martedì 10 ottobre 2017

Corriere 10.10.17
E il college di Oxford mette al bando le associazioni cristiane
Il reverendo: «La libertà di religione e di fede è un principio fondamentale»
di Luigi Ippolito

Studenti cristiani messi al bando dal Balliol College, uno dei più prestigiosi dell’università di Oxford, perché la loro fede «procura danno» e propaga «l’omofobia e il neocolonialismo»: è l’ultima polemica che coinvolge gli atenei e il tema della libertà di parola, ma questa volta gli eventi hanno preso una piega a dir poco singolare. È accaduto che durante la fiera delle matricole — la settimana durante la quale i nuovi allievi vengono introdotti alla vita universitaria e alle varie attività — l’organo di rappresentanza degli studenti del Balliol College ha deciso di negare gli spazi all’Unione Cristiana (una delle principali organizzazioni studentesche) perché «preoccupati dal potenziale danno per le matricole». Infatti, a loro dire, «l’influenza del Cristianesimo su molte comunità marginalizzate è stata dannosa nei suoi metodi di conversione e nelle sue regole pratiche, ed è ancora usata in molti luoghi come una scusa per l’omofobia e certe forme di neocolonialismo». Va detto che l’università di Oxford in quanto tale non c’entra niente con tutto ciò e che la stessa assemblea degli studenti, riunita domenica, ha condannato l’operato dei rappresentanti in quanto «violazione della libertà di parola e di religione». E alla fine si è deciso di autorizzare la presenza di uno stand multiconfessionale, pur senza esponenti di gruppi religiosi. Ma la polemica era ormai divampata, provocando l’intervento del reverendo Nigel Genders, responsabile per l’educazione della Chiesa anglicana, che ha sottolineato come «la libertà di religione e di fede è un principio fondamentale che sorregge il nostro Paese e le sue grandi istituzioni e università». La gran parte dei college di Oxford venne fondata nel Medioevo ad opera di vescovi e monaci cristiani e al loro interno sono collocate splendide cappelle: che però sono state oggi riconvertite in spazi di preghiera e meditazione multiconfessionali. Anche il Balliol sorse nel 1263 sotto gli auspici del vescovo di Durham e ha educato nelle sue aule diversi primi ministri, nonché Boris Johnson.

Corriere 10.10.17
Attico di Bertone Per Profiti chiesti tre anni

Tre anni di reclusione per Giuseppe Profiti, ex presidente del Bambino Gesù. È la richiesta del Promotore di giustizia vaticano per il manager accusato, quando era alla guida della Fondazione dell’ospedale, di aver utilizzato 422 mila euro per finanziare la ristrutturazione dell’appartamento dell’ex Segretario di Stato, il cardinale Tarcisio Bertone. La motivazione di volere fare in quella sede attività di raccolta fondi per l’ospedale pediatrico non ha convinto l’accusa che ieri ha chiesto nella requisitoria la condanna, con l’accusa di peculato per distrazione. Chiesta anche l’interdizione perpetua dai pubblici uffici e una sanzione di 5 mila euro.

Repubblica 10.10.17
“La violenza è il peccato originale della religione”
Ecco perché ogni credo alterna ciclicamente pace e ferocia
Parla il sociologo José Casanova
di Giancarlo Bosetti

I testi sacri delle grandi religioni grondano sangue da millenni. È un luogo comune, che è vero. Ma l’ispirazione violenta viene spesso abbandonata, a volte invece tragicamente sfruttata. La domanda interessante è come e perché questo accade. La giriamo a José Casanova, spagnolo di Saragozza, ma insediato a Washington (Georgetown University), uno dei maggiori studiosi nel mondo di sociologia della religione, tradotto ovunque (in italiano è noto il suo “Oltre la secolarizzazione”, Il Mulino, 2000). L’intossicazione originaria non è incurabile, dice, le fasi violente si presentano a cicli. I siti web di ogni parte catalogano con faziosità
contabile la violenza “degli altri”: mani mozzate e uccisioni di infedeli invocate nel Corano o stermini realizzati o propiziati dal Dio della Bibbia e poi le teste tagliate delle scritture induiste, il Tridente di Shiva. Nessuna religione è innocente.
«La violenza è nelle origini della società, con Durkheim possiamo dire nel sacro sociale, più che nella religione in sé. E questo non c’è dubbio si riflette nelle Scritture, ma nel tempo le cose cambiano. Nella Bibbia per esempio è necessario distinguere tra i testi precedenti all’esilio babilonese e quelli successivi. Il Dio di Israele sacralizza la violenza contro gli altri popoli, era un Dio monolatrico, non monoteista, un Dio di Israele non di tutta l’umanità. Dopo l’esilio a Babilonia, in quella che chiamiamo l’età assiale (Casanova usa l’espressione di Jaspers per indicare l’epoca tra Ottavo e Terzo secolo a.C., n. d. r.), i profeti non sacralizzano più la violenza, al contrario, il Dio della storia usa l’Impero romano per punire il suo popolo».
Questo vale per tutte le religioni?
«Tutte le culture tribali delle origini sacralizzano la violenza del “nostro gruppo” contro gli altri. La novità delle religioni assiali è che la desacralizzano: arrivano così la critica profetica della violenza e la fine dei sacrifici cruenti».
La violenza resta scritta però per sempre nei testi sacri.
«Troviamo nelle Scritture un misto di testi della sacralizzazione della violenza e di altri che espongono la critica della violenza. Si pone allora il problema di come i testi sono stati e vengono interpretati e usati nella storia».
E nessuna religione fa eccezione, anche se ogni confessione è tentata di accusare le altre.
«Potremmo usare le parole di Papa Francesco: “Di fronte alle atrocità commesse nel nome di Dio o della religione, nessuna religione è immune da forme di delusione individuale e estremismo ideologico”, nessuna, inclusi il Cristianesimo e il Cattolicesimo. Io vengo dalla cattolica Spagna, in cui la religione e la violenza sono state intimamente connesse: le Crociate, l’Inquisizione, l’espulsione di ebrei e musulmani, la Conquista e l’evangelizzazione forzata, guerre civili».
Anche gli atei militanti tengono la lista delle violenze a carico delle religioni. I religiosi rispondono ricordando la lista dei massacri del XX secolo e le pagine nere dell’ateismo.
«La religione non è l’unica fonte di violenza. Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento abbiamo visto la sacralizzazione della violenza anarchica; con la Prima guerra mondiale lo Stato moderno, che rivendica il monopolio della violenza, la sacralizza sull’altare del nazionalismo; c’è il genocidio armeno; c’è la violenza comunista degli anni Trenta, il Gulag, Hitler e l’Olocausto; dagli anni Sessanta del ‘900 troviamo l’Ira, l’Eta, le Brigate rosse, i preti guerriglieri in Colombia, i cattolici Montoneros in Argentina. Il XX secolo è stato il più violento nella storia dell’umanità e la maggior parte della sua violenza non era religiosa».
Ma oggi abbiamo una ondata di terrorismo religioso, quello islamico.
«Anche in questo caso dobbiamo chiederci quali fattori attivano il fenomeno del terrore jihadista e perché questa religione diventa fonte di violenza. La sua crescita avviene nel corso di una globalizzazione verso la quale certi settori dell’Islam legittimano la violenza contro quello che considerano un ordine mondiale che usa violenza contro di loro».
Anche il Cattolicesimo in passato riteneva la modernità un assalto ai suoi principi morali.
«Certo, eppure ha subito nel tempo una grande trasformazione. Insieme ai protestanti i cattolici hanno dato vita in Germania alla Democrazia cristiana. Di fronte al sanguinoso conflitto tra sciiti e sunniti dei nostri giorni, penso che se la trasformazione è avvenuta per i cristiani, può accadere anche per i musulmani, quando le voci in favore della pacificazione supereranno quelle che sacralizzano la violenza».
Il buddismo è candidato al ruolo di primo della classe, perché più pacifico? L’imperatore Ashoka nel Terzo secolo a.C., si convertì dall’induismo al buddismo e lasciò scritti sulla roccia i suoi editti sulla tolleranza. Ma oggi va in scena il terrore buddista.
«I monaci militari buddisti sono un ordine armato come tutti gli altri che si sono associati a un potere statale ed è accaduto per loro quello che è accaduto per tutti quando una religione diventa sacralizzazione dello Stato. Ma c’è sempre la possibilità che le religioni assiali facciano prevalere il volto pacifico, e la parte della loro tradizione che fa loro dire Salam, Shalom o Pace».
Ma l’Islam con la Shari’a non presenta problemi maggiori delle altre religioni nel cammino verso la modernità?
«La Shari’a non era un problema alla nascita delle prime costituzioni in Iran o in Pakistan alla svolta di fine secolo tra ‘800 e ‘900. Lo è diventato più avanti. La stessa tradizione può essere letta in altri modi. La violenza jihadista non sarà diversa dalle altre del passato, quella anarchica o quella marxista».
La tentazione illuminista è di immaginare nella storia un processo di riduzione della violenza. Ma la realtà ci dice il contrario.
«Non si possono fare generalizzazioni. La combinazione di religione e strutture del potere è la chiave esplicativa nel bene e nel male. In Spagna c’è stata l’epoca della convivencia tra cristiani, ebrei e musulmani e lo stesso è accaduto altrove, ma con l’emergere dello Stato moderno, delle monarchie cattoliche si è affermata la spinta alla pulizia etno-religiosa. Tutte le volte che il modello westfaliano — cuius regio eius religio — si è affermato il fenomeno si è ripetuto. Alla fine degli imperi, di quello ottomano e di quello britannico. Non c’è in questo una singola traiettoria, ma cicli. Ci sono però anche buone notizie e cicli di pace. L’America latina in una sola generazione è passata dal monopolio cattolico alla perdita di egemonia della Chiesa e a un pluralismo condiviso con i protestanti. Senza violenza».
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IL CONVEGNO
« Le religioni all’uscita della violenza, tra testi e teorie » s’intitola un ciclo di incontri oggi e domani a Trento, con un seguito a Washington L’organizzano Reset- Dialogues con Civilizations, la Fondazione Bruno Kessler e il Berkeley Center di Georgetown University Introduce Josè Casanova

Repubblica 10.10.17
“Parassiti, pagate la luce”. Compagni-coltelli in casa radicale
di Concetto Vecchio

LA POLEMICA. I “TRANSNAZIONALI” DI TURCO ATTACCANO I RADICALI ITALIANI DI MAGI E BONINO. IL CASUS BELLI SONO TRE STANZE DELLA SEDE

ROMA. «Il Partito radicale non ha alcun rapporto politico con i Radicali italiani, tranne di tipo parassitario, che vede Radicali italiani occupare la sede e relativi servizi, telefoni compresi, pagati dal Partito radicale». Nello sdoppiamento pirandelliano che contrappone dopo la morte di Marco Pannella i due partiti quello non violento, transnazionale e transpartitico (Prntt) di Bernardini, Turco, D’Elia, e quello dell’associazione Radicali italiani (Ri) di Magi, Bonino, Cappato - si aggiunge una nuova vetta: l’insulto «parassiti» scagliato dal coordinatore del Prntt Maurizio Turco per le tre stanze che Magi e soci occupano nella storica sede di via Torre d’Argentina. «Senza pagare né l’affitto, né la luce», precisa Turco, e «continuano a succhiare il nostro sangue, a fare le vittime, col paradosso che noi manteniamo gli uffici di un gruppo che non vede l’ora che il partito che li paga chiuda».
I Radicali di Magi sono alla vigilia del loro congresso, a fine ottobre, che sarà preceduto da una Convenzione europeista all’Hotel Ergife a cui parteciperanno Prodi, Letta, Pisapia, Calenda e Saviano. Il loro segretario, Riccardo Magi, che è tra i promotori dello sciopero per l’approvazione dello ius soli e punta a fare abolire la Bossi-Fini, allarga sconsolato le braccia di fronte all’ultima baruffa: «Parassiti? Ma il patrimonio è il frutto del lavoro di tutti gli iscritti nel corso di una militanza lunga una vita. È vero che occupiamo tre stanze, ma abbiamo anche una nostra sede in via Bargoni, a Porte Portese. Il punto è che stanno facendo la gara a chi è più radicale degli altri». La cassa è nelle mani del Prntt, poiché la sede, e la radio, appartengono alla Lista Pannella, un’associazione a sua volta controllata da quattro persone, tra cui Bernardini e Turco.
I transnazionali stanno cercando di arrivare a quota 3000 tessere entro l’anno, al costo di 200 euro l’una (al momento siamo a quota 2054) e Magi tesse una sua tela politica, che non esclude un’alleanza con il centrosinistra alle prossime politiche, disponendo tra le sue fila di una personalità come Emma Bonino. Entrambi rinfacciano l’uno all’altro di avere uno statuto che non permetterebbe di partecipare alle elezioni, e Turco aggiunge veleno all’incomunicabilità: «Loro visitano le nostre stesse carceri, ma dopo di noi. Loro hanno fissato al congresso la nostra stessa soglia di tessere, 3000. Ci copiano mentre la povera Rita Bernardini è costretta a dividere con altre tre persone la sua piccola stanza e non sa più dove accatastare le lettere che riceve dei detenuti...». «Fino a quando c’era Pannella», confessa Magi, «le varie anime si tenevano in precario equilibrio, ora, dopo il congresso di Rebibbia, dell’anno scorso tutto è saltato». «Un tempo - è il rimpianto di Turco - il partito faceva sempre da pivot, ora invece questi hanno deciso di fare altro, ma non si capisce perché a spese nostre».
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COABITAZIONE IN TORRE ARGENTINA
Maurizio Turco del Partito radicale non violento transnazionale transpartitico. Riccardo Magi è segretario di Radicali Italiani

il manifesto 10.10.17
Nave militare tunisina sperona barcone di migranti, almeno 8 morti
di Carlo Lania

