Corriere 14.10.7
«Il mondo dovrebbe assistere alla ripresa
della corsa iraniana all’atomica e alla proliferazione nucleare in Medio
Oriente, senza escludere una guerra tra Iran e Israele o tra Iran e
Arabia Saudita con probabile coinvolgimento americano in entrambi i
casi. Si apre un conto alla rovescia ad altissimo rischio. E questo
mentre è già aperto un braccio di ferro nucleare tra gli Stati Uniti e
la Corea del Nord»
Il calcolo rischioso
di Franco Venturini
Negando
la periodica certificazione della Casa Bianca sull’accordo nucleare
concluso con l’Iran nel luglio del 2015, Donald Trump ha dato ieri
libero sfogo alla sua ben nota volontà di sradicare l’eredità politica
di Barack Obama. Devono essere stati il timore delle conseguenze del suo
gesto e i molti pareri contrari ricevuti, dagli alleati europei ma
anche dai suoi più stretti collaboratori, a consigliarli di coprirsi le
spalle: gli Usa non escono dal patto incriminato, e nessuna nuova
sanzione contro Teheran è stata decretata dal presidente. Semmai, dovrà
essere il Congresso a decidere in questo senso nei prossimi sessanta
giorni. Così Trump può vantarsi di aver mantenuto la sua promessa
elettorale, e il peggio sembra provvisoriamente scongiurato perché il
patto di Vienna, sottoscritto anche da Gran Bretagna, Francia, Germania,
Ue, Russia e Cina, sembra poter sopravvivere. Ma è una speranza,
questa, che rischia di diventare illusione se il Congresso imporrà
all’Iran nuove condizioni per mantenere la partecipazione Usa.
Le prudenze formali di Trump in tal caso si rivelerebbero inutili.
Il
mondo dovrebbe assistere alla ripresa della corsa iraniana all’atomica e
alla proliferazione nucleare in Medio Oriente, senza escludere una
guerra tra Iran e Israele o tra Iran e Arabia Saudita con probabile
coinvolgimento americano in entrambi i casi. Si apre un conto alla
rovescia ad altissimo rischio. E questo mentre è già aperto un braccio
di ferro nucleare tra gli Stati Uniti e la Corea del Nord.
Le
modalità scelte da Trump per annunciare la sua «de-certificazione» del
comportamento iraniano, ritenuto invece conforme dall’Agenzia atomica
dell’Onu, lasciano aperto qualche spiraglio alle pressioni degli alleati
europei dell’America. Ma il tono quasi violento utilizzato dal
presidente nel descrivere i molteplici peccati iraniani (e di Obama) non
lascia molto spazio alle mezze misure. Le accuse contro gli esperimenti
balistici e contro le imprese militari di Teheran in Siria, Iraq e
Yemen, le attività terroristiche di oggi e di ieri, le violazioni dei
diritti umani, si sono affiancate alla «autorizzazione» a varare nuove
sanzioni contro le Guardie Rivoluzionarie, che sono l’architrave del
potere iraniano. I pareri degli europei, secondo cui molte di queste
attività possono essere discusse ed eventualmente sanzionate in sede
diversa dal patto atomico, non sono stati tenuti in conto. E a ben poco è
servito che il capo del Pentagono generale Mattis definisse l’intesa di
Vienna «nell’interesse nazionale degli Usa».
Ma sparare
all’accordo nucleare senza ucciderlo subito, come tenta di fare Trump, è
una strategia dalle gambe corte per un buon numero di ragioni. La prima
riguarda l’Iran, che vede un forte ridimensionamento del suo interesse
al rispetto dell’accordo. Ridurre drasticamente la disponibilità di
uranio arricchito e il numero delle centrifughe in cambio della levata
delle sanzioni finanziarie che strangolavano il Paese poteva essere
conveniente, due anni fa. Ma se ora si prospettano nuove sanzioni,
perché non riprendere da subito quella via del nucleare che Teheran, con
poca credibilità, assicura essere pacifica? Il risultato sarebbe allora
quello di moltiplicare le inquietudini di Israele, che
comprensibilmente non intende consentire che Teheran possieda l’arma
capace di distruggerlo al primo colpo. Senza contare che i «pragmatici»
firmatari dell’accordo nel 2015 verrebbero spazzati via dalla scena
politica iraniana. E che diventerebbe, per ovvia mancanza di fiducia,
ancora più ipotetica la possibilità di un accordo negoziato tra Stati
Uniti e Corea del Nord.
Gli sforzi degli europei per limitare i
danni si volgeranno ora verso il Congresso e i suoi sessanta giorni, con
una strategia che prevede di riaffermare nel modo più fermo l’appoggio
dei governi alleati al mantenimento dell’accordo e di esercitare
pressioni sull’Iran nel settore missilistico e della politica regionale.
Una ipotesi di riserva prevede poi di proporre alla Casa Bianca una
formula innovativa: l’accordo di Vienna ci tutela soltanto per un
decennio, questa è la sua vera debolezza; decidiamo allora di mantenerlo
a patto che Teheran accetti di negoziare sul dopo 2025.
L’Italia,
che ha rispettato il tempo delle sanzioni pur essendo stata in
precedenza il primo partner economico dell’Iran, è in prima fila nel
tentativo di salvare il salvabile. Serve, però, che il Congresso non
giunga a nuove sanzioni, perché esse costringerebbero le imprese europee
a scegliere tra gli accordi con l’Iran e quelli con gli Usa. Con il
solito risultato: l’Iran non avrebbe più perché stare al gioco, e la
corsa nucleare ripartirebbe.
Un accordo non perfetto ma prezioso,
invece di essere migliorato, è stato probabilmente buttato nel cestino
da Donald Trump. E quanto ai comportamenti dell’Iran, sono stati davvero
migliori quelli dell’Arabia Saudita? A ben vedere gli europei sono
attesi dalla prova internazionale più difficile della loro esistenza
comune. Peccato che l’alleato americano non li aiuti.