Corriere 18.10.17
Raqqa è libera. La sconfitta dell’Isis
dal nostro inviato Lorenzo Cremonesi
Le forze curdo siriane strappano ai jihadisti la loro «capitale», oltre 2 mila civili uccisi nella battaglia
di Lorenzo Cremonesi
Mardin
(confine turco-siriano) Isis non c’è più. Per come lo abbiamo
conosciuto, questo criminale movimento dell’estremismo islamico perde
ciò che più lo caratterizzava rispetto ad Al Qaeda e agli altri gruppi
jihadisti nella nostra era: la dimensione territoriale. La sua capitale è
trasformata in un cumulo di macerie, i suoi militanti siriani arresi
con le famiglie. Quelli più pericolosi, i volontari stranieri, morti a
centinaia nell’ultima battaglia senza speranza. L’annuncio della «presa
totale» di Raqqa ieri a metà mattina segna un momento cruciale nella
lotta contro il terrorismo religioso sunnita nato e cresciuto nel Medio
Oriente post-2001. Preso l’ospedale centrale lunedì mattina, debellati
poi ieri entro mezzogiorno i nidi di resistenza nella gigantesca
struttura dello stadio municipale, le bandiere gialle con la stella
rossa dei curdi hanno cominciato a sventolare ovunque.
Era almeno
una decina di giorni che dal quartiere generale delle milizie curde
siriane a Qamishli si parlava di «vittoria imminente». «Abbiamo preso
tutta la cittadella medioevale. Isis è totalmente accerchiato. I suoi
militanti locali cercano di scappare con le famiglie. Stiamo dando la
caccia agli stranieri», ci dicevano i portavoce delle Ypg, le «Unità di
Difesa Popolare», che assieme alle Ypj, le corrispettive unità
femminili, contano circa 35 mila combattenti e costituiscono la ben
oliata macchina militare dei curdi. A loro sono affiancati alcuni
battaglioni di arabi locali. L’intera forza è oggi raggruppata sotto la
bandiera delle Forze Democratiche Siriane (Sdf). E sono stati i loro
rappresentanti a dichiarare senza tentennamenti che «l’intera Raqqa è
stata liberata». Ma nel Rojava, la regione autonoma curda, è ben
evidente che sono proprio i curdi ad aver motivato e guidato il
combattimento. Non a caso già il presidente Obama aveva puntato su di
loro per combattere Isis in Siria e Trump non ha cambiato strategia.
Ciò
che era osservabile chiaramente nei cinque giorni della nostra visita
sul fronte della città assediata lo scorso luglio è che un ruolo
fondamentale l’hanno avuto le forze aeree americane, compresa l’intensa e
continua presenza dei droni, oltre alle operazioni mirate delle truppe
scelte Usa sul campo. Ed è questa una delle differenze più rilevanti tra
i nove mesi della battaglia per Mosul e i cinque per Raqqa. Se infatti
la prima in Iraq ha visto impegnati i curdi locali (i peshmerga) solo
nelle prime fasi lungo la piana di Ninive e nelle zone cristiane, con la
parte del leone giocata dall’esercito iracheno da sud coadiuvato dalle
milizie sciite e dall’Iran con il sostegno aereo Usa, a Raqqa le Ypg
sono state l’attore indiscusso grazie all’appoggio americano. E ieri
ancora gli americani invitavano a non indugiare sull’esaltazione della
vittoria. Un centinaio di jihadisti sarebbe ancora in vita. «Ci sono
sacche di resistenza dell'Isis a Raqqa. Ci vorrà qualche tempo prima che
possano venire battute definitivamente», ha dichiarato il colonnello
Ryan Dillon, portavoce della missione Usa in Siria.
Lo scenario
della battaglia è quello ormai tristemente noto delle guerre urbane
contemporanee. Almeno la metà degli edifici distrutti o inagibili,
strade coperte di macerie e rottami, ovunque il lezzo della
decomposizione e soprattutto onnipresente la minaccia delle mine, delle
trappole bomba, degli ultimi cecchini irriducibili. I morti negli ultimi
cinque mesi sarebbero almeno 3.250, tra cui 1.130 civili. Altre fonti
alzano il dato a quasi 2 mila. Ma i bilanci potrebbero essere peggiori.
Tanti morti restano sepolti sotto le rovine. I profughi nella regione
sono oltre 270 mila. A Raqqa si cercano i sopravvissuti casa per casa.
La
svolta è arrivata domenica mattina quando i leader tribali locali hanno
negoziato la resa di circa 300 jihadisti siriani, che hanno lasciato la
città con le famiglie. Restavano alcune centinaia di volontari
stranieri, forse oltre 300. Almeno 22 sono stati uccisi nella battaglia
dell’ospedale. Tanti altri sono cadaveri irriconoscibili nel dedalo di
gallerie in cemento armato costruite sotto lo stadio. Ma alcuni
potrebbero essere semplicemente nascosti e pronti a colpire. Hanno
bruciato i loro documenti, sono nascosti in gallerie e buche. I servizi
segreti occidentali, tra loro quello francese, temono che possano venire
a colpire in Europa. Lo stesso problema si era presentato a Mosul
quattro mesi fa. Al momento si stanno rastrellando con cautela i vicoli
della città vecchia. Da tre giorni l’aviazione Usa non tira più per
evitare vittime «da fuoco amico».
Più a sud, lungo la valle
dell’Eufrate, sino alla cittadina di Deir ez-Zor e al confine con l’Iraq
sunnita, sono l’esercito siriano con gli alleati russi e l’Hezbollah
sciita a tentare l’ultima mazzata alle regioni ancora controllate
dall'Isis. Ma saranno scaramucce. Il serpente ormai ha perso la sua
testa.