Potrebbero essere almeno trenta le vittime del naufragio avvenuto nella notte tra domenica e lunedì al largo della Tunisia. A provocare l’affondamento di un peschereccio sul quale si trovavano circa 70 migranti tunisini è stata una nave della Marina militare tunisina impegnata nelle operazioni di controllo della costa. Il ministero della Difesa ha annunciato ieri di aver aperto un’inchiesta su quanto accaduto e fornito una prima ricostruzione secondo la quale la collisione sarebbe avvenuta «durante la manovra di avvicinamento all’imbarcazione non identificata».
Il peschereccio era partito dalle isole Kerkennah, un arcipelago al largo di Sfax e distante 120 chilometri da Lampedusa. Sempre il ministero della Difesa tunisino ha parlato di 38 migranti salvati e 8 cadaveri recuperati ma l’Oim, l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, attraverso il suo portavoce Flavio Di Giacomo non esclude che possano esserci almeno venti dispersi. Alle operazioni di soccorso coordinate da Malta (il naufragio è avvento nella zona di ricerca e soccorso maltese), hanno partecipato anche due motovedette della Guardia costiera italiana, una della Guardia di Finanza e una nave della Marina militare italiana.
Fino alla fine di agosto quella che dalla Tunisia porta in Italia era considerata una rotta praticamente chiusa da tempo. Dopo la crisi del 2011, le partenze di tunisini si erano infatti ridotte notevolmente. Secondo la cifre fornite dall’Oim nel 2014 ci furono solo 1.637 sbarchi, 880 nel 2015 e 1.200 nel 2016. Trend che sembrava confermato anche quest’anno con 1.357 arrivi dal primo gennaio alla fine di agosto.
Con l’inizio di settembre, però, le cose sono improvvisamente cambiate, tanto che solo nel mese scorso sulle coste siciliane si sono contati 1.400 sbarchi ufficiali, ai quali vanno aggiunti numerosi sbarchi cosiddetti «fantasma».
Un incremento che però non va letto come una conseguenza della chiusura della rotta libica (ad arrivare sono ancora solo tunisini) ma che per ora non trova spiegazioni che giustificherebbero la ripresa dei viaggi verso l’Italia. Il costo della traversata si aggira sui 500 dollari e in genere vengono usate piccole imbarcazioni in legno, soprattutto pescherecci, che prendono il largo da Sfax, ma anche da Monastir, 160 chilometri a sud di Tunisi, El Haouaria, Zarzis, Biserta. A partire sono soprattutto giovani divisi in piccoli gruppi per sfuggire meglio ai controlli serrati della Guardia costiera tunisina e spinti dall’acuirsi di una crisi economica che proprio tra i giovani fa registrare un alto tasso di disoccupazione con punte che, nelle regioni meridionali del Paese, raggiungono il 43%. Nessuna conferma, invece, ad alcune ipotesi circolate nei giorni scorsi secondo le quali ad arrivare in Italia sarebbero soprattutto ex detenuti usciti dal carcere in seguito ad un’amnistia. Ogni anno, infatti, per la festa della fine del Ramadan il governo libera quanti si trovano in prigione per aver commesso piccoli reati, fatto che negli anni scorsi non ha mai provocato un aumento delle partenze.
La Tunisia è un paese importante nella strategia europea di contenimento dei flussi migratori, un compito che in passato ha sempre svolto con notevole impegno intercettando i migranti sulla spiaggia. Sempre lo scorso mese di settembre, secondo quanto riferito dal portavoce della Guardia nazionale, Khalipha Chibani, 553 migranti sono stati arrestati dalle forze dell’ordine tunisine mentre cercavano di prendere il mare. «Non c’è più l’immigrazione di massa del 2011, quando il Paese era senza governo», aveva detto all’inizio di settembre il ministro degli Esteri tunisino, Khemaies Jhinaoui. «Anzi, lo scorso anno il numero dei tunisini rientrati in patria ha superato quello degli emigrati».
Circostanza resa possibile soprattutto dagli accordi sui rimpatri siglati da Tunisi con l’Unione europea, che considera i tunisini tutti migranti economici. In cambio Tunisi riceve finanziamenti per progetti di sviluppo nel Paese. Un meccanismo che però, da un mese a questa parte, sembra essersi inceppato e non funzionare più come prima.

Il Fatto 10.10.17
Immigrati, le prime vittime in mare sulla rotta tunisina
Notte fatale - Almeno 8 morti e 30 dispersi: il barcone stracarico viene urtato da una nave militare. Interviene Malta
di Ferruccio Sansa

Non è bastata la luna. La nave militare tunisina non ha visto il peschereccio carico di migranti. L’ha centrato in pieno. Settanta persone sono cadute nel mare che di notte è nero come la pece: 30 i dispersi, 8 i corpi già recuperati, 40 i salvati. È la prima tragedia della nuova rotta che dalla Tunisia raggiunge l’Italia.
Sono le due di ieri notte. I migranti procedono lentamente su un’imbarcazione stipata all’inverosimile. Non sono più gommoni, perché in Tunisia la polizia controlla le coste. “Gli scafisti – racconta la Guardia Costiera – usano dei pescherecci che possono confondersi con quelli italiani che incrociano tra Tunisia e Italia”. I migranti, dopo un primo trasbordo, partono forse dall’isola di Kerkenna, un paradiso di sabbia, capanne di paglia, mare di cristallo. Ma pochi a bordo pensano alle spiagge. Hanno in mente l’Italia. Si naviga a luci spente per non farsi vedere. È proprio questo il problema: una nave militare tunisina naviga nella stessa zona: “I militari non hanno visto il peschereccio”, sostengono le autorità tunisine. Possibile. Ma saranno forse le testimonianze dei sopravvissuti a stabilire se non vi sia stato un tentativo di accosto per fermare l’imbarcazione.
La nave si avvicina, tanto, troppo. La gente a bordo del peschereccio urla inutilmente, coperta dal rumore dei motori. Poi l’urto. Il peschereccio si spacca come un grissino, gli occupanti cadono in mare. Sono gli stessi militari tunisini a prestare i primi soccorsi, poi arrivano anche motovedette italiane della Guardia Costiera, navi di Malta che coordina i soccorsi (la zona è nella zona di competenza di La Valletta). Ma siamo nel cuore della notte: “Abbiamo salvato quaranta persone. Temiamo, però, che ci siano tra i venti e i trenta dispersi”, allargano le braccia i portavoce del ministero della Difesa di Tunisi che promettono un’inchiesta.
Dopo la chiusura della rotta libica, i migranti cominciano ad arrivare dalla Tunisia. Puntano a Lampedusa, ma molti vanno direttamente in Sicilia e addirittura in Sardegna. Come racconta Flavio Di Giacomo dell’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (Iom che fa parte dell’Onu): “A settembre ci sono stati 1.400 arrivi su questa rotta, contro i 1.357 dei primi otto mesi dell’anno. Gli sbarchi stanno riprendendo, ma su un’altra rotta”. Lo affermano anche fonti del ministero dell’Interno: “Rispetto al 2016 abbiamo avuto un calo del 25,9 per cento degli sbarchi. Siamo passati da 144.445 a 107.028”. Ma nelle ultime settimane c’è stata una lieve ripresa: “Abbiamo avuto 440 arrivi il 27 settembre, 873 il giorno successivo e di nuovo un picco di 757 il 4 ottobre”. Quindi gli immigrati dall’Africa sub-sahariana hanno cambiato strada? “No – spiega Di Giacomo – si tratta proprio di un nuovo fenomeno. Non arrivano più da Nigeria, Bangladesh, Costa d’Avorio, ma sono soprattutto tunisini. Spesso giovani che sfuggono la crisi. Non è un fenomeno ancora paragonabile alle ondate che arrivavano dalla Libia, quando in un weekend partivano anche 6 mila persone”. La rotta libica, conferma l’Iom, è ridotta, ma non del tutto prosciugata: “A settembre ci sono stati 6.288 sbarchi. E intanto resta l’emergenza delle condizioni in cui sono trattenuti i migranti in Libia, tra violenze e stupri. Siamo riusciti a rimpatriare verso i paesi d’origine 8 mila persone, ma molto lavoro resta ancora da fare”.
Intanto si è molto ridotta anche la presenza delle navi delle Ong al largo della Libia: la Vos Prudence è in Sicilia, la Phoenix del Moas è corsa in Birmania dove è in atto un’altra emergenza umanitaria, mentre le navi della ong Sea Eye si sono appunto spostate verso la Tunisia. “Noi – racconta Nicola Stalla, coordinatore ricerca e salvataggio di Sos Méditerranée – pattugliamo il mare a est e ovest di Tripoli, dove si continua a partire con imbarcazioni di fortuna. Intanto si annunciano nuovi arrivi da rotte già attive in passato: dalla Tunisia verso la Sicilia, dall’Algeria verso la Sardegna. Ma anche dal Marocco per la Spagna e perfino dalla Turchia in direzione del sud Italia”. Nuove rotte, nuovi scafisti, nuovi migranti. Sempre tanti morti nel Mediterraneo.

Il Fatto 10.10.17
A Sabrata c’è un nuovo signore dei migranti
Ennesima faida - Dabbashi cacciato, il traffico di uomini passa sotto il controllo di un’altra milizia
di Nancy Porsia

Mentre Ahmed Dabbashi si dava alla fuga, la sua casa veniva data alle fiamme e le sue auto depredate da gruppi armati locali. Dopo tre settimane di scontri in cui circa 30 persone hanno perso la vita e oltre 250 sono rimaste ferite, Ahmed Dabbashi che per oltre 6 anni ha controllato il traffico di migranti nella città di Sabrata, ha perso. “Ora gli uomini di Haftar avranno campo libero”, ha commentato una fonte del Fatto a Zawiya.
La scorsa settimana quando le forze nemiche lo stringevano d’assedio, Dabbashi tentava il colpo di coda ammettendo le proprie malefatte ma coinvolgendo anche quelli che si accreditavano come le nuove forze legittime di Sabrata. Fino a qualche giorno fa, “Al Ammu” Dabbashi era a capo della “Brigata Anas Dabbashi”, intitolata a un cugino morto nella Rivoluzione del 2011, e della Brigata 48 di recente formazione. Entrambe a libro paga del ministero della Difesa ed entrambe, da luglio, in prima linea nella guerra contro i migranti. “Al Ammu” è il trafficante a cui sarebbero stati recapitati milioni di euro partiti dall’Italia. Forse per vie indirette, attraverso il passamano dei ministeri di base a Tripoli, forse attraverso gli enti locali con cui Roma collabora.
“È vero, per anni ho trafficato migranti, come tutti qui a Sabrata. Ma poi il mio Dio mi ha indicato la retta via, e oggi combatto la migrazione clandestina”, diceva la scorsa settimana in tv: “Quelli che mi combattono non sono soldati ma miliziani, anche se loro si fanno chiamare esercito”, riferendosi agli uomini della Sala operativa, appoggiati dall’uomo forte dell’Est, il generale Khalifa Haftar. Secondo fonti della sicurezza a Ovest di Tripoli, la Sala operativa di Sabrata sarebbe addirittura controllata da uno dei principali concorrenti di Dabbashi, Moussab Abu Ghrein.
Moussab, noto col soprannome “il dottore” sarebbe a capo della milizia Al Wadi, che da sempre controlla le forze anti-terroristiche di Sabrata.
Alla notizia della fuga di Dabbashi, il governo di unità nazionale sostenuto dall’Onu si è precipitato a complimentarsi con le forze della Sala operativa per aver ristabilito l’ordine. Tuttavia Serraj, che fino a ieri rivendicava la legittimità della Brigata 48, pare abbia preferito tendere una mano a Haftar. Ma in molti a Tripoli ironizzano: “Serraj ha mandato a Sabrata forze armate per liberare la città dalle sue stesse forze”, facendo riferimento al sostegno che fino a qualche giorno fa Dabbashi godeva da parte del governo.
La sconfitta di “Al Ammu” apre la strada a nuovi scenari, anche per l’Italia. La Sala operativa di Sabrata ha dichiarato di avere il controllo della zona di Mellita dove si trova il complesso petrolifero a guida Eni. Qualche giorno prima il capo di una delle milizie che opera a ovest di Tripoli diceva al Fatto: “Se non potremo controllare il compound Mellita, lo distruggeremo”.
Non sarà facile per Serraj e l’Italia smarcarsi dal clan Dabbashi, perché sul territorio non era isolato: con lui si muove la lobby dei madkhali, salafiti che si ispirano a una scuola islamica saudita. E sono gli stessi che oggi proteggono Serraj a Tripoli. All’indomani della notizia della fuga di “Al Ammu” da Sabrata, scontri sono scoppiati nel quartiere di Arada, periferia ovest di Tripoli, tra il Battaglione 42 e la Brigata Abdul Raouf Al-Jabari per rivendicare legittimazione da parte di Serraj: una ventina i morti in poche ore. Solo l’intervento delle forze speciali Rada, che fanno riferimento ai salafiti madkhali, ha riportato la calma. “Dopo Mellita, gli uomini di Haftar potrebbero puntare al controllo della frontiera”, ha spiegato una fonte di Zuwara, città a est di Sabrata e non lontano dal confine tunisino.

il manifesto 10.10.17
Il lavoro fa strage da Nord a Sud: quattro morti in un solo giorno
Morti bianche. Le vittime lavoravano nell'indotto di Mirafiori, in provincia di Ascoli Piceno, due a Naro (Agrigento). Ci sono anche due feriti gravi nel bergamasco e in provincia di Verona. Tutto questo poche ore dopo l'invito del Presidente della Repubblica Mattarella alle imprese a non imporre ai lavoratori condizioni molto al di sotto della sicurezza
di Mario Pierro

Da Sud a Nord il lavoro continua a fare una strage a poche ore dal richiamo del presidente della Repubblica Sergio Mattarella alle aziende che impongono ai lavoratori condizioni molto al di sotto della sicurezza. «É inconcepibile che tra le vittime di infortunio sul lavoro ci siano ragazzi giovanissimi» ha detto in un messaggio all’associazione delle vittime degli infortuni del lavoro (Anmil). I tre uomini morti ieri – due operai di 61 e 56 anni a Naro nell’Agrigentino, un manovratore di 45 anni conto-terzista della Fiat di Mirafiori a Torino, un operaio della ditta Acciarri caduto in un silos contenente mais a Comunanza (Ascoli Piceno) – non erano «giovani», ma si aggiungono alla tragica e «inconcepibile» statistica che vede – sino ad agosto – 421.969 infortuni. Le tre scomparse si aggiungono ai 682 infortuni mortali già denunciati (-4,7%) rispetto al 2016.
DIGA FURORE A NARO, nell’Agrigentino. I due operai, di 61 e 56 anni, sono morti dopo essere precipitati da un’altezza di 32 metri, finendo dentro il sovrappieno della vasca vuota a forma di imbuto, usata per lo stoccaggio delle acque. A provocare la morte di Francesco Gallo e di Gaetano Cammilleri sarebbe stato il cedimento di un montacarichi. Sulla vicenda la Procura di Agrigento ha aperto un fascicolo per omicidio colposo contro ignoti. I sindaci di Naro e Favara, dove risiedev Cammilleri, hanno proclamato il lutto cittadino per il giorno dei funerali. Il presidente della Regione, Rosario Crocetta nominerà una commissione regionale d’inchiesta per accertare le responsabilità. Per le segreterie provinciali di Cgil e Uil bisogna«fermare le stragi. Prevenzione e sicurezza vengono prima di tutto».
INDOTTO FCA MIRAFIORI. Le cause della morte del manovratore Francesco Corica di Settimo Torinese che lavorava per la Villanova, una ditta dell’indotto Fca che gestisce i flussi dei treni nel raccordo ferroviario del Drosso, sono ancora da stabilire. Secondo le prime informazioni, la vittima aveva appena finito di caricare delle bisarche quando sarebbe stato urtato da un treno in manovra. «Con la parziale ripresa dell’attività in molti stabilimenti metalmeccanici – commenta Federico Bellono, segretario della Fiom Cgil Torino – Troppo spesso vittime di gravissimi episodi come quello di ieri sono lavoratori delle ditte esterne, degli appalti e dei subappalti: dal collaudatore morto sulla pista di Balocco due anni fa al manutentore folgorato a Mirafiori a gennaio. Tutto questo è inaccettabile. Vanno accertate al più presto le responsabilità e aumentati i controlli sulla sicurezza».
AL BOLLETTINO DI GUERRA vanno aggiunti due feriti: a Romano di Lombardia, nel Bergamasco, un edile è caduto da un’impalcatura e si trova in gravi condizioni in ospedale; fratture alle gambe per un lavoratore marocchino di 50 anni per il cedimento di una struttura meccanica mentre scaricava merce da un camion a San Bonifacio (Verona).

