Corriere 12.10.17
La riforma e la prova del budino
di Sabino Cassese
Attendiamo
con il dovuto scetticismo il nuovo parto del Parlamento in materia
elettorale. Si sono succeduti negli ultimi tempi due tentativi falliti,
di reintrodurre la legge Mattarella e di scegliere un sistema simile
(alla lontana) a quello tedesco. La nuova proposta (Rosato) contiene una
formula per un terzo maggioritaria, per due proporzionale. Pone la
soglia di sbarramento al 3 per cento. Consente pluricandidature. Prevede
listini bloccati, senza preferenze. Non consente voto disgiunto tra
liste e candidati. Principalmente, armonizza la formula elettorale delle
due Camere.
L’argomento principale a favore della proposta è
quello di rendere omogenei i sistemi elettorali della Camera e del
Senato. Ma ci si può chiedere se, bocciando, nel dicembre scorso, il
referendum costituzionale (che rendeva solo una delle due Camere
elettiva), il popolo italiano non abbia voluto implicitamente conservare
due Camere elette con sistemi diversi (come negli Stati Uniti), così
costringendo le forze politiche a mettersi d’accordo. In sostanza, se il
popolo italiano non riponga sufficiente fiducia in una sola forza
politica, rendendo così necessario governare mediando e negoziando (come
si è fatto per lunga parte della storia repubblicana).
Il sistema
che viene ora proposto, in questo terzo tentativo, ha una sua logica,
spingendo a coalizioni, di destra, di sinistra, o di altro tipo.
Se
i 5Stelle ne risultano danneggiati, è per loro colpa, perché rifiutano
orgogliosamente di coalizzarsi. Il sistema proposto consente di allearsi
restando separati, fa rivivere una quota maggioritaria, semplifica il
processo elettorale. Sono questi gli argomenti che dovrebbero utilizzare
i sostenitori della proposta Rosato, non l’argomento contingente che la
Corte costituzionale lasciò, nel pronunciarsi sulla legge Calderoli,
alcuni punti aperti, che possono esser ricuciti solo dalla legge (o da
un decreto legge approvato «in articulo mortis» dal governo e
necessariamente convertito in legge dal Parlamento successivo).
Sembrano
peccati veniali quelli relativi al modo di arrivare alla conclusione di
questi sforzi (si è fatto abbondante ricorso alla fiducia per ogni tipo
di decisione e l’alta maggioranza raggiunta in Parlamento, con una
parte delle opposizioni, compensa l’atto di forza del governo) e alla
modifica delle regole del gioco poco prima di cominciare il gioco
(procedura poco corretta, ma non illegittima costituzionalmente).
Il
mondo politico, in questi giorni, si chiede «con chi» si fa la nuova
legge elettorale. C’è chi si scandalizza che raccolga i consensi del
Partito Democratico, di Alternativa Popolare, di Forza Italia e della
Lega. C’è, invece, da porsi una domanda più importante: questa legge
elettorale sarà risolutiva? È una scelta fatta per durare, oppure
dovremo ricominciare da capo?
Questa è la domanda più importante,
ma è anche quella che nessuno si è posto e alla quale nessuno ha cercato
di dare una risposta. È una domanda cruciale perché la formula
elettorale serve a stabilire i modi in cui i voti si traducono in seggi,
la maniera con la quale viene interpretata la volontà del popolo. Per
questo motivo, le leggi elettorali sono patti tra società e Stato, tra
Palazzo e Piazza, tra Paese reale e Paese legale, patti più forti dello
stesso patto costituzionale. Le formule elettorali sono fatte per essere
a lungo rispettate, tant’è vero che nei principali Paesi democratici
del mondo sono molto longeve.
In Italia, questo patto viene
continuamente rimesso in discussione. In 150 anni di storia unitaria
abbiamo avuto 12 formule elettorali diverse, e il moto si è accentuato
recentemente, perché dal 1993 vi sono state tre leggi elettorali
(Mattarella, Calderoli, Renzi), e potremmo averne tra breve una quarta.
Per
rispondere alla domanda (è fatta per restare?), bisogna considerare che
la formula Rosato non risolve il problema della governabilità, o,
meglio, assume che esso venga affrontato e risolto mediante coalizioni:
il suo risultato è un sistema fondamentalmente proporzionale e non
cambia molto rispetto alle due leggi diverse, per Camera e Senato
(Calderoli e Renzi), ambedue corrette dalla Corte costituzionale. Per
coloro che amano misurare la governabilità chiedendosi se la sera del
voto il Paese saprà chi va al governo, la scelta in corso di discussione
è deludente.
La conclusione è che l’unica «prova del budino sta
nel mangiarlo». Voglio dire che, costringendo ad allearsi, questa
formula elettorale potrebbe anche garantire la governabilità, a patto
che le coalizioni siano stabili, che i patti siano duraturi, che gli
accordi siano particolareggiati. Quando due società si alleano, quando
una società ne acquista un’altra, quando due società si fondono, si
passano mesi a fare «due diligence». La cancelliera Merkel non pensa di
poter terminare prima di uno o due mesi il negoziato con i suoi
possibili alleati, anche perché sa che dovrà trattare su più tavoli.
Cristiano-democratici e socialdemocratici, negli ultimi governi tedeschi
di coalizione (2005, 2009 e 2013), hanno stipulato «contratti di
coalizione» molto dettagliati, che regolavano tutta l’attività di
governo per la durata della legislatura (l’ultimo era di circa 130
pagine).
Qui sta la «prova del budino»: le nostre forze politiche,
così divise al loro interno, saranno capaci di raggiungere accordi
tanto precisi e lungimiranti, destinati a durare, senza continuare a
suddividersi all’infinito al loro interno e, poi, a rompere gli accordi
con i loro avversari–alleati?