Corriere 17.10.17
Lutero aiutò il papato
La Chiesa di Roma riuscì a rinnovarsi stimolata dalla sfida della riforma
di Paolo Mieli
A
cinquecento anni dalla pubblicazione delle 95 tesi di Wittenberg contro
le indulgenze papali, Adriano Prosperi ha ricordato, nella premessa al
suo Lutero. Gli anni della fede e della libertà (Mondadori), la
diffusissima convinzione dell’epoca che da quell’evento «cominciasse la
nuova storia del mondo», un’idea che prese a circolare già allora,
ispirando la prima grande opera storica sull’argomento, i Commentarii de
statu religionis et reipublicae , scritti da Johann Sleidan a metà
Cinquecento. Prosperi ricorda altresì che la «religione laica dei
centenari» ebbe la propria origine un secolo dopo proprio con la
«celebrazione luterana» del 1617, «indetta nella Germania
dell’incipiente guerra dei Trent’anni». Ed è perciò naturale che,
trascorso mezzo millennio dall’inizio della Riforma di Lutero, ci si
interroghi sulla portata e sul senso che quell’evento, nonché il secolo e
mezzo che ne seguì, ebbero sull’Europa. E qualcuno lo fa puntando i
riflettori sulla parte per così dire conclusiva delle guerre di
religione.
La guerra dei Trent’anni (1618-1648) fu per il nostro
continente un’esperienza particolarmente traumatica. Addirittura
sconvolgente, simile forse a quella percepita, tre secoli dopo, ai tempi
della Prima e della Seconda guerra mondiale. Nel 1635, Hans Conrad
Lang, un commerciante di stoffe di Costanza, raccontò come, a parer suo,
quello a cui gli era dato di assistere fosse qualcosa che non si era
mai visto «nella storia». Il 23 gennaio 1643, il predicatore inglese
Jeremiah Whitaker dichiarò nel corso di un sermone essere i suoi tempi
particolarmente «agitati» e notò come questa agitazione fosse
«universale» dal momento che aveva coinvolto il Palatinato, la Boemia,
la Germania, la Catalogna, il Portogallo, l’Irlanda oltreché
l’Inghilterra. Un anno dopo il diplomatico svedese Johan Salvius
osservava: «Sentiamo di rivolte del popolo contro i sovrani ovunque nel
mondo». E si chiedeva se tutto ciò non dovesse essere spiegato «con
qualche configurazione generale delle stelle in cielo». Il langravio
d’Assia nella sua Storia metereologica scrisse che all’origine di
quell’immane conflitto doveva esserci il «clima disordinato» provocato
da qualche allineamento di pianeti. L’ecclesiastico gallese James Howell
diede, per l’accaduto, una spiegazione in più: «Dio Onnipotente ce l’ha
da qualche tempo con tutta l’umanità e si è fatto trascinare dal
cattivo umore a travolgere tutta la terra… In questi ultimi anni infatti
sono accadute le più strane rivoluzioni e, non solo in Europa ma in
tutto il mondo, le cose più orrende successe all’umanità in un così
breve arco di tempo, oserei dire dalla caduta di Adamo». E potremmo
continuare a lungo con citazioni di personaggi di tutte le età e delle
più varie estrazioni sociali che dissero o scrissero qualcosa di analogo
in quegli anni. Quello a cui stavano assistendo era un cataclisma di
proporzioni planetarie.
Gli storici — nota adesso Mark Greengrass
in La cristianità in frantumi. Europa 1517-1648 che Laterza sta per
mandare in libreria nell’eccellente traduzione di Michele Sampaolo —
sono stati inclini a legare insieme queste ansie nonché le varie rivolte
e disordini del periodo finale della guerra dei Trent’anni in una
«crisi generale», la prima che veniva largamente percepita come
«europea». Probabilmente « i contemporanei avevano ragione a
interpretarla come una crisi globale». Quali i motivi? Ci sono
certamente «prove per pensare che le turbolenze meteorologiche ebbero un
impatto lacerante sulle civiltà insediate nel pianeta verso la metà del
XVII secolo». È possibile, prosegue Greengrass, «persino probabile» che
questo a sua volta abbia scombussolato «i modelli di commercio mondiale
che si stavano profilando, che riguardavano (in particolare) i flussi
di metalli preziosi verso l’Europa».