Il Fatto 10.10.17
Altro che verità su Regeni: meglio frotte di turisti a Sharm
Abbiamo finto ritorsioni ma in realtà è l’Italia che balla il ritmo imposto da Al-Sisi: Roma e Il Cairo hanno concordato 11 rotte aeree per il Mar Rosso
di Guido Rampoldi

A otto mesi dalla sparizione di Giulio Regeni, adesso è chiaro che potevamo risparmiarci la commedia – le solenni promesse, le imperiose richieste, insomma la rumorosa pantomima dietro la quale un po’ tutti nascondevano la volontà di non pregiudicare le buone relazioni con al-Sisi. Garantivamo, Renzi in testa, che mai le preoccupazioni per i nostri affari ci avrebbero impedito di ‘pretendere’ (proprio quella la parola, ‘pretendere’) la verità; ed ecco il risultato: di verità neppure l’ombra, però in luglio l’italiana Saipem ha firmato un mega-contratto da 1.5 miliardi di dollari per lo sviluppo di Zohr, un gigantesco giacimento di gas in concessione a una joint-venture tra Eni e un’emanazione della giunta militare.
Ventilavamo ritorsioni pro-forma, quali inserire l’Egitto tra i Paesi a rischio nei quali la Farnesina sconsiglia il turismo; e invece è accaduto l’opposto: la settimana scorsa “Roma e Il Cairo hanno concordato 11 rotte aeree” tra le maggiori città italiane e Sharm-el- Sheikh (i voli cominciano in ottobre), come riportava il 21 settembre al-Ahram online, una voce ufficiale del regime, citando l’ambasciatore egiziano in Italia. Nel Sinai i vacanzieri italiani saranno i testimonial di al-Sisi, cui è necessario dimostrare al mondo di aver ripreso il controllo di quella penisola turbolenta e spento laggiù un terrorismo incline a massacrare turisti. Se poi non fosse vero, pazienza.
Ci mostravamo esigenti, inflessibili, adottavamo una mimica da media potenza al cospetto di uno staterello: macché, eravamo noi quelli che dovevano ballare alla musica altrui. Quando il Parlamento italiano decise una misura blanda, sospendere le forniture all’Egitto di pezzi di ricambio dei caccia F-35, il ministero degli Esteri egiziano subito ringhiò: “La collaborazione con l’Italia sulla situazione in Libia potrebbe vedere un declino considerevole”. E noi zitti, essendo probabilmente esatto quel che risulta a un osservatore egiziano, Abdul Sattar Hetieta: l’intelligence militare di al-Sisi ha un rapporto speciale con milizie e capi tribali in Libia, soprattutto nell’est, zona cruciale per la logistica Eni e per le partenze dei migranti verso l’Italia. Da qui le ‘pressioni’ esercitate dal Cairo su Roma.
Hetieta aggiunge che gli apparati egiziani intrattengono una relazione particolare con l’intelligence italiana. Se i nostri 007 hanno davvero tanta familiarità con gli spioni di al-Sisi, potrebbero conoscere da tempo i nomi di chi torturò e uccise Regeni. Ma forse non ci riteniamo abbastanza forti, o abbastanza coraggiosi, per permetterci la verità e mettere a rischio gli affari. Beninteso, non c’è da scandalizzarsi se le imprese italiane in Egitto, praticamente il gotha del capitalismo italiano, fingono di ignorare il profilo criminale del regime da cui ricevono appalti. Ma lo scandalo c’è se questo coacervo di interessi orienta il sistema dei media e, d’intesa con il governo, lo incarica di assecondare la normalizzazione dei rapporti con Il Cairo.
Per quanto impeccabile sia stata l’informazione prodotta da taluni cronisti giudiziari, taluni inviati, taluni media (per esempio Espresso e Manifesto) nel complesso il sistema è riuscito a rendere confusa una vicenda che nei tratti generali non lo è affatto, a mantenere in vita ipotesi convenienti e fantasiose sull’uccisione di Regeni, comunque a barricarsi dietro la madre di tutte le menzogne: il dogma per il quale al-Sisi sarà pure una carogna ma salva noi e l’Egitto dal terrorismo islamico (che equivale a sostenere che Assad è la salvezza della Siria). Se la ‘questione islamica’ fosse davvero il cuore della baraonda egiziana, Regeni sarebbe ancora vivo.
Invece ebbe la colpa di leggere quella crisi nei termini di un conflitto innanzitutto sociale, attraverso le categorie oggi indispensabili alla critica liberale e da tempo abbandonate dalla sinistra moderata. Quest’ultima le aveva praticate per decenni nella forma più ottusa: ma divenuta nel frattempo identitaria e républicaine, ora le considera una fonte di imbarazzo. Anche per questo la figura di Regeni disorienta. Per questo e per un’attenzione ai diritti umani che pare estranea al nostro Parlamento. Vale in proposito il silenzio dei partiti e del sistema televisivo sulle professioni di stima e di amicizia rivolte da Renzi ad al-Sisi quando l’egiziano era già noto per aver fatto massacrare 1150 dimostranti (uniche eccezioni, D’Alema ed Enrico Letta; e in tv, il programma di Riccardo Iacona). Eppure l’Italia non è solo questa miseria, c’è anche altro. C’è l’Italia di Giulio Regeni, sia pure sparsa. Forse da lì dovremmo ricominciare per fermare questo lento e mediocre precipitare.

Il Fatto 10.10.17
Il Pd non può più dirsi partito di sinistra
di Angelo Cannatà

Massimo Cacciari afferma da anni (anche su Repubblica) che i concetti di destra e sinistra sono vecchi arnesi: appartengono a un lessico novecentesco che non interpreta più il nostro tempo. Non m’interessa discutere qui la validità di questa tesi; evidenzio che Ezio Mauro non la condivide per niente se in ogni articolo ci spiega cos’è la destra, cos’è la sinistra e cosa dovrebbe essere soprattutto la sinistra italiana. Libero di farlo. E tuttavia, al di là del solito refrain – “i veti intestini paralizzano la politica” – il testo dà per scontate troppe cose e afferma senza dimostrare.
Secondo il Nostro prosperano in Italia due destre: “nelle forme salviniane e scoperte” e “nella copertura mimetica grillina”. È così? Non avendo certezze e contatti con lo Spirito Santo (sembra che Mauro li abbia) proviamo a ragionare: 1) Occorre mostrare – scrive Marx – “come il borghese riduce l’operaio quando, senza alcun impaccio, può modellare il mondo a sua immagine e somiglianza”; 2) Ciò che distingue la destra dalla sinistra – dice Bobbio – è “il diverso atteggiamento di fronte all’idea di eguaglianza”. I due filosofi, da posizioni diverse – Bobbio non è mai stato marxista – indicano una caratteristica del cittadino di sinistra: una certa idea di giustizia e equità e l’attenzione agli ultimi e alla povertà. È la sensibilità che avverto – nonostante gli errori – nei 5Stelle: “Io vedo giovani parlamentari che si decurtano lo stipendio; si preoccupano dei poveri e del reddito di cittadinanza; praticano la regola dei due mandati; verificano la fedina penale dei candidati; rispettano e proteggono la Costituzione (non è un dettaglio); non rubano e difendono la legalità; hanno sensibilità ecologica e dicono no alle lobby”. È etichettabile come destra tutto ciò? Suvvia, capisco il gioco delle parti, ma esagerare fino a questo punto non è possibile. È sbagliato dire che il Movimento “non ha un programma politico, non ha identità, non ha valori” (Repubblica, 8 ottobre). Non è così. La verità è che collocando arbitrariamente a destra i 5Stelle e a sinistra il Pd si dimostra di non aver colto il senso di quel che è accaduto nel Paese. Il Pd di Renzi – che abolisce l’articolo 18; amoreggia con Marchionne; umilia la scuola e prova a sporcare la Costituzione – non ha più nulla a che fare con la sinistra, il mondo operaio e studentesco e un ceto medio (penso ai docenti) che, per esemplificare, si riconosceva in Berlinguer. Questo è il tema. Colto con precisione da Alberto Asor Rosa: “Le politiche economiche propugnate da Renzi sono nettamente di destra” (Il Fatto, 9 ottobre). Da qui nasce la scissione di Bersani; da qui le divisioni e i conflitti a sinistra che non fioriscono dal nulla o dal capriccio personale di alcuni – come sembra credere Mauro – ma da una mutazione genetica in atto nel Pd, non più sopportabile da chi ha sensibilità (antica e nobile) per l’uguaglianza e la giustizia sociale. Repubblica è parte del problema. Altro che inni alle “aperture di Renzi ai dissidenti”: sono fuori tempo massimo. E allora, piuttosto che dare lezioni su cos’è la sinistra, sarebbe bene rileggere Rawls: “Il fatto che alcuni abbiano meno affinché altri prosperino può essere utile, ma non è giusto”. Le ineguaglianze economiche “sono giuste soltanto se producono benefici compensativi”, soprattutto per i poveri (Una teoria della giustizia). Rawls ci spiega – se lo attualizziamo – che un partito (il Pd) che ha perso questo orizzonte non ha più credibilità a sinistra. Il tema decisivo è la povertà. Per dirla con Flores d’Arcais: “Una testa, un voto scompare laddove imperi un ricatto, un voto, nella forma di disoccupazione e rinuncia ai diritti sindacali”; ma il voto non è libero neanche quando è “sovradeterminato dal bisogno, dalla fatica onnipervasiva di ‘tirare avanti’, di non precipitare nel girone infernale della povertà” (La guerra del sacro). C’è qualcosa delle preoccupazioni di Rawls e Flores d’Arcais nel Pd di Renzi? No. Non c’è nulla.

Il Fatto 10.10,17
La Repubblica fondata sullo sfruttamento
di Antonio Bevere

Sul Fatto del 24 settembre, Furio Colombo ha denunciato l’inclinazione sempre più forte, dettata da un capitalismo selvaggio di ritorno, a porre il lavoro dell’uomo al di fuori della strategia dell’economia, della politica, della cultura. Non è da sottovalutare che questa esclusione ha tra i suoi costi un crescente declino, nei rapporti tra impresa e lavoro, del rispetto di regole che in passato apparivano intangibili. Tale intangibilità derivava dalla vigilanza democratica del mondo politico, amministrativo e giudiziario, mentre la presente fluidità delle retribuzioni, della tutela della salute e della dignità dei lavoratori trova una linea di resistenza solo in interventi necessariamente episodici e scoordinati della magistratura.
L’Inail diffonde, in rapido susseguirsi, i dati sul declino della sicurezza sui posti di lavoro nell’anno in corso, informando tutti noi che sono in continuo aumento gli infortuni e le cosiddette morti bianche. L’avvilimento che ne deriva si aggrava se si tiene conto che questi dati non comprendono infortuni e morti avvenuti nella palude del lavoro sommerso dei cantieri edili e dei campi agricoli. La Stampa ha pubblicato il 22 luglio i dati raccolti dall’economista dell’Ocse, Andrea Guarnera, secondo cui – nel limitato ambito dei contratti verificabili – il 18,8% dei lavoratori ha paga inferiore ai livelli del contratto collettivo, nelle imprese con personale inferiore ai 10 dipendenti; è sottopagato il 13,1% in imprese con numero di dipendenti fino a 15. Il settore più colpito è quello dell’agricoltura (il 32% è sottopagato) e quello di hotel e ristoranti (21%). Proprio in questo ambito e in quello più vasto del terziario Il Tirreno ha raccolto nell’agosto scorso denunce di lavoratori, costretti dallo stato di necessità a subire violazioni di regole (su retribuzione, ferie, durata del rapporto, garanzie previdenziali), che li ha resi vittime di sfruttamento: hanno cioè narrato di aver svolto, in un clima di intimidazione, prestazioni in condizioni degradanti, retribuite in misura sproporzionatamente inferiore al loro valore. La disuguaglianza nei rapporti di forza tra imprenditore e dipendente è messa in luce dal prevalente desiderio dei denuncianti di mantenere l’anonimato, manifestando un’allarmante sfiducia nella protezione dello Stato. È illuminante la convinzione di un’impiegata sottopagata sull’ormai raggiunta uguaglianza di italiani ed extracomunitari dinanzi alla legge della retribuzione misera e indignitosa. Questa analisi globale degli attuali rapporti di classe, inquadrati nella crisi economica, nella cancellazione delle garanzie della dignità dei lavoratori e nella umiliante politica dell’edilizia popolare, rende evidente il declino della Repubblica fondata sul lavoro e il sorgere della Repubblica fondata sulla sfruttamento: se leggiamo il codice penale, troviamo che all’art. 603 bis sono stati puntualmente tipizzati gli “indici di sfruttamento” del lavoro altrui, cioè: “1. La sistematica retribuzione in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato; 2. La sistematica violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie; 3. La sussistenza di violazione della normativa in materia di sicurezza o igiene nei luoghi di lavoro; 4. La sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza, o a situazioni alloggiative degradanti”. Questi dati di fatto conducono il giudice, se sussistenti, a concludere che, in un rapporto tra individui, uno di essi, approfittando della situazione di debolezza dell’altro, gli ha imposto uno stato di soggezione continuativa, costringendolo a prestazioni lavorative che ne comportano lo sfruttamento. Se andiamo dalla cronaca giudiziaria al generale quadro politico in cui si confrontano le classi sociali, difficilmente possiamo ignorare che la naturale disuguaglianza tra le parti nel rapporto lavorativo si sta espandendo nel globale rapporto tra abbienti e non abbienti, tra domanda e offerta di lavoro, tra padroni e servi. Non possiamo accettare di partecipare nell’ignoranza e nel silenzio alla responsabilità storica di abbattere i principi della Costituzione, in attesa della promessa ripresa economica e della spontanea autolimitazione del profitto di chi produce beni e servizi.
Lungi da me esaltare la soluzione dei problemi politici e costituzionali ricorrendo a esemplari condanne penali: l’accostamento ai dettami del codice è solo servito a porre in evidenza la lungimiranza progressista degli autori di alcune norme e la palese collaborazione delle forze di sinistra nel declassamento del lavoratore al servo della gleba del XIX secolo. Si tratta di un evento in via di lucente consolidamento e la sua trasparenza evidenzia che chi se ne avvantaggia ne è ben consapevole e chi è ancora in grado di opporsi o è suo alleato oppure è di incapacità che passerà alla storia.

