambiamento di focus, dalla
semplice repressione alla prevenzione, altrimenti continueremo a dover
processare i ladri per 40 anni e nel frattempo se ne aggiungeranno molti
altri».
He Jiahong è un giurista e intellettuale che spiega la
Cina dal suo interno, con libertà di pensiero, senza superare la linea
rossa. Già nel 2008 aveva proposto un’amnistia e una legge che imponesse
ai funzionari di dichiarare il loro patrimonio in pubblico. La
priorità, nella sua visione dovrebbe essere «non la corruzione di ieri
ma quella di domani». La proposta è stata bocciata: «Mi hanno detto che
sarebbe stata impopolare e politicamente rischiosa».
Il giurista
si è concentrato sull’indipendenza del sistema giudiziario, che ora
dipende dal potere politico e, soprattutto lontano dalle città, porta a
soprusi e «punizioni selettive». «Nelle contee il capo locale del
Partito controlla la corte e quindi è facile interferire», spiega. Entro
fine anno il controllo dovrebbe passare a livello provinciale e secondo
He si tratta di un buon passo.
Il professore, nato nel 1953 a
Pechino, aveva 13 anni quando cominciò la Rivoluzione Culturale: «Mi
sentivo molto rivoluzionario, andai anch’io a zappare in campagna, ma
poi capii che in quella fase si era aperto un buco nero nella storia
della Cina». Però non mette in dubbio il primato del Partito.
«Democrazia in cinese si dice “min zhu”, che significa “popolo padrone”,
senza dover andare alle urne perché c’è già il Partito comunista a
rappresentarlo. La democrazia occidentale non può essere esportata, al
massimo importata, altrimenti finisce come in Iraq e in Siria; il
multipartitismo da noi porterebbe al caos e sarebbe un disastro: la Cina
ha una storia di guerra civile che non è bene per la gente, si muore».