sabato 14 ottobre 2017

Corriere 14.10.7
«Il mondo dovrebbe assistere alla ripresa della corsa iraniana all’atomica e alla proliferazione nucleare in Medio Oriente, senza escludere una guerra tra Iran e Israele o tra Iran e Arabia Saudita con probabile coinvolgimento americano in entrambi i casi. Si apre un conto alla rovescia ad altissimo rischio. E questo mentre è già aperto un braccio di ferro nucleare tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord»
Il calcolo rischioso
di Franco Venturini

Negando la periodica certificazione della Casa Bianca sull’accordo nucleare concluso con l’Iran nel luglio del 2015, Donald Trump ha dato ieri libero sfogo alla sua ben nota volontà di sradicare l’eredità politica di Barack Obama. Devono essere stati il timore delle conseguenze del suo gesto e i molti pareri contrari ricevuti, dagli alleati europei ma anche dai suoi più stretti collaboratori, a consigliarli di coprirsi le spalle: gli Usa non escono dal patto incriminato, e nessuna nuova sanzione contro Teheran è stata decretata dal presidente. Semmai, dovrà essere il Congresso a decidere in questo senso nei prossimi sessanta giorni. Così Trump può vantarsi di aver mantenuto la sua promessa elettorale, e il peggio sembra provvisoriamente scongiurato perché il patto di Vienna, sottoscritto anche da Gran Bretagna, Francia, Germania, Ue, Russia e Cina, sembra poter sopravvivere. Ma è una speranza, questa, che rischia di diventare illusione se il Congresso imporrà all’Iran nuove condizioni per mantenere la partecipazione Usa.
Le prudenze formali di Trump in tal caso si rivelerebbero inutili.
Il mondo dovrebbe assistere alla ripresa della corsa iraniana all’atomica e alla proliferazione nucleare in Medio Oriente, senza escludere una guerra tra Iran e Israele o tra Iran e Arabia Saudita con probabile coinvolgimento americano in entrambi i casi. Si apre un conto alla rovescia ad altissimo rischio. E questo mentre è già aperto un braccio di ferro nucleare tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord.
Le modalità scelte da Trump per annunciare la sua «de-certificazione» del comportamento iraniano, ritenuto invece conforme dall’Agenzia atomica dell’Onu, lasciano aperto qualche spiraglio alle pressioni degli alleati europei dell’America. Ma il tono quasi violento utilizzato dal presidente nel descrivere i molteplici peccati iraniani (e di Obama) non lascia molto spazio alle mezze misure. Le accuse contro gli esperimenti balistici e contro le imprese militari di Teheran in Siria, Iraq e Yemen, le attività terroristiche di oggi e di ieri, le violazioni dei diritti umani, si sono affiancate alla «autorizzazione» a varare nuove sanzioni contro le Guardie Rivoluzionarie, che sono l’architrave del potere iraniano. I pareri degli europei, secondo cui molte di queste attività possono essere discusse ed eventualmente sanzionate in sede diversa dal patto atomico, non sono stati tenuti in conto. E a ben poco è servito che il capo del Pentagono generale Mattis definisse l’intesa di Vienna «nell’interesse nazionale degli Usa».
Ma sparare all’accordo nucleare senza ucciderlo subito, come tenta di fare Trump, è una strategia dalle gambe corte per un buon numero di ragioni. La prima riguarda l’Iran, che vede un forte ridimensionamento del suo interesse al rispetto dell’accordo. Ridurre drasticamente la disponibilità di uranio arricchito e il numero delle centrifughe in cambio della levata delle sanzioni finanziarie che strangolavano il Paese poteva essere conveniente, due anni fa. Ma se ora si prospettano nuove sanzioni, perché non riprendere da subito quella via del nucleare che Teheran, con poca credibilità, assicura essere pacifica? Il risultato sarebbe allora quello di moltiplicare le inquietudini di Israele, che comprensibilmente non intende consentire che Teheran possieda l’arma capace di distruggerlo al primo colpo. Senza contare che i «pragmatici» firmatari dell’accordo nel 2015 verrebbero spazzati via dalla scena politica iraniana. E che diventerebbe, per ovvia mancanza di fiducia, ancora più ipotetica la possibilità di un accordo negoziato tra Stati Uniti e Corea del Nord.
Gli sforzi degli europei per limitare i danni si volgeranno ora verso il Congresso e i suoi sessanta giorni, con una strategia che prevede di riaffermare nel modo più fermo l’appoggio dei governi alleati al mantenimento dell’accordo e di esercitare pressioni sull’Iran nel settore missilistico e della politica regionale. Una ipotesi di riserva prevede poi di proporre alla Casa Bianca una formula innovativa: l’accordo di Vienna ci tutela soltanto per un decennio, questa è la sua vera debolezza; decidiamo allora di mantenerlo a patto che Teheran accetti di negoziare sul dopo 2025.
L’Italia, che ha rispettato il tempo delle sanzioni pur essendo stata in precedenza il primo partner economico dell’Iran, è in prima fila nel tentativo di salvare il salvabile. Serve, però, che il Congresso non giunga a nuove sanzioni, perché esse costringerebbero le imprese europee a scegliere tra gli accordi con l’Iran e quelli con gli Usa. Con il solito risultato: l’Iran non avrebbe più perché stare al gioco, e la corsa nucleare ripartirebbe.
Un accordo non perfetto ma prezioso, invece di essere migliorato, è stato probabilmente buttato nel cestino da Donald Trump. E quanto ai comportamenti dell’Iran, sono stati davvero migliori quelli dell’Arabia Saudita? A ben vedere gli europei sono attesi dalla prova internazionale più difficile della loro esistenza comune. Peccato che l’alleato americano non li aiuti.