Il Fatto 10.10.17
I soldi ci fanno perdere la ragione
Nobel per l’Economia - Richard Thaler e l’irrazionalità delle scelte di consumo e investimento
di Stefano Feltri

Da qualche mese Banca Intesa offre ai clienti onlineun servizio utile: il calcolo di quanto esce dal conto ogni mese per il tempo libero, quanto per il mutuo, quanto per il supermercato. È una delle applicazioni delle idee di Richard Thaler, che ieri ha vinto il premio nobel per l’Economia: la nostra contabilità mentale procede per “punti di riferimento”, creiamo conti separati e non comunicanti. Se di solito spendiamo 300 euro al mese per ristoranti e a metà ottobre siamo solo a 150, ci sentiremo liberi di concederci qualche sfizio anche se magari abbiamo appena speso 400 euro per riparare l’auto.
È facile irridere la premessa di molti modelli economici dell’economia neoclassica, con protagonista un individuo egoista, perfettamente informato e con una razionalità che gli permette di scegliere sempre il comportamento che massimizza la sua utilità. Molto più difficile ammettere che l’uomo è irrazionale e trovare le regole di questa irrazionalità, per prevederla (in finanza), sfruttarla (nel marketing) o limitarne i danni (in politica economica).
Richard Thaler, 72 anni, insegna a Chicago, all’università celebre per la sua fede ortodossa nelle virtù del mercato e nel fatto che la razionalità, alla fine, vince sempre. In fondo basta introdurre nei modelli economici la seguente ipotesi: quando un individuo irrazionale incontra un individuo razionale, quello irrazionale è un individuo morto. Chi ha più informazioni e le sa gestire meglio sottrae benessere a chi lo è meno e lo costringe ad adeguarsi o a soccombere. Et voilà: neutralizzato il problema degli individui non razionali.
Thaler rifiuta queste semplificazioni e cerca le regole dell’irrazionalità con esperimenti nel mondo reale, il fondamento su cui si regge l’economia comportamentale. All’inizio del semestre, per esempio, ogni studente di Thaler dichiara di aspettarsi un voto finale più alto di quello mediano. Ovviamente più della metà rimarranno delusi. Perché tendiamo sempre a sovra-stimare la nostra conoscenza e, spesso, anche quella degli altri, visto che pensiamo abbiano letto, studiato e guardato tutto quello che abbiamo letto, studiato e guardato noi. Thaler applica all’economia e alla finanza le scoperte degli psicologi Daniel Kahneman (altro Nobel) e Amos Tversky, per esempio la scoperta che se ci rubano 100 euro, la nostra perdita di felicità è doppia rispetto a quanta felicità guadagniamo se troviamo 100 euro per strada. In un esperimento di Thaler del 1990, alcuni studenti ricevono in regalo una tazza decorata e possono decidere di venderla all’altro gruppo di studenti che invece ne è privo. In teoria, domanda e offerta dovrebbero incrociarsi, persone scelte a caso in media dovrebbero dare lo stesso valore alle tazze. Invece chi se ne deve privare valuta la tazza molto più di chi non ne ha mai avuta una. È “l’effetto possesso” che influenza anche le scelte di investimento (vendere un’azione in perdita può essere difficile, ma ogni ritardo aggrava il danno).
Nel 2008 Thaler elabora con Cass Sunstein la teoria del nudge, la spinta gentile: si possono influenzare i comportamenti di masse di persone con una forma leggera di paternalismo, senza imporre scelte dall’alto ma dosando bene le informazioni e proponendo un ventaglio di scelte accurate. Da presidente Barack Obama ha arruolato Sunstein e creato un team nudge
alla Casa Bianca che dava “spinte leggere”, come mandare sms per ricordare le scadenze burocratiche ai diplomati, in modo da aumentare le iscrizioni all’università.
Nel 2000, in un articolo, Thaler ammetteva che il suo approccio era ancora minoritario, ma era pronto a scommettere che nel giro di 20 anni molti più economisti sarebbero stati d’accordo con lui. Dopo 17 anni ha vinto il Nobel.

Corriere 10.10.17
Il Nobel dell’Economia a Thaler Quei segreti sull’irrazionalità
Il professore di Chicago e le scelte (sbagliate) sui mercati finanziari
di Riccardo Viale

Ieri l’Accademia Reale delle Scienze di Svezia ha conferito il Premio Nobel per l’Economia a Richard Thaler. Nella motivazioni generali si legge che Thaler ha creato un importante ponte fra la psicologia e l’economia ed ha contribuito al potenziamento della dimensione empirica dell’economia. Thaler infatti, dopo Herbert Simon, Daniel Kahneman, Vernon Smith e Robert Shiller rappresenta un nuovo riconoscimento al programma originario di Simon: la costruzione di una economia fondata su basi empiriche.
Thaler non nasce psicologo, ma economista. Deve però la sua svolta cognitiva soprattutto all’incontro con Amos Tversky e Daniel Kahneman. In un convegno a Monterey nel 1976 ebbe la fortuna di incontrare due pionieri degli studi sulla decisione Baruch Fischhoff e Paul Slovic che non solo gli aprirono il nuovo mondo delle scienze cognitive, ma lo misero in contatto con due giovani ricercatori che lavoravano a Gerusalemme, Tversky e Kahneman. Da allora il suo rapporto con i due fu continuo. Scherzosamente diceva agli amici che nella stesura di un articolo applicava il Test di Amos cioè “Amos lo approverebbe?”.
Thaler è riconosciuto come il padre della finanza comportamentale. Di fronte agli assunti dell’ e conomia finanziaria come «l’ipotesi del mercato efficiente» di Eugene Fama egli contrappone due tesi che all’inizio sembrarono provocazioni: il prezzo di mercato non è razionale e sono possibili pasti gratis, cioè è possibile battere il mercato. Il mercato funziona come il «beauty contest» di Keynes. Il trading è più alto di come ci si aspetterebbe dalle teoria economica perché gli investitori sono «overconfident», cioè pensano di essere più furbi degli altri e perché tendono a reagire eccessivamente a dati insignificanti ed a estrapolazioni senza fondamento. Sulla base di questi comportamenti irrazionali personaggi come Warren Buffett (non per caso studente del padre del «Value Investing», Benjamin Graham) battono il mercato. Non vi è stato campo della economia comportamentale in cui non abbia portato innovazione, dalla teoria delle preferenze sociali e della «fairness» a quella sul time discounting e sull’impulsività, dalla teoria sulla contabilità mentale alla scoperta dell’«effetto dotazione».
Richard Thaler con il giurista Cass Sunstein negli ultimi 10 anni si è dedicato all’applicazione dell’economia comportamentale alle politiche pubbliche. Se gli individui tendono a non essere così razionali come li descrivono i sostenitori del mercato, allora c’è bisogno di aiutarli («nudging», cioè spingerli delicatamente) a decidere per il proprio bene. Con il bestseller Nudge (scritto con Sunstein) Thaler si trova ad occupare una scena a cui non era abituato, quella dei Gabinetti dei ministri. In particolare poco dopo la sua pubblicazione il governo Cameron lo chiama come consulente del Team di Analisi Comportamentale (BIT) del Cabinet, appena costituito, per mettere in pratica le ricette di Nudge. Dall’altra parte dell’Oceano Obama segue l’esempio britannico, chiama Sunstein alla Casa Bianca e crea un team analogo. Da allora quasi tutti i paesi Ocse, tranne l’Italia, e molti emergenti si sono dotati di analoghe unità. Contro la dichiarata ostilità dei giuristi autoreferenziali e degli economisti fondamentalisti si sono raggiunti risultati significativi in molti campi delle politiche pubbliche, come il fisco, il credito, l’ambiente, la previdenza, la sanità e l’istruzione.
Richard Thaler è l’opposto del modello dell’economista efficiente, molto compiaciuto di se e stakanovista. Un aneddoto. Nel 2001 va a trovare Kahneman a Berkeley e si trova, casualmente, ad assistere ad una sua intervista al New York Times Magazine. Kahneman, ad un certo punto, comincia a parlare di lui: «Oh, sa qual è la migliore cosa su Thaler, ciò che lo rende veramente speciale, è che è pigro».

Repubblica 10.10.17
L’economia scopre l’inconscio. Nobel al padre della “spinta gentile”
L’americano Richard Thaler ha creato la teoria del“nudge”, un condizionamento psicologico sottile che punta a orientare per il meglio le nostre scelte. Dalle foto sulle sigarette alle mosche disegnate nelle toilette, si applica in tutto il mondo
di Ettore Livini

Premiate le ricerche di Richard Thaler sui comportamenti
IL Nobel sfratta per un anno l’economia dal suo empireo di algoritmi e formule matematiche e la riporta con i piedi per terra, tra noi comuni mortali dove le scelte di portafoglio e di vita si fanno non solo con il pallottoliere ma pure con il cuore e l’istinto. Il premio della Banca nazionale svedese è stato assegnato per il 2017 a Richard Thaler dell’Università di Chicago per i suoi studi sull’economia comportamentale. Ovvero la scienza che studia come le bizze e le variabili della mente umana — dalla mancanza di autocontrollo alle preferenze sociali — influenzino le nostre decisioni, stravolgendo la razionalità ragionieristica predicata dai “guru” della pianificazione domestica.
SEGUE A PAGINA 15 CON UN’INTERVISTA DI FLAVIO BINI
Q UALCOSA di più che un esercizio accademico: le ricerche a cavallo tra neurologia, psicologia ed economia classica di Thaler hanno elaborato la teoria del “Nudge” – com’è intitolato il suo best- seller del 2007 - la “spinta gentile” per orientare i cittadini (e i consumatori, con ottica aziendale) a comportamenti predeterminati e – auspicabilmente – virtuosi. Sono “nudge” le drammatiche immagini stampate sui pacchetti di sigarette per scoraggiare il tabagismo, i buoni punti – spendibili nei negozi di quartiere – distribuiti in alcune aree di Londra per incentivare la raccolta differenziata (salita in effetti del 35%). È moral suasion figlia dell’economia comportamentale la decisione di molti governi di incentivare la donazione di organi rendendo obbligatoria una presa di posizione – per il sì o per il no – quando si prende o si rinnova una patente. Un dirigismo a fin di bene visto che la necessità di fare questa scelta, di solito procrastinata il più possibile, ha fatto decollare le adesioni al programma.
Le teorie di Thaler, non è un caso, hanno trovato voce ed eco in ambienti lontani mille miglia dalle aule universitarie: 51 nazioni hanno creato uffici statali ad hoc per trasferire dalla teoria alla pratica i teoremi del “nudging”. Il governo inglese ha lanciato nel 2010 il Behavioral Insights Team per capire come “promuovere” la virtù civica. Era un esperimento- scommessa, destinato alla chiusura in due anni se non avesse generato guadagni pari a dieci volte il suo costo (allora 500 mila sterline). Oggi è ancora in piedi, occupa cento scienziati e ha all’attivo diversi successi: il boom dei fondi per la previdenza complementare grazie al ribaltamento delle procedure di iscrizione, tutti vengono arruolati a meno che non si chiamino fuori; l’aumento del 35% delle coibentazioni dei tetti – con grande risparmio energetico - dopo la campagna che garantiva lo sgombero dei solai, una iattura per gli inquilini, a carico dei costruttori. La stessa Banca mondiale (come le Nazioni Unite) applica da tempo la tecnica della “spinta gentile” in diversi programmi: gli sprechi e la corruzione sanitaria in Nigeria sono crollati dopo che i medici più virtuosi e attenti alla registrazione delle spese sono stati premiati con attestati alla loro probità esposti negli ospedali.
I critici naturalmente non mancano. C’è chi accusa Thaler e il suo “paternalismo liberale” – come l’ha definito lui stesso – di essere un’arma di manipolazione di massa e di persuasione occulta per indirizzare i comportamenti e le scelte pubbliche. Il neo-Nobel – come risposta – firma tutta le dediche dei suoi libri con il motto “nudge for good”, ricordando che tocca a chi governa usare bene le armi a disposizione di chi declina nella quotidianità l’Abc dell’economia comportamentale.
Confini reali all’utilizzo pratico del pensiero thaleriano in effetti non esistono: Amsterdam ha migliorato (e di tanto) l’igiene nelle toilette pubbliche maschili stampando nella ceramica degli orinatoi una mosca nera. Che usata metodicamente come bersaglio dagli utenti ha ridotto dell’80% i danni collaterali. Bogotà ha tagliato incidenti e costi sanitari del traffico dipingendo sull’asfalto vivacissime strisce pedonali colorate che colpiscono (e rendono più prudenti) anche gli automobilisti più indisciplinati.
Molte città americane alle prese a inizio millennio con la piaga delle gravidanze precoci ripetute hanno offerto alle madri minorenni un dollaro per ogni giorno in cui non erano incinte, riducendo del 55% le maternità indesiderate. La Gran Bretagna, preoccupata per i 2,3 milioni di cicche di sigarette buttate ogni giorno per terra, ha ridotto lo tsunami ecologico incentivando il buon senso con i doppi cestini- quiz dove gettare il mozzicone per esprimere un’opinione («È più forte Cristiano Ronaldo o Leo Messi?», il più gettonato). L’economia comportamentale insomma fa parte della nostra quotidianità e ha sdoganato tra le variabili scientifiche e tra i sapientoni del Nobel anche l’imprevedibilità caratteriale e la follia umana. Valori che Thaler non ha smesso di applicare nemmeno ieri: «I 950 mila euro del Premio? Li spenderò nella maniera più irrazionale possibile!». Conoscendolo, non poteva essere altrimenti.
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Molte città Usa hanno impiegato le sue idee per ridurre la piaga delle gravidanze precoci I critici definiscono il suo paternalismo liberale una manipolazione. Ma lui: “Va usato a fin di bene”

Il Fatto 10.10.17
La Leopolda della paura: Renzi evoca l’Apocalisse
La kermesse - Terrorizzato dai sondaggi il premier personalizza (di nuovo) il referendum, insulta “il Fatto”, i manifestanti e la minoranza del Pd
di Wanda Marra