Le varie regioni economiche
del mondo globalizzato erano «come stagni di differenti profondità
collegati fra loro da canali». E questi canali «facilmente si seccavano o
venivano bloccati dalla guerra e altri sconvolgimenti. Sicché Paesi i
quali, per i loro mezzi di sussistenza, dipendevano dall’attività
economica che si svolgeva fra una regione e l’altra, venivano «lasciati a
lamentarsi» dell’impatto distruttivo provocato dal fallimento dei
mercati e (in particolare) dalla impossibilità di vendere merci.
Tutte
questo provocò un indebolimento della coesione sociale e culturale
dell’Europa, crescenti divisioni fra il mondo urbano e quello rurale,
una maggiore divergenza economica fra Nord e Sud, «per non parlare del
sempre minore consenso intellettuale» alle classi dirigenti. E un’ansia
diffusa. Le varie rivolte e sollevazioni della metà del Seicento ebbero
alcuni elementi comuni. Si verificarono su scala regionale e nazionale,
«il che indica che la natura del localismo d’Europa si era riconfigurata
in qualcosa di più ampio, mobilitato da media e forze sociali che erano
nuove». Esse furono altresì guidate perlopiù da personaggi
conservatori, spinti a mantenere quelle che consideravano come «versioni
vernacolari della legge, della tradizione e a volte della religione,
contro forze che essi vedevano come aliene (lo Stato), empie o
semplicemente poco attendibili». Tutto questo potrebbe indurci a
ritenere che la storia di quello che venne dopo sia stato una
risoluzione di quella crisi con la transizione a un mondo molto diverso
da quello che era venuto prima. «Ma non fu così», afferma Greengrass.
L’Europa «non cambiò fondamentalmente». Non ci fu un nuovo ordine
internazionale. Eppure, nel secolo che seguì la Riforma protestante, era
accaduto qualcosa di fondamentale. Cosa?
Nel primo millennio del
cristianesimo occidentale, è la ricostruzione di Greengrass, «la
cristianità si era sviluppata senza un’idea elaborata di dove si
trovasse il suo centro e quindi dove fossero le sue periferie». Esisteva
«una moltitudine di micro-cristianità legate insieme». Poi dopo il
1054, allorché il Papa di Roma e il Patriarca di Costantinopoli si
scomunicarono reciprocamente, nella parte centrale del Medioevo e in
conseguenza della rottura con l’Oriente, «la cristianità occidentale
sviluppò un senso più articolato del centro e della periferia con il
pieno emergere di due unità al contempo geografiche e ideologiche: il
papato e il Sacro Romano Impero». Le loro rivendicazioni di autorità
«furono forgiate, in concorrenza l’una con l’altra, da teologi,
giuristi, teorici della politica e intellettuali in un’atmosfera di
fiducioso universalismo». Questo ideale «fu favorito dalle
trasformazioni economiche del periodo, con la straordinaria crescita dei
mercati e del commercio interregionale e internazionale, e da matrimoni
e alleanze diplomatiche dell’aristocrazia». «Cristianità» è il termine
con cui «gli uomini dotti del XII e XIII secolo designarono il mondo dei
cristiani latini dell’Europa occidentale».
La Chiesa cattolica
romana era il «pilastro centrale» della comunità di fede del
cristianesimo latino. Le sue élites intellettuali si erano formate
intorno a una lingua internazionale (il latino, in contrapposizione con
il greco) e con un percorso di studi (incentrato sulla filosofia e la
logica di Aristotele) e indirizzo (la scolastica) comuni. Gli inviati
papali condividevano con i consiglieri dei principi «uguali concezioni
teocratiche e burocratiche circa l’origine del potere e il modo in cui
doveva essere esercitato e legittimato». Le Crociate rappresentarono il
progetto più ambizioso della cristianità occidentale. All’epoca il
battesimo era considerato un «rito di iniziazione universale». Quelli
che non erano cristiani battezzati (gli ebrei, i musulmani)
«costituivano, nel Medioevo centrale, una presenza significativa ai
margini della cristianità occidentale, tollerata proprio perché non
erano parte della comunità di fede». Ma quando «i regni cristiani
spinsero le frontiere del cristianesimo latino verso il Sud in Spagna e
nell’Italia meridionale segnati dalla presenza araba, la loro rilevanza
come rappresentanti di forze straniere non appartenenti alla cristianità
sembrò aumentare».
La cristianità era, secondo il libro di
Greengrass, una «costruzione ipersensibile» che si sentiva spesso
minacciata. A dire il vero «i suoi nemici più pericolosi non erano i non
cristiani». La sua gerarchia di potere era «vulnerabile soprattutto
agli attacchi di una diversa e variegata categoria di persone»: coloro
che «erano legati a particolari realtà locali, per le quali le
aspirazioni universalistiche della cristianità significavano poco o
niente».