Possiamo spiegarlo nel merito, ma in un mondo nel quale la contestazione diventa odio, abbiamo un’unica possibilità: spiegare che questo referendum riguarda non noi, ma il nostro futuro”. Ci voleva la chiusura della Leopolda numero 7 perché Matteo Renzi ricominciasse a fare quello che aveva promesso di non fare più. Ovvero, personalizzare. Il messaggio che torna a mandare è, più o meno, “dopo di me il diluvio”. Sottotesto: comunque vada, sarà lui che decide. Tanto è vero che lo fa dire al ministro del Lavoro Poletti in un’intervista a Repubblica:: Se vince il No, ci saranno le elezioni. E poi le larghe intese. Cose che aveva annunciato e poi negato, a giorni alterni.
L’antica stazione industriale di Firenze è pienissima. Prima di lui, sul palco salgono le neo-mamme. Perché il Sì è per i bambini, il Sì è per il futuro, il Sì è contro l’Europa dei burocrati, il Sì è per la stabilità. Qualcosa Renzi lo dice, altro lo fa dire. Il timore per il 4 dicembre lo ha accompagnato per tutta la tre giorni. “Sono ancora convinto di vincere”, dice. Ma in realtà è tutta una ricerca di piani B. In apertura, gliel’aveva detto Matteo Richetti: “La gente vota No perché non ti sopporta”. Lui evidentemente lo sa e ha deciso di declinare questa consapevolezza a modo suo: andando allo scontro frontale, ridicolizzando e attaccando gli avversari. E mettendosi al centro della scena. Non ci sono “guru” che tengano, non ci sono rimproveri di Napolitano che bastino, Renzi fa l’unica cosa che è in grado di fare: lui contro tutti.
Così era cominciata, durante la conferenza stampa di fine anno: “Se perdo il referendum smetto di far politica”. Convinto di avere abbastanza consenso per trainare il voto. Dopo la sconfitta alle amministrative, consapevole di quanto fosse stata anche la sua persona a provocarla, la parola d’ordine diventa “spersonalizzare”. Quindi, slegare le sorti del referendum dal suo destino. Di abbandono della vita politica non si parla più. Forse di dimissioni da premier. Magari non da segretario, per poter poi gestire un’eventuale sconfitta come leader del partito di maggioranza. Il 9 agosto alla Festa dell’Unità di Villalunga ammette: “Ho sbagliato a personalizzare”. Un paio di settimane dopo, alla Versiliana: “Si vota nel 2018”. Comunque vada il referendum? “Sì”. Con quale governo, chissà. Il messaggio che passa è: se vince il No, non succede niente. Parte il nuovo mantra: “Il voto è nel merito. Parliamo del merito”. Nei sondaggi non paga: il No resta stabilmente avanti, almeno di 2-4 punti. E anche il trend degli incerti, che vengono dati intorno al 30%, negli ultimi giorni, vede il Sì in discesa. Due terzi del paese non è con il premier. Ieri, per l’ipotesi di sconfitta, Renzi provoca: “Volete un governicchio tecnico?”. Il sottotesto è chefarà di tutto per evitarlo. Sostenendo solo un governo per fare la legge elettorale e votare in tre mesi (come annuncia appunto Poletti) o chissà, accettando un reincarico. Scenari, peraltro, non proprio nella sua disponibilità.
Se vince il No, non è detto che possa dare le carte. Neanche nel Pd. Segnali: ieri il ministro della Cultura, Dario Franceschini, alla Leopolda c’era. Ma i suoi non si sono visti nei due giorni prima. Uno che si prepara a scendere dal carro con tutto il suo potere. “L’anno prossimo la Leopolda sarà tra il 20 e il 22 ottobre”, annuncia Renzi in risposta a chi immaginava fosse l’ultima. Come dire: io rimango in gioco.
Ieri, il suo intervento è preceduto da un black out. Via la luce, giù i maxi schermi, fuori ci sono tuoni e fulmini. “È un castigo divino”, dice lui, quando può iniziare. L’incidente lo carica ancora di più. Il castigo lo promette lui: “Il quesito per molti non è sulla Costituzione: ci sono quelli che votano No per ritornare al potere, quelli che puntano a distruggere il Pd, quelli che hanno votato sei volte sì, come Renato Schifani e poi sono a capo del comitato del No”, dice. Ne ha per tutti. “Ci sono i leoni della tastiera, che quando ti incontrano non ti guardano negli occhi. Ogni riferimento a Travaglio è puramente casuale”. Beppe Grillo? “No, lui ha detto che non l’ha studiata la riforma, e se l’è fatta spiegare da Di Maio che non l’ha capita”. I manifestanti? “Non si difende la Costituzione, insultando l’istituzione”. A D’Alema: “Ha detto: ‘Noi l’avremmo fatta meglio’. ‘E perché non l’hai fatta?’ gli chiedo”. La platea gli dedica una standing ovation e urla “Fuori, fuori”. Gianni Cuperlo ha annunciato il suo Sì, gli altri vengono invitati all’uscita. Bersani lo nomina per associazione tra quelli che “quando ci sono loro c’è la Ditta, se no è l’anarchia”. La platea si spella le mani. Lui, sul palco, ha gli occhi stretti, la camicia bianca che si imbeve di sudore. Ma per scongiurare la sconfitta proprio a quella platea si appella: “Invece di urlare, fate un comitato”. Di mobilitazione non ne vede abbastanza. Mentre parla, la regia inquadra spesso Agnese: è il momento di parlare ai moderati. Messaggio formato famiglia.
Mancano 28 giorni e oltre a alzare il tono dello scontro non ha molte carte da giocare.

Il Fatto 10.10.17
Al voto. Il problema non è Pisapia, ma la società abbandonata a se stessa
di Vincenzo Stalteri

La risposta che chiede il prof. Alberto Asor Rosa, quando si domanda perché Pisapia non abbia continuato a fare il sindaco, è semplice: temeva un insuccesso elettorale perché, a mio avviso, molti milanesi avevano capito che era un bluff, incapace e inconsistente. Per fare il sindaco di una metropoli occorre, peraltro, vigore politico e immediatezza nelle decisioni, qualità che Pisapia ha dimostrato di non avere. Credo che i milanesi lo hanno già dimenticato e fra non molto gli italiani faranno fatica a ricordare la sua apparizione nel panorama politico nazionale.
Non so se il professor Asor Rosa condivida la sua opinione. Ha spiegato invece, con sufficiente chiarezza, il suo giudizio: il Partito democratico ha mutato linea politica al punto da rendere poco credibile ogni alleanza verso sinistra. Non mi sento di dargli torto: la percezione che si ha di quel partito pare oggi così distante ed estranea ai destini di chi crede in un governo, e mi scuso per la semplificazione, che dia più forza alla società debole e anonima, numerosa e dispersa, e riduca sotto il controllo della legge i poteri forti, sempre enormemente debordanti.
Ma il problema non può essere circoscritto al Pd. Il punto sul quale anche Asor Rosa giustamente dubita, è se queste personalità che ora chiamano a raccolta la sinistra abbiano la forza, le idee e la reputazione per smuovere le passioni e affrontare la salita della montagna che gli sta di fronte.
Troppa gente non vota più, il segno più temibile di una democrazia infragilita e depressa dove anche gli attori nuovi, come il Movimento 5 Stelle, si dimostrano incapaci alla prova del governo deprimendo ancora di più speranze – in verità già assai residue – che in fondo al tunnel qualche luce si potesse intravedere.

Il Fatto.10.10.17
Montanari e Falcone: “La sinistra sia civica, D’Alema fatti più in là”
Anche lo storico dell’arte chiede a Baffino un “passo di lato” Lui risponde: “Pare una scuola di tango”. Poi riapre a Pisapia
di Tommaso Rodano

Esce Pisapia, entra la “sinistra del Brancaccio”. All’indomani della rottura con l’ex sindaco di Milano, lo scenario si aggiorna: Tomaso Montanari e Anna Falcone presentano la loro iniziativa con una conferenza nella sede di Stampa Romana. “Vogliamo la sinistra che non c’è”, dicono. Ovvero: una lista civica, nata dalla battaglia in difesa della Costituzione e costruita dal basso. Da fare anche insieme ai partiti – da Mdp fino a Rifondazione comunista – purché non siano i partiti a guidarla. Stelle polari: gli spagnoli di Podemos e i laburisti di Jeremy Corbyn.
Falcone e Montanari, insomma, vogliono contribuire alla nascita della lista unitaria – di cui si parla ormai da mesi – ma solo alle loro condizioni. Lo storico dell’arte lo spiega con una battuta. Neanche a dirlo, su Massimo D’Alema: “Abbiamo perso tanti mesi a discutere su chi dovesse guidare l’autobus (Pisapia, ndr), non è il caso di perdere tempo anche sui passeggeri”. Un messaggio feroce: se qualcosa può nascere a sinistra, i partiti non devono guidare un bel niente. D’Alema e Bersani sarebbero “passeggeri” e non conducenti. “Chi ha già avuto a lungo incarichi politici – spiega – potrebbe fare un passo di lato”. Montanari (forse involontariamente) utilizza la stessa, identica espressione di Pisapia su D’Alema. Ieri, per inciso, l’ex premier è stato omaggiato anche da uno dei suoi nemici storici: Achille Occhetto, l’uomo della svolta dal Pci al Pds, era di passaggio alla Camera. Interpellato su D’Alema, ha sibilato: “L’Italia è ancora nelle mani di un serial killer”… La replica del lider Maximo a Montanari arriva nel pomeriggio, da Milano. Con la proverbiale ironia: “C’è chi mi chiede un passo in avanti, chi indietro e chi di lato. Sembra di essere alla scuola di tango”. D’Alema è in versione battutista: “Pisapia ha detto di volersi accordare con Renzi. Se non ci riesce ci siamo noi. Ma tra noi e il Pd, Giuliano rischia di stare stretto: non vorrei che alla fine sia lui a fare un partitino, che magari prende il 3%…”. Poi però si fa più serio: per l’ex sindaco, dice, le porte sono ancora apertissime. Viste le cronache di questi giorni, è una notizia: “Pisapia rimane il primo interlocutore”. E aggiunge: “Il nostro è un processo aperto. Speriamo possa starci anche Campo progressista”.
Quella che è stata raccontata come una rottura, dunque, potrebbe non essere ancora tale. Al massimo un’accelerazione: “Non si poteva continuare a tergiversare – spiega D’Alema – perché le elezioni sono vicine e andare avanti senza avere né un nome né un simbolo non sarebbe stato giusto. Così ci ha pensato Roberto Speranza”. Lo stesso Speranza che D’Alema definisce “leader” della nuova sinistra.
La confusione, nell’universo al di là del Pd, continua a regnare. Ricapitolando: c’è la proposta civica di Falcone e Montanari, la rottura (o presunta tale) con Pisapia, le ondeggianti posizioni dei padri nobili di Mdp, le richieste di Pippo Civati e Nicola Fratoianni. Il famoso “campo largo” per adesso è ancora un campo di battaglia.
Se ne capirà qualcosa in più in vista del 19 novembre, la data indicata da Speranza per l’assemblea fondativa. Fondativa di cosa, non si sa: sarà la costituente di Mdp o l’atto di nascita di una nuova lista unitaria? Risponde Speranza: “Sarà aperta a tutti coloro che vogliono costruire un’alternativa progressista alle politiche sbagliate di Renzi”. Chi vivrà, vedrà.

La Stampa 10.10.17
I paletti di Pisapia all’alleanza col Pd
“Non vada Renzi a Palazzo Chigi”
La replica: “L’ex sindaco un indeciso, con noi alle nostre condizioni”
di Francesca Schianchi

«Il Pd non può immaginare di imporre il suo segretario a Palazzo Chigi. E poi ci vuole discontinuità su alcuni temi di programma». All’indomani della rottura con Mdp, dalle fila di Campo progressista c’è già chi ragiona su come impostare un rapporto con i democratici. Lasciato alle spalle il progetto di un movimento comune con Bersani e D’Alema, dalle parti di Pisapia, il suo ex assessore e fidato amico Bruno Tabacci guarda alla prospettiva di un dialogo con il partito di Renzi, mettendo però una condizione molto chiara: non sia il segretario il predestinato alla premiership. Un paletto che rischia di minare fin dall’inizio il rapporto con i dem, dove si aspettano le prossime mosse di Pisapia con una certa freddezza: «Finora è stato indeciso e contraddittorio. Aspettiamo e vediamo di capire cosa farà», il commento diffuso ai piani alti del Nazareno.
«In un sistema proporzionale, quando si formano le coalizioni non è il leader del partito di maggioranza relativa ad approdare a Palazzo Chigi: l’unica volta in cui la Dc impose il suo segretario fu De Mita, nel 1988», spiega Tabacci quello che, tra le righe, l’ex sindaco di Milano ha già fatto capire da tempo. Costellando le sue dichiarazioni di critiche al segretario - pochi giorni fa in radio lo ha definito «molto divisivo all’interno e all’esterno del Pd» - e di elogi al suo successore - ieri, in un’intervista, ha definito Paolo Gentiloni «una persona di altissimo livello». Nessun veto su Renzi come interlocutore politico, insomma, vincitore di primarie e quindi legittimo titolare della leadership del Pd, ma senza immaginarlo candidato alla guida di un eventuale governo comune. Dove, invece, una figura ecumenica e rassicurante come Gentiloni sarebbe vista con favore. «Se si vuole fare una coalizione bisogna chiarirsi sul metodo prima ancora che sul merito – prosegue Tabacci – Anche se il Pd deve imparare a fare anche un po’ di autocritica sui programmi: se tutto finora è stato fatto perfettamente, come mai il referendum è andato male?».
Condizioni a cui dal Pd evitano per ora di dare la scontata risposta ufficiale: proposta irricevibile. «È normale che Pisapia cerchi di tenere il punto perché ha una polemica ancora aperta con Mdp», liquidano le richieste degli uomini dell’ex sindaco, impegnati a definirsi «né stampella del Pd né cartello elettorale di sinistra». La rottura con gli scissionisti dem guidati da Speranza – riuniti ieri a Roma – è ancora fresca: «C’è chi mi chiede un passo in avanti, chi indietro e chi di lato. Sembra di essere alla scuola di tango», ironizza D’Alema sugli screzi di questi giorni, tornando a pungere Pisapia - «non vorrei che alla fine sia lui a fare un partitino del tre per cento» - e sferzandolo sul rapporto col Pd: «Penso che ci ritroveremo, in fondo abbiamo lo stesso obiettivo: ricostruire il centrosinistra sulla base di una chiara e netta discontinuità di contenuti e di leadership. Come ha detto lui: questa è una citazione testuale».
Discontinuità di contenuti e leadership che Campo progressista vorrebbe davvero ottenere dal Pd. Ma con nessuna chance di successo. «Renzi ha vinto le primarie, e il nostro statuto dice che è il candidato premier. Punto», è quello che ripetono tutti i suoi uomini. In gran parte delusi, anche fra chi più ci aveva creduto, dalla titubanza di Pisapia di questi mesi: «In genere uno corteggia donne che sa gli diranno di sì: ecco, diciamo che Pisapia non lo corteggerei», lo stato d’animo sintetizzato in una battuta da Lorenzo Guerini. Certo, il fatto che abbia contribuito a frantumare il fianco sinistro del Pd è un favore, ma nessuno dà per acquisita la sua presenza come alleato. Anche perché resta aperta un’incognita che avrà un peso fondamentale nell’atteggiamento di tutti: la legge elettorale. Un dubbio destinato però a sciogliersi presto: il Rosatellum bis arriva in Aula oggi.

La Stampa 10.10.17
Convention ulivista per Bonino
Apre Letta e chiude Prodi
Interventi di Saviano e Pisapia. Ipotesi di una lista laico-cattolica
di Fabio Martini

Sul palcoscenico dell’hotel Ergife, albergone di periferia dove si spensero i partiti della Prima Repubblica, il 28 e 29 ottobre andranno in scena le prove generali di un nuova, originale lista elettorale laico-cattolica: la due giorni della Convention dei Radicali italiani guidati da Emma Bonino sarà infatti aperta da un intervento di Enrico Letta, sarà chiusa da Romano Prodi e durante i lavori prenderanno la parola Giuliano Pisapia, Carlo Calenda e Roberto Saviano. Certo, siamo ancora ai preliminari e il livello di coinvolgimento dei vari personaggi, a cominciare da Prodi e Letta, è tutto da verificare. Ma c’è una novità. Nelle settimane scorse i futuri protagonisti dell’Ergife - sinora in modo informale - hanno concordato su un dato: serve una nuova offerta elettorale nell’area a cavallo tra il Pd di Renzi e l’Mpd di D’Alema e Bersani.
Ma ora qualcuno comincia ad uscire allo scoperto. Dice Giulio Santagata, già braccio destro di Romano Prodi a palazzo Chigi: «Ci sono dieci milioni di elettori disamorati da tutti i partiti e una quota di questi sono vicini al Pd». Dice in perfetta sintonia Alessandro Capelli, portavoce di Giuliano Pisapia, oramai in rotta con Mdp: «Milioni di persone che dichiarano di appartenere al campo del centrosinistra non votano il Pd a trazione renziana e non votano le formazioni della sinistra. Serve qualcosa che non sia né stampella del Pd, né cartello elettorale che si candida preventivamente all’opposizione».
Dunque, il campo è individuato. Ma passare dalle alate analisi politologiche ai fatti non è impresa semplice. Per questo la Convention dei Radicali italiani (l’ala che fa capo a Emma Bonino, oramai divisa da quella Bernardini-Turco che ha in mano le “chiavi” della Radio e del partito) può diventare il trampolino di lancio di questo progetto. La manifestazione è presentata in un comunicato con parole eloquenti: «Serve un’offerta politica ed elettorale aperta che ponga al centro del dibattito delle prossime elezioni le istanze europeiste». Spiega Riccardo Magi, segretario dei Radicali italiani: «Il vero, nuovo discrimine politico non è tra destra e sinistra ma tra Europa e anti-Europa e tutti i grandi problemi che affronteremo in appositi panel (flussi, difesa, finanza pubblica e welfare) dipendono da questa scelta dirimente».
Tutti i protagonisti della Convention - Bonino, Prodi, Letta, Pisapia, Calenda, Della Vedova - sono europeisti convinti, ma il passo in più sarà mettersi d’accordo su una formazione elettorale. Il prodiano Santagata la chiama «Lista civica nazionale», Bruno Tabacci, vicino a Pisapia, la auspica come soluzione ottimale e dice che «il panel del 28 e 29 ottobre ci indica la strada», mentre Magi, braccio destro di Emma Bonino ammette: «Consultellum o Rosatellum? Francamente è indifferente, l’importante è farla partire questa lista europeista». Alla Convention ci sarà anche un potenziale testimonial come Roberto Saviano, che ha sempre ripetuto di non essere interessato ad entrare in politica, ma che non ha mai lesinato ammirazione per Emma Bonino, definendola «una donna straordinaria». E dentro un’area che deve ancora nascere già da tempo si muovono altri soggetti, come il Psi di Riccardo Nencini, che ha assicurato di portare in dote qualcosa che è deficitaria negli altri soggetti: un’ossatura organizzativa nazionale, un “quid” essenziale quando si profila una campagna elettorale.

La Stampa 10.10.17
”Accordo con Mdp su manovra
e Rosatellum, poi la coalizione”
Il ministro Andrea Orlando: Pisapia non è la longa manus del Pd Cambiamo la legge elettorale con un candidato premier comune
di Carlo Bertini

«Ora per aiutare Pisapia bisogna costruire un contesto unitario, non è nostro interesse farlo diventare una “longa manus” del Pd». Andrea Orlando si ostina nel vedere nella rottura a sinistra la possibilità di una ricucitura nel centrosinistra: per questo il ministro della Giustizia, nonché sfidante di Renzi alle primarie, propone a Mdp una tregua col Pd. Che deve «abbandonare del tutto la vocazione solitaria», è l’invito esplicito a Renzi.
Pensa che con Mdp non sia tutto perduto?
«Lavorerò fino all’ultimo perchè questa prospettiva non si compia. È la linea che corrisponde al senso comune del nostro elettorato. Una parte di esso non parteggia per nessuno, se c’è divisione se ne resta a casa, come abbiamo visto alle amministrative».
Per rimotivarlo basterebbero le primarie di coalizione?
«Penso sia naturale che a indicare il premier sia la forza più grande, ma le primarie sono una questione che viene dopo. Ora l’importante è riconoscere fino in fondo l’esistenza di una coalizione e poi decidere la base programmatica».
Un’alleanza anche con Alfano?
«Se costruiamo insieme la coalizione, per vincere abbiamo bisogno di forze moderate. Un lavoro serio in questo senso può aggregare altre forze liberali ed europeiste».
Cosa dovrebbe fare Pisapia dopo la rottura del suo cantiere?
«Dobbiamo aiutarlo noi con un’offensiva unitaria nei confronti di tutti quelli alla nostra sinistra che, pur avendo rotto col Pd, non pensano che questo sia sufficiente a giustificare una vittoria della destra. Pisapia si è indebolito perchè si è trovato isolato e non sempre ha trovato nel Pd una sponda adeguata. Il Pd della vocazione solitaria non lo ha aiutato: se teniamo insieme vocazione maggioritaria e vocazione coalizionale, alcune forze di Mdp e della sinistra possono guardare con una prospettiva diversa all’alleanza con noi. Non serve fare gli annessionisti, dobbiamo consolidare l’apertura a sinistra con atti concreti».
Come?
«Discutendo insieme sulla legge elettorale al Senato, se loro sono disposti a sedersi al tavolo con noi. E lavorando insieme sulla legge di bilancio: sono questi i due terreni concreti che possono valere più di tante polemiche sui nomi».
Viceversa, pensate di poter vincere le elezioni anche con Mdp contro in ogni collegio?
«Insisto. Se Mdp si sedesse al tavolo con noi, nel passaggio al Senato, possono esserci delle modifiche alla legge elettorale che tengano conto delle loro obiezioni. In particolare, sul tema delle coalizioni, per dare basi più solide con un patto programmatico ed una comune indicazione del premier. Ma perchè ci siano queste modifiche bisogna che il loro giudizio sulla legge sia profondamente riconsiderato. Se continuano a demonizzarla, difficile trovare un terreno comune».
Se passasse il rosatellum ora con chi fareste la coalizione?
«Presenteremmo un programma che mira a trasformare il paese nel segno di una maggiore equità sociale, non rivendicativo di quanto fatto, di cui siamo peraltro orgogliosi, ma piuttosto proiettato su quello che si deve fare, anche correggendo alcune impostazioni. E chiederemo alle altre forze politiche di costruire una unità per impedire che vadano al governo i populisti e la destra».
Su quali contenuti?
«Credo paradossalmente che sia più facile trovare un accordo sui contenuti che non tra le persone: sono tutti d’accordo che c’è bisogno di maggiore coesione sociale, di rafforzare il welfare, di redistribuire la ricchezza, di sostegno attivo alla ripresa industriale, sia con politiche specifiche che con investimenti pubblici».
Sul rosatellum metterebbe la fiducia?
«Non è una considerazione che posso fare io, vanno ascoltati i capigruppo di maggioranza e le valutazioni del premier. Ci dobbiamo mettere in ogni caso il massimo impegno. Ne va della credibilità delle istituzioni e anche del Pd. Una bocciatura sarebbe prima di tutto una nostra sconfitta politica. Per quanto possa soddisfarci soltanto parzialmente, questa legge è frutto di una linea che abbiamo affermato noi. E una bocciatura nel voto segreto sarebbe un altro colpo di immagine come quello che si consumò con i casi di Prodi e Marini per la presidenza della Repubblica».
A proposito di Prodi: dovrebbe impegnarsi in qualche ruolo?
«Io non posso che vedere bene, in un momento così difficile per l’Italia e per l’Europa, un ruolo attivo di tutti quelli che hanno lavorato alla costruzione del Pd. Il loro contributo ci ricorda la mission originaria».
Il Pd deve completare la svolta avviata da Renzi?
«Ora c’è bisogno di consolidare la svolta non solo con una maggiore condivisione delle scelte, ma soprattutto dobbiamo sostanziarla sulle politiche economiche e sociali: la legge di bilancio sarà la prima occasione».

Corriere 10.10.17
Gli uomini di Pisapia si contano Pronti a formare un loro gruppo
Duro attacco di Occhetto a D’Alema: Paese in mano a un serial killer, nessuno dice niente
di Monica Guerzoni

ROMA Incomunicabilità totale, rottura (per adesso) irreparabile. Siglato il divorzio, Mdp e Campo progressista riprendono il viaggio in due direzioni diverse e contrarie. Bersaniani e dalemiani dialogano con gli altri scampoli di sinistra, da Si di Fratoianni a Possibile di Civati, mentre Pisapia non chiude al Pd di Renzi. «Che Giuliano torni indietro è del tutto impensabile», assicura Bruno Tabacci e spera che il leader punti dritto all’abbraccio con i dem.
Ma al vertice di Mdp non tutti ritengono chiusa la partita. Massimo D’Alema lascia balenare l’ipotesi di un arrivederci. «Penso che ci rivedremo — dichiara con un filo di malizia l’ex premier a Milano —. In fondo abbiamo lo stesso obiettivo, ricostruire il centrosinistra sulla base di una netta discontinuità. Come ha detto Pisapia, perché questa è una sua citazione testuale».
All’indomani dello strappo di Roberto Speranza dalle pagine del Corriere , la giornata di ieri ha visto un rodeo di riunioni e confronti, a porte chiuse o in pieno Transatlantico. Speranza ha convocato il coordinamento di Mdp e ha formalizzato la scelta di proseguire da soli: «Vogliamo costruire una forza progressista alternativa alle politiche sbagliate di Renzi». E Pisapia? «Non dirò mai una parola contro di lui, basta parlare di nomi».
Il piano dell’ex sindaco è ritornare al «progetto originario» di un centrosinistra largo e plurale che alzi i vecchi vessilli della «rivoluzione arancione». L’assemblea, in programma per il 14 ottobre, potrebbe slittare al 28. Il Pd apparentemente non fa pressing sull’avvocato, ma ritiene Pisapia «un simbolo» e conquistarlo alla causa dem, magari con una lista di Campo progressista schierata in coalizione con il Pd, è per Renzi un obiettivo strategico. «Siamo aperti a ragionamenti sul programma», conferma il capogruppo Ettore Rosato.
Nessun contatto tra gli ormai ex compagni di strada, nessun tentativo di ricucitura. Finché non si conoscono il destino della legge elettorale e il verdetto delle elezioni siciliane, il quadro non può cambiare. Dopo, chissà, ma intanto gli strascichi della lacerazione sono pesanti. Mdp accusa Campo progressista di essere subalterno al Pd e di voler fare da «ancella» a Renzi. E Campo progressista accusa Mdp di voler mettere su «il solito cartello elettorale della sinistra, destinato a sfasciarsi dopo aver eletto qualche dirigente o portavoce». Così scrive Alessandro Capelli, il quale assicura che la prospettiva non è fare «da stampella a Renzi» e propone una moratoria sulle reciproche accuse: «Non ci sono rancorosi, minoritari, settari, partitini, partitoni, gruppettari, traditori, subalterni».
La spaccatura arriva fin dentro i gruppi parlamentari di Mdp, dove i sostenitori di Pisapia convivono con deputati e senatori ex ds. Il disagio è forte e si tenta la strada dei gruppi autonomi. Ieri alla Camera una quindicina di «pisapiani» si è riunita per decidere il da farsi. I più determinati a uscire dal gruppo sarebbero Formisano, Piras, Ragosta, Zaratti, Matarrelli, Martelli. E poiché altri, come Quaranta, Rostan, Melilla e Nicchi frenano, per ora la linea di Ciccio Ferrara è restare: «Siamo un collettivo. O usciamo tutti, o nessuno». Per avvicinarsi alla soglia di venti deputati potrebbero aggiungersi Zaccagnini, Duranti, Bordo, Sannicandro, Monaco, Tabacci, Catania e forse anche Dellai e Nencini.
Avvistato alla Camera, l’ex segretario del Pci Achille Occhetto attacca D’Alema con una metafora decisamente azzardata: «Il Paese è in mano a un serial killer e nessuno dice niente». Stufo di essere chiamato «lìder Maximo» il fondatore di Mdp rilancia la leadership di Speranza e prevede un futuro non radioso per Pisapia: «In mezzo tra Pd e noi rischia di stare stretto, non vorrei che alla fine sia lui a fare un partitino del 3%».

Repubblica 10.10.17
La nuova rotta del pd renziano
di Piero Ignazi

IL PARTITO democratico ha ripreso vita. Fino a qualche giorno fa annaspava in preda a una inconcludenza devastante. Rimaneva ancorato alla sua idea (fissa) di essere autosufficiente, rimasticando quella formula bizzarra del partito a vocazione maggioritaria (come se ne esistessero a vocazione minoritaria, che vogliono essere piccoli e non contare nulla…). Di quel delirio di onnipotenza, rafforzato dal “disastroso” risultato delle europee — disastroso perché ha illuso tanti e troppo — Matteo Renzi era l’interprete perfetto: sicuro e volitivo, arrogante e tranchant, brillante e telegenico. «Chi non è d’accordo può prendere la porta», dichiarò in una delle tante direzioni Pd simil-castriste (visto che parlava quasi solo lui). Con una simile concezione della politica, imperniata tutta sulle capacità demiurgiche e prometeiche del leader, il Pd renziano ha dissanguato il gruppo dirigente e dilapidato il patrimonio militante. Tant’è che dopo “il” successo elettorale delle europee, l’unico peraltro, il partito ha inanellato una serie impressionante di sconfitte. Al confronto, il Partito democratico di Bersani navigava con il vento in poppa.
Il lento ma ben percepibile disfacimento organizzativo — rilevabile più che sul numero degli iscritti, sulle feste dell’Unità organizzate — e l’ancora più evidente perdita di iniziativa politica hanno provocato una serie di reazioni nel campo del centrosinistra. Se alcuni avevano già da tempo imboccato una strada concorrenziale e competitiva (l’Mdp di Bersani and co.), altri stavano pensando a una ipotesi correttiva della strategia del partito — ed eventualmente della sua leadership — puntando sulla sponsorship di figure autorevoli vicine al partito.
Era evidente che l’isolamento orgoglioso dei democratici avrebbe portato a un drammatico ridimensionamento. Un sintomo rivelatore di questa tendenza è venuto dalla scarsissima attenzione mediatica riservata al discorso di Renzi a conclusione della festa nazionale dell’Unità: mentre fino all’anno scorso questo intervento avrebbe occupato le prime pagine, a settembre è finito in quelle interne, dietro l’altro evento politico concorrente, la convention riminese dei grillini. Una retrocessione significativa.
Forse consapevole della deriva verso cui andava il partito, forse preoccupato per il lavorìo competitivo di tanti, forse attento a buoni consiglieri, forse in previsione della nuova legge elettorale, d’un tratto Renzi ha “cambiato verso”: ha abbandonato la strategia dell’autosufficienza e si è aperto ad altre componenti e ad altri contributi per creare un fronte comune «contro la destra e i populisti»; addirittura, ha offerto un ramoscello d’ulivo ai fuoriusciti («chi ci ha lasciato non è un nostro nemico»). Ovviamente, con una legge elettorale che prevede un certo numero di collegi uninominali, un Pd in orgogliosa solitudine sarebbe andato incontro a una sconfitta certa. Invece, l’apertura — vedremo poi quanto strumentale — rimette in gioco il partito. Questa inedita strategia inclusiva non ha nulla a che vedere con le stagioni passate dell’Ulivo e dell’Unione, perché mentre allora vigeva una grande frammentazione ora c’è un partito dominante nell’area di centrosinistra. Inoltre, il cambio di passo di Renzi rinnega anche l’originaria scelta autoreferenziale del Pd veltroniano. Ironia del destino, quella strada è oggi perseguita dal M5S, indisponibile a contaminarsi con chiunque altro; e così, si candiderà a sua volta alla sconfitta.
La fase dialogica e inclusiva del Pd spariglia. Il primo a essere colpito è l’Mdp che ambiva a rappresentare una alternativa credibile e ora sente il terreno crollare sotto i piedi. A questo si aggiunga la rottura ormai insanabile con Pisapia che priva il movimento di Bersani di un apporto fondamentale per evitare di presentarsi come una ridotta di reduci.
Ora, messo all’angolo l’Mdp, recuperato in qualche forma Pisapia, sollecitate altre componenti e figure autorevoli a (ri)posizionarsi nell’area Pd, magari ripiantando le loro tende, il Pd affronta con ben altre prospettive la sfida con la destra e i 5Stelle. Rimane solo un piccolo interrogativo: chi sarà il “cancelliere candidato” di questa nuova composita alleanza?