Sparsi in tutta l’area dell’Europa occidentale, al di là e
contro i meccanismi dell’ordine universale del Sacro Romano Impero
(esteso in tutta l’Europa centrale, e il cui titolo segnalava la pretesa
di essere in continuità con l’Impero romano e di dar vita ad una forma
temporale di signoria universale) nonché della Chiesa, c’erano migliaia
di villaggi e parrocchie i cui abitanti erano quasi sempre gravati dal
peso di obblighi verso i loro signori feudali che li «rendevano servi».
Queste comunità erano affiancate da città che avevano tratto grande
beneficio dalle trasformazioni economiche del Medioevo centrale. E ciò
non faceva che aumentare «i sospetti nei confronti delle ambizioni
cosmopolite e la burocrazia dell’ordine internazionale».
Quanto
più «il senso di centro e periferia all’interno della cristianità» andò
accrescendosi, tanto più a livello locale le persone divennero
«insofferenti» a causa del tempo che dovevano perdere per ottenere «i
permessi dall’alto». Molti ce l’avevano con le tasse che dovevano pagare
per sostenere la Chiesa universale e «non si fidavano granché del tanto
strombazzato progetto sovranazionale delle Crociate». A partire dal XII
secolo, questi sentimenti «cominciarono a straboccare in contestazione o
in eresia (che costituì un grave problema epidemico) e in forma anche
più minacciosa nella mente di quelli che più avevano a cuore gli ideali
proposti dalla cristianità».
La fiducia in questi ideali fu ancora
più intaccata dalla Peste Nera del Trecento e dalla crisi economica che
ne seguì. La servitù e le prestazioni feudali divennero oggetto di
contestazione allorché qua e là si levarono persone ad affermare che
quanto esse rivendicavano non erano altro che «diritti di cui avevano
goduto in passato». Fu qui che la credibilità della Chiesa a livello
locale entrò in discussione. Lo scisma avignonese (1378-1417) fece il
resto: «L’esistenza di due linee di Papi divise i cristiani fra quelli
fedeli a Roma e quelli che sostenevano il Papa di Avignone,
stigmatizzato dai suoi nemici come burattino nelle mani di una
disgregante monarchia francese». Fu qui che la cristianità iniziò ad
andare in frantumi e a poco a poco nacque l’Europa.
Ma cosa era la
cristianità? Ci sono, risponde Greengrass «molti miti a proposito del
Medioevo». La maggior parte di essi ebbe origine tra XVI e inizio XVII
secolo, quando per la prima volta cominciò a profilarsi l’idea di un
«Evo di mezzo». La cristianità non era fra questi miti. Anzi, al
contrario, «essa era una mito creato dal Medioevo riguardo se stesso».
L’idea di cristianità «descriveva il progetto (e il connesso apparato
intellettuale e istituzionale) che univa il cristianesimo occidentale».
Il periodo successivo alla Riforma protestante «conobbe la progressiva e
infine totale disintegrazione di quel progetto, e del mito che gli
stava dietro». Nel 1650, al termine di questo tragitto, la cristianità
si ritrovò «ormai devastata ed estenuata, ridotta in pezzi». L’Europa,
«che somiglia sempre di più a ciò che un tempo era stata la cristianità
quale allora veniva concepita», non costituì più un progetto, ma «una
semplice proiezione geografica, una mappa su cui potevano essere
tracciate le sue divisioni, un modo per rappresentare la sua
frammentazione politica, economica e sociale». E che cosa significò
tutto questo per la Chiesa?
Secondo lo storico tedesco, Heinz
Schilling, la Chiesa romana dovrebbe ringraziare Martin Lutero per due
ragioni che Adriano Prosperi ha riassunto così: «Perché senza di lui non
si sarebbe liberata dalla mondanità del papato rinascimentale, e poi
perché fu grazie a lui che, in un mondo in rapido allontanamento dalle
dimensioni e dalla cultura del Medioevo, la fede tornò in auge come nei
secoli antichi».
Un concetto che si trova già, per le linee
essenziali, nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio di Niccolò
Machiavelli, a parere del quale era stata la «rinnovazione», come
ritorno ai fondamenti originari, che aveva mantenuto in vita quella
religione che per gli italiani non esisteva nemmeno più per colpa dei
«costumi rei» della corte papale. E che Prosperi fa suo concludendo il
Lutero con queste parole: «Si può dire che la tesi di Schilling è
abbastanza condivisibile: Roma può ringraziare Lutero, anzi lo sta già
facendo». A dire il vero, Papa Francesco lo ha già fatto.