Corriere 10.10.17
Pd cauto sulla sinistra Renzi non intende rincorrere l’ex sindaco
L’obiettivo: aspettare che Giuliano chiarisca le intenzioni
di Maria Teresa Meli

ROMA Il Pd non partirà all’inseguimento di Giuliano Pisapia, dopo la rottura con Roberto Speranza. Al Nazareno prevale infatti un atteggiamento di grande cautela.
Matteo Renzi, che ieri si è occupato prevalentemente della vicenda Ilva («Parliamo agli italiani e non al palazzo», è il motto del segretario in questa fase), era da tempo convinto che Massimo D’Alema e l’ex sindaco di Milano avessero «due linee inconciliabili». Ma ha atteso che i nodi venissero al pettine, rimanendo a guardare e invitando i suoi dirigenti a non entrare nel dibattito in casa Mdp.
Il leader del Partito democratico è convinto che Roberto Speranza e gli altri scissionisti abbiano deciso di accelerare sulla rottura con Pisapia per due motivi. Primo perché hanno capito che il Pd sul Rosatellum faceva «sul serio», che era determinato ad andare avanti e a far approvare quella riforma della legge elettorale che offre pochi spazi a Mdp mentre invece prefigura una possibile alleanza con la sinistra di governo di Pisapia, ma anche dei sindaci.
Secondo: il dibattito di venerdì, alla Direzione, ha mostrato un partito molto più coeso di quanto lo fosse prima, tant’è vero che la riunione è terminata con un voto all’unanimità al quale hanno partecipato anche le minoranze interne. D’Alema e gli altri hanno perciò compreso, secondo Renzi, di non avere appigli dentro il Pd, di non poter più giocare di sponda con Andrea Orlando e altri. Di qui l’accelerazione che, infatti, non ha sorpreso i vertici del Nazareno.
Ma adesso che lo strappo a sinistra si è consumato, e che, come spiega ai suoi Renzi, si è capito che D’Alema e soci hanno come unico obiettivo quello di «distruggere noi», il Pd non si imbarcherà in trattative «tira e molla» con Pisapia.
«Noi — ripete a tutti il segretario — siamo interessati a costruire un campo largo e inclusivo sui contenuti». E i contenuti che potrebbero costituire un terreno di confronto e di incontro con l’ex sindaco di Milano sono la battaglia in Europa sulla crescita e il lavoro (il 3 per cento nel rapporto deficit/pil), il contrasto alla povertà, nuove opportunità per i giovani.
Il Pd non vuole ripetere la telenovela che ha visto protagonisti gli scissionisti e Pisapia. Anche perché se è vero, come ritiene anche Renzi, che ormai la rottura tra l’ex sindaco di Milano e Mdp si è «consumata», è anche vero che il leader di Campo progressista non ha ancora chiarito quali siano le sue intenzioni future. Senza contare il fatto che tra i suoi consiglieri c’è chi, come Bruno Tabacci, già dice che «comunque Renzi non potrà essere il premier».
Quindi, «calma e gesso»: i vertici del Partito democratico intanto vogliono portare a casa il Rosatellum, anche con una fiducia tecnica, poi si vedrà. Senza l’approvazione della riforma elettorale, infatti, è difficile prefigurare alleanze e coalizioni.
Dopo bisognerà anche valutare quello che sta succedendo dentro Mdp, dove alcuni parlamentari non hanno apprezzato l’accelerazione impressa da Speranza, minacciando di andare via, e dove si fronteggiano tutt’ora due linee, quella di Pier Luigi Bersani e quella di Massimo D’Alema.
Nel frattempo, come sta facendo da qualche mese in qua, Renzi si tiene lontano dalle polemiche e dalle trattative. Già, la «fase zen» del segretario del Partito democratico prosegue.

Repubblica 10.10.17
L’intervista.
Il sindaco di Milano: “Mdp ha deciso di correre solo, con loro si parlerà dopo il voto. Spero che l’ex premier non scelga i candidati sulla fedeltà”
Sala: “Lista Pisapia con il Pd Matteo il leader, ma cambi”
di Alessia Gallione

MILANO. «Lo dico da elettore e da sindaco di centrosinistra: adesso basta con questo balletto sulle possibili alleanze perché la gente rischia di non seguirci più. Tanti già addebitano alla sinistra un’incapacità cronica di fare squadra e purtroppo è vero, ma a questo punto meglio essere chiari. Ognuno vada per la propria strada, si passi finalmente a parlare di programmi, e siano le urne a restituire il consenso delle proposte». Anche per Beppe Sala il «tempo in cui si poteva cercare di mettere tutti insieme è finito».
Dopo la rottura, Mdp e Pisapia che cosa dovrebbero fare?
«Mi sembra che ormai Mdp vada da solo. Se Pisapia è coerente dovrebbe mantenere aperta la discussione con il Pd, anche se probabilmente dovrà presentarsi agli elettori con una proposta autonoma. La situazione che si sta configurando, però, immaginando che il Rosatellum venga approvato, dovrebbe spingere Giuliano a candidarsi in prima persona per raccogliere più consensi possibili».
Il centrosinistra è finito?
«No, ma in un’ottica proporzionale puoi metterti d’accordo anche il giorno dopo. Che ognuno si faccia misurare e poi avrà anche maggior diritto a dire la propria».
Le piace questa legge elettorale?
«Non è la migliore, ma ha elementi interessanti come la convergenza tra Camera e Senato. Di fatto però i candidati sono decisi dai partiti e poco dagli elettori. Spero che il centrosinistra scelga persone che abbiano un vero valore e una reale esperienza, meglio ancora se amministrativa».
Che cosa metterebbe in cima alla lista delle urgenze per il Paese?
«Una politica fiscale e finanziaria per creare lavoro premiando non solo il privato ma anche le amministrazioni locali. Sull’immigrazione: riduciamo drasticamente i tempi per definire se un migrante ha titolo per rimanere in Italia e troviamo formule per far lavorare chi è in attesa. E poi una riforma delle autonomie territoriali ».
D’Alema avrebbe dovuto fare il passo di lato auspicato da Pisapia?
«Ho l’impressione che in questa vicenda ognuno guardasse all’altro e lo ritenesse più debole di se stesso. La controprova arriverà dalle urne».
E Renzi? Se non fosse candidato premier il dialogo sarebbe più semplice?
«Il Pd non ha scherzato con le primarie. La smetterei di immaginare che possa fare un passo di lato».
Per lei dovrebbe essere il candidato?
«Di fatto è così. Non è il momento di mettere in discussione la leadership di Renzi, ma è legittimo chiedergli che nella costruzione delle liste dimostri nei fatti di volere una pluralità di pensiero. Non dovrebbe mettersi nella condizione di essere accusato di aver voluto solo i fedelissimi».
Per Pisapia, Gentilloni ha un altissimo profilo.
«Sta facendo bene, forse anche meglio delle aspettative. È un valore per il Pd e il Paese. Ma la domanda è chi vincerà le elezioni? Per i sondaggi il centrodestra è in vantaggio. La partita certamente non è persa, ma dobbiamo comunque darci da fare».
Ha detto che il referendum lombardo per l’autonomia non era necessario eppure andrà a votare sì.
«Ormai si farà e la Regione investirà fondi importanti. Continuerò a spiegare le ragioni di una posizione che condivido con altri sindaci come Giorgio Gori, ma oggi ho saputo che in realtà non potrò andare a votare. Il 22 ottobre, a Parigi ci sarà il comitato esecutivo del C40 che riunisce le città del mondo alleate per l’ambiente. Milano è l’unica italiana e non posso non partecipare ai lavori con altri colleghi come Sadiq Khan di Londra o Anne Hidalgo di Parigi».
Esclude di avere ambizioni nazionali?
«Non ne ho mai avute. Ora comunque sono concentrato sulla sfida per conquistare l’Agenzia del farmaco. Fare il sindaco mi piace troppo. Un secondo mandato? Manca molto tempo ma sto facendo una pianificazione a lungo termine».

il manifesto 10.10.17
Calenda diventa compagno. E fa infuriare Mittal sull’Ilva
Nel giorno del grande Sciopero. Il ministro sbugiarda collaboratori e commissari. Si prepara a fondare un partito? I sindacati: giusto non applicare il Jobsact, ma non accetteremo un esubero neanche negli appalti
di Massimo Franchi

Il colpo di scena è totalmente inaspettato. E sorprende più di tutti i rappresentanti di Arcelor Mittal, scesi a Roma con una delegazione in grande stile per trattare le condizioni migliori a cui prendersi l’Ilva.
CONCORDATO ALL’INTERNO del governo già domenica – come dimostrano le dichiarazioni del ministro Pinotti da Genvoa – direttamente con Paolo Gentiloni, tocca a Carlo Calenda fare la parte di chi sta (improvvisamente) dalla parte dei lavoratori. La sua presenza alla trattativa non era neanche prevista. E invece il ministro dello Sviluppo economico dà inizio alla sua giornata campale – ogni sua dichiarazione su Ilva, Telecom e politica sarà rilanciata da tutte le agenzie con le stellette proprie di una breaking news – prima incontrando la cordata AmInvestCo e lasciandola letteralmente «esterrefatta», poi i tre segretari generali metalmeccanici Fim, Fiom, Uilm e infine tutta la delegazione sindacale riunita: «Non è accettabile aprire il tavolo senza garantire le condizioni salariali e contrattuali dei lavoratori. Pertanto il tavolo è annullato. L’azienda dovrà tornare dopo il confronto con gli azionisti. Se ciò non avvenisse il governo, sarebbe pronto a mettere in campo tutto quanto è nelle sue prerogative per il rispetto degli impegni presi».
POI CALENDA SCENDE LE SCALE del ministero a ripetere la frase a favore di telecamere all’ora dei tg con accanto una impietrita Teresa Bellanova: «Abbiamo incontrato con il viceministro Bellanova l’azienda e abbiamo comunicato che l’apertura del tavolo in questi termini è irricevibile». Per Calenda «è molto importante che la vicenda sia gestita in maniera responsabile da parte di tutti ma mi pare – ha detto – che questa responsabilità da parte dell’azienda non ci sia».
A CHI GLI FA NOTARE CHE venerdì il governo – per bocca proprio della Bellanova – aveva invece sostenuto che la trattativa doveva partire, Calenda risponde ripetendo quanto già detto, prima di risalire veloce al ministero. Sembra veramente un capo partito, magari quello vagheggiato come «terza gamba» del centrosinistra renziano con Emma Bonino, il sottosegretario agli esteri Benedetto Della Vedova, l’economista (senza laurea) Oscar Giannino e l’ex mister Spending review Carlo Cottarelli: una sorta di «Forza Europa» per copiare Macron.
LA NOTIZIA DEL DIETROFRONT governativo arriva in tempo reale in tutte le città in cui si stanno tenendo scioperi (tutti con adesioni al 100 per cento) e cortei contro la proposta AmInvestCo, i 4 mila esuberi e l’applicazione dei nuovi contratti da Jobs act (senza articolo 18 e senza anzianità aziendale): da Marghera a Genova, da Novi Ligure a (soprattutto) Taranto i lavoratori scesi in piazza festeggiano la loro vittoria.
TUTT’ALTRA REAZIONE INVECE da parte di Arcelor Mittal. In una nota ufficiale la proprietà del gruppo indiano-francese che detiene l’85 per cento di AmInvestCo – Marcegaglia è in uscita – si dice «contrariata per non aver potuto iniziare una negoziazione con i sindacati». Ma non demorde: «È importante che Ilva sia riposizionata sul mercato al fine di avere garantito un futuro che sia duraturo, stabile e sostenibile, ma questo significa essere competitivi nei confronti delle altre aziende del settore». Come dire: noi non possiamo fare regali. In realtà sembra che in Arcelor Mittal nulla si muova senza il volere del figlio minore del magnate indiano Lakshmi, il rampante direttore finanziario Aditya Mittal. E lui non vuole perdere nemmeno un euro per entrare nel mercato italiano, considerato residuale. La rabbia degli indiani è soprattutto per i tre commissari ministeriali Corrado Carrubba, Enrico Laghi e Piero Gnudi che hanno sottoscritto con loro la proposta contrattuale per il ramo d’azienda venerdì. E che ieri non sono stati nominati – nè rimossi – da Calenda.
IN REALTÀ LA RETROMARCIA non è totale e lascia inalterato il problema esuberi – 4mila – e dei licenziamenti negli appalti: stimati in 7mila. Calenda infatti ha riconosciuto che fossero «concordati» con la cordata. I sindacati comunque portano a casa e capitalizzano la vittoria appoggiando il comportamento di Calenda – «pur apprezzando parzialmente la posizione del governo a riguardo dei livelli retributivi e di inquadramento» – ma rilanciando la lotta per azzerare gli esuberi: «Rimangono del tutto inaccettabili e ingiustificati i 4.000 esuberi a cui si devono aggiungere tutti quelli che fanno parte delle attività dell’indotto», scrivono nella nota unitaria serale Fim, Fiom e Uilm.
«TUTTO IL PIANO INDUSTRIALE va rivisto perchè non è un piano che consente un ruolo strategico alla siderurgia in questo paese», sottolinea il segretario generale della Fiom Cgil Francesca Re David. La Fiom più che ad una riapertura del bando all’altra cordata di AcciaItalia guidata dagli indiani di Jindal – che garantivano più occupazione ma sempre tagliando i salari e che dovrebbero invece salvare Piombino – punta ad nuovo ingresso nel capitale di Cassa Depositi e Prestiti e dunque del pubblico.

Il Fatto 10.10.17
Il grande pasticcio dell’Ilva: il governo in balia di Mittal
Lo stallo - Il colosso indiano che si è preso l’acciaieria conferma 4mila esuberi e Jobs act per chi resta. Calenda fa saltare il tavolo
di Carlo Di Foggia

Nella sgangherata vendita dell’Ilva migliaia di persone sono in balia di un ricatto e delle liturgie dei tavoli di crisi ministeriali. Il governo ha sospeso ieri quello sul futuro dei 14 mila operai (20 mila con l’indotto) del gruppo siderurgico, in polemica con il nuovo acquirente a cui l’ha venduto solo pochi mesi fa. Gli attori in causa si sono visti al ministero dello Sviluppo per avviare una trattativa partita come peggio non poteva. Venerdì, Arcelor Mittal – il colosso che con l’italiana Marcegaglia si è aggiudicato il gruppo in amministrazione straordinaria – ha confermato i 4 mila esuberi e svelato che intende riassumere gli altri 10 mila operai con il contratto “a tutele crescenti” del Jobs act, cioè senza l’articolo 18. Così potrà usare da zero la cassa integrazione e gli operai perderanno l’anzianità lavorativa e l’integrativo (circa il 20-30% dello stipendio). Al tavolo, Cgil, Cisl e Uil si sono presentati forti dello sciopero che ha bloccato tutti gli stabilimenti, con cortei di protesta in città. A Taranto, dove ora ci sono 11 mila dipendenti, saranno reimpiegati in 7.600. A Genova, invece, dove ieri il corteo era aperto da un mezzo da 65 tonnellate alto 4 metri, ne resteranno 900 (da 1.500), mentre a Novi Ligure torneranno in servizio 700 persone (754 gli esuberi).
Il tavolo è durato pochi minuti. Il ministro Carlo Calenda, pronto ad accettare gran parte degli esuberi dirottandoli sulle bonifiche, ha intimato ad Arcelor Mittal di mantenere “gli impegni assunti sul mantenimento dei livelli di stipendi e d’inquadramento dei lavoratori presi a luglio”. Di fronte all’inerzia degli uomini del colosso dell’acciaio, ha sospeso il tavolo tuonando contro “la proposta irricevibile”. Passata mezzora, Mittal ha scodellato un comunicato in cui s’è detta “sconcertata”, ha minacciato la rottura e spiegato che si era impegnata solo a ridurre da 4.600 a 4 mila gli esuberi: “Non abbiamo fatto alcuna ulteriore promessa”.
Chi ha ragione? Non si sa. Migliaia di persone in ansia hanno potuto solo sapere dalle agenzie che fonti del ministero riferiscono che “il ministro aveva incontrato Aditya Mittal il 21 settembre chiarendo che non c’era alcuno spazio per mettere in discussione livelli retributivi e inquadramento”. E così si è scoperto che Arcelor Mittal, mentre assecondava il governo riducendo (di poco) gli esuberi minacciava di rientrare del costo tagliando i salari. Tutto all’oscuro dei sindacati, mai consultati in questa storia e che rifiutano qualsiasi ipotesi di esuberi.
È il primo effetto della scelta di vendere l’Ilva come fosse un supermercato e non un pezzo portante della siderurgia italiana, la seconda d’Europa. A giugno la gara indetta dai tre commissari governativi – due commercialisti e un avvocato – se l’è aggiudicata Arcelor Mittal con Marcegaglia offrendo più soldi della rivale Acciaitalia, partecipata dall’indiana Jindal e, tra gli altri, dalla pubblica Cassa Depositi e Prestiti, cioè il governo italiano che ha indetto la gara. In una relazione scritta, i tecnici dei commissari avevano spiegato che il piano di Arcelor Mittal non era credibile con l’obiettivo di produrre 10 milioni di tonnellate di acciaio, anche perché Ilva dovrebbe soprattutto laminare i lingotti prodotti dal concorrente stabilimento di Fos (Marsiglia) di Mittal. E infatti curiosamente nel suo piano gli esuberi aumenteranno nel tempo, arrivando a 5.800 nel 2023. A giugno il governatore della Puglia Michele Emiliano parlò di “scelta folle: un favore alle lobby del carbone e alle banche”, riferendosi al gruppo Marcegaglia, primo cliente e debitore dell’Ilva, pesantemente esposto con Intesa Sanpaolo, a sua volta creditrice di Ilva. Il gruppo siderurgico controllato al 50% da Emma Marcegaglia, presidente dell’Eni (creditore di Ilva) è gravato dai debiti. Sulla cassaforte di famiglia, la Finmar, pesano 3,3 miliardi di debiti, di cui 1,3 con le banche e di questi 1,1 miliardi (l’84%) sono a breve termine. “Il problema non è solo garantire salari e diritti dei lavoratori dell’Ilva ma l’occupazione dell’indotto – spiega Maurizio Landini, ex segretario Fiom oggi in Cgil –. Bisogna discutere gli investimenti e il piano industriale, perché pensare che esistano esuberi vuol dire ridurre la capacità produttiva dell’Ilva. Il governo deve farsi garante con la Cassa Depositi. Con 10 milioni di tonnellate annue non servono esuberi. O Mittal se ne approfitta o ha bluffato”.

Corriere 10.10.17
Onida: «Finalmente il Parlamento si è mosso Testo costituzionale, però contraddittorio»
di Dino Martirano

ROMA «Non possiamo certo andare a votare con due “residuati bellici” frutto delle sentenze di parziale annullamento della Consulta. Ed è un bene, dunque, che il Parlamento, seppure con un forte ritardo, si sia preso la responsabilità di dare una legge elettorale al Paese». Il professor Valerio Onida, già presidente della Corte costituzionale, è convinto che «la convergenza trasversale» registrata alla Camera intorno al testo del Rosatellum 2.0 in qualche modo riscatti il ruolo del Parlamento dopo l’ impasse durata fin troppo: «È sicuramente un passo in avanti perché la legge, col suo schema misto fatto di un terzo di maggioritario in collegi uninominali e di due terzi di proporzionale, prefigura un sistema omogeneo per la Camera e per il Senato. Però c’è una contraddizione: l’elezione nel collegio uninominale non è più veramente tale se il voto è unico per l’uninominale e la lista. Occorrono due schede o almeno il voto disgiunto».
Però Alessandro Di Battista (M5S) parla di «colpo di Stato» per penalizzare il Movimento di Grillo. Esagera a ritenere che il testo costituisca una forzatura della Costituzione?
«Più che di profili di diretta incostituzionalità, parlerei di una contraddittorietà interna a proposito di un sistema formalmente misto che però non consente di distinguere tra voto nel collegio uninominale e voto di lista nel collegio plurinominale».
Il M5S teme di perdere in tutti i collegi.
«Non è detto che le cose vadano così. È vero che nell’uninominale conta il candidato ma alla fine c’è anche il simbolo del partito che fa la sua parte, e forse per molti persino prevale. I grillini non dovrebbero temere il voto nei collegi uninominali perché semmai esso va a favore dei partiti (o delle coalizioni) più grandi, che possono sperare di eleggere il loro candidato, e a sfavore dei partiti minori (non coalizzati). E poi c’è la quota proporzionale. Funzionava così anche con il Mattarellum».
Un solo voto, una sola scheda. La «x» tracciata sul nome del candidato trasmette automaticamente il voto alla lista collegata o all’intera coalizione. Potrebbe essere questo il tallone d’Achille della legge?
«Questo è il difetto del testo, e costituisce una contraddizione interna. Costringere l’elettore a trasferire il suo voto sulla lista (o sulle liste) collegata è una forzatura che travisa il carattere uninominale, seppure per un terzo, della legge. Vuol dire favorire l’alterazione, se non la falsificazione, della volontà dell’elettore».
Quale è la via più agevole per consentire all’elettore di distinguere tra candidati uninominali e partiti?
«È illogico che non si consentano due voti distinti, uno per il collegio uninominale, al singolo candidato, e uno alla lista per il collegio plurinominale. Con il sistema previsto il voto nel collegio uninominale è in realtà un voto di lista».
Era più limpido il Mattarellum, con le due schede?
«L’introduzione di due schede diverse, per l’uninominale e per il proporzionale, oppure il voto disgiunto, come per l’elezione dei sindaci, renderebbe la legge elettorale in esame più conforme alla logica di un sistema misto».
Per evitare modifiche «pesanti» con i voti segreti, il governo potrebbe mettere la fiducia sugli articoli. La Lega, dall’opposizione, sostiene che «bisogna fare presto anche con la fiducia...».
«Il voto di fiducia chiesto dal governo nasce per rafforzare l’esecutivo. Quindi immaginare un voto di fiducia sulla legge elettorale sostenuta anche dalla Lega e da Forza Italia, che sono all’opposizione, sarebbe decisamente una forzatura. Non esiste la fiducia “tecnica”: il voto di fiducia è massimamente politico».
In alternativa alla fiducia, ci sarebbe il «canguro» che spazzerebbe via emendamenti e voti segreti.
«Quello del “canguro” è un trucco che toglie la voce al Parlamento. Se la “maggioranza” è contraria alla doppia scheda, si abbia il coraggio di mettere in votazione gli emendamenti che la prevedono».

il manifesto 10.10.17
Legge elettorale. Alla camera comincia la battaglia sugli emendamenti alla riforma del sistema di voto. Contro il rischio di voti segreti, Pd e Forza Italia studiano le forzature, sull'esempio dell'Italicum. Mattarella lascia fare

La riforma della legge elettorale comincia oggi pomeriggio alla camera un percorso che i suoi sostenitori, una neo maggioranza che mette assieme Pd, Forza Italia, Lega e centristi, vuole abbreviare al massimo. Gli emendamenti non sono molti, circa duecento, ma alcuni – come quelli in favore delle preferenze, del voto disgiunto e per un’effettiva parità di genere – sono assai insidiosi, visto che il regolamento di Montecitorio ammette il voto segreto. Una modifica al testo sul quale si è cementata l’intesa in commissione vorrebbe dire il crollo del Rosatellum-bis, destino già capitato a giungo al precedente tentativo (il cosiddetto Toscanellum). E così in discussione non ci sono tanto le modifiche a questo sistema che prevede una minoranza di collegi uninominali (232) necessari a indirizzare le scelte sul resto di collegi proporzionali, con liste bloccate e divieto di voto disgiunto. In discussione c’è il Rosatellum o il ritorno al sistema adesso in vigore, diverso per camera e senato e frutto di due sentenze della Corte costituzionale. Perché possa andare in porto questa riforma che penalizza i 5 Stelle e la sinistra non alleata del Pd, e regala a Renzi e Berlusconi due finte coalizioni, i democratici e i loro alleati dovranno forzare ancora le regole.
IL MODELLO È L’ITALICUM, caduto poi sotto i colpi della Corte costituzionale, anche se non per il fatto di essere stato approvato con la fiducia (perché nessun tribunale ha accolto questo ricorso, cosa che potrebbe però accadere prima delle prossime elezioni). Dunque fiducia o emendamenti canguro. Che sono in pratica un riassunto per punti della legge – così fu l’emendamento Esposito al senato per l’Italicum – da approvare in premessa, in modo da far cadere tutte le successive proposte di modifica. Un trucco che viola due principi: gli emendamenti dovrebbero avere un contenuto prescrittivo e andrebbero votati a partire da quelli che più modificano il testo base.
Questo genere di manovre per aggirare gli emendamenti dell’opposizione, tanto più quando questi emendamenti sono in numero assolutamente ragionevole, strappano regole e prassi parlamentare. La fiducia sulle leggi elettorali fino al 2015 aveva solo due precedenti, il primo risalente al fascismo e il secondo – la legge «truffa» del ’53 – necessario alla Dc per battere un’ostruzionismo di cui adesso non c’è traccia. Ma oltre due anni di battaglia sulle riforme renziane – legge elettorale e revisione della Costituzione – hanno parecchio spostato i confini del lecito. La fiducia c’è già stata, su tre articoli dell’Italicum e proprio alla camera, perché ritenuta ammissibile dalla presidente Boldrini malgrado quanto stabilito dall’articolo 72 della Costituzione: «La procedura normale di esame e di approvazione diretta da parte della camera è sempre adottata per i disegni di legge in materia costituzionale ed elettorale». Da notare che successivamente fu proprio Renzi a dire che non gli era stato possibile mettere la fiducia sulla riforma costituzionale a causa di questo articolo della Carta, che però equipara leggi costituzionali e leggi elettorali.
Per l’Italicum si era all’ultimo passaggio dopo oltre due anni di esame parlamentare, non al primo come in questo caso per il Rosatellum. Allora, come sarebbe oggi, la fiducia fu chiesta per evitare modifiche al testo nei voti segreti, non perché si temesse per il via libera finale. Che infatti ci fu proprio con voto segreto.
CHIAMATO IN CAUSA da una serie di lettere dell’opposizione – anche Lega e Forza Italia che adesso non si scandalizzano – il presidente Mattarella spiegò che era faccenda da regolamenti parlamentari, dando così il via libera alla fiducia. Ma l’interpretazione del regolamento della camera, dove un articolo nega la possibilità di mettere la fiducia quando è prescritto il voto segreto, che nel caso delle leggi elettorali è sempre possibile – è a tal punto controversa che la stessa presidente Boldrini riconobbe la «logica» degli argomenti dell’opposizione. E affidò la questione a una revisione del regolamento, che non c’è stata.
La fiducia potrebbe essere più utile al senato, dove i numeri per la neo maggioranza sono molto più stretti, che alla camera, dove però ci sono i voti segreti. Oltre che più giustificabile, anche per partiti di opposizione a Gentiloni, visto che a palazzo Madama andrebbe in scena l’ultimo atto della legislatura. Due anni fa, oltre al nucleo bersaniano, anche un pezzo del Pd non passato a Mdp si rifiutò di votare la fiducia sulla legge elettorale (Bindi, Cuperlo). Ma oggi, forti di circa duecento voti di vantaggio ottenuti anche con i piccoli gruppi (verdiniani, fittiani, ex montiani), Pd e Forza Italia devono temere non tanto l’opposizione organizzata quanto i franchi tiratori guidati dal calcolo personale. I deputati Pd del nord e berlusconiani del centrosud hanno tutto da perdere dal Rosatellum. Da tenere d’occhio le iniziative individuali. Tra i primi emendamenti a rischio quello della forzista Biancofiore contro le regole speciali per il Trentino Alto Adige. A giugno fu lei, con i 5 Stelle, ad aprire la porta all’imboscata.

il manifesto 10.10.17
Le illusioni del Rosatellum
di Antonio Floridia

Non sappiamo se il testo di riforma elettorale approvato in commissione riuscirà a superare il passaggio in aula. Ma è opportuno soffermarsi su un aspetto apparentemente «tecnico», in realtà cruciale dal punto di vista politico. Molti si stanno chiedendo come mai il Pd abbia dato il via libera ad un sistema elettorale che, con tutta evidenza, favorisce il centrodestra: anzi, aiuta il centrodestra a superare felicemente le contraddizioni politiche in cui si dibatteva. Riepiloghiamo la questione: con l’Italicum, ma anche con il Consultellum, a concorrere sono solo le liste e per le tre componenti del centrodestra si poneva un notevole dilemma: correre ciascuno per sé, o annegarsi dentro un listone? Per Salvini, evidentemente, quest’ultima prospettiva era poco appetibile; ma, in generale, i listoni sono poco competitivi: due più due non fa mai quattro. Con il testo attuale, questo problema è risolto: ognuno corre per sé, col proprio simbolo, e i voti si sommano solo indirettamente, confluendo sui candidati uninominali, opportunamente contrattati. Le coalizioni previste dal Rosatellum sono coalizioni dai legami molto deboli: mettendosi dal punto di vista dell’elettore, la scelta continua ad essere guidata essenzialmente dal simbolo che compare sulla scheda, non dal nome (senza simbolo) del candidato uninominale.
Ebbene, perché mai il Pd accoglie questa soluzione? È un caso di auto-lesionismo? La risposta politica che emerge è chiara: perché spera di metter su, alla bell’e meglio, un simulacro di coalizione (con una lista di moderati alla sua destra, e una lista di «volenterosi» alla sua sinistra) e incentivare il voto utile, prosciugando il bacino elettorale della potenziale nuova lista di sinistra. Il ragionamento sembra plausibile: come potrebbe l’elettore di sinistra – messo di fronte alla scelta tra un candidato del centrodestra, o un candidato del M5s, e un candidato del Pd – votare per un’altra lista, facendo vincere i primi? Sembra plausibile, questo schema, ma non lo è: siamo di fronte ad un tipico caso in cui l’improvvisazione dei bricoleur elettorali conduce ad effetti perversi ed imprevisti. Un esempio della sindrome da apprendisti stregoni che, sovente, colpisce gli improvvidi riformatori elettorali.
Il voto utile, o «voto strategico», è un modello di scelta elettorale molto studiato e molto importante; ma presuppone un elemento che manca del tutto nel nostro caso: ossia, i processi di apprendimento dell’elettore, l’abitudine ad usare un sistema elettorale. Gli elettori britannici lo sanno bene: votano da oltre un secolo con lo stesso metodo, sanno benissimo se – in un dato collegio – il partito conservatore o quella laburista è in vantaggio, e possono valutare di volta in volta come spostare il proprio voto per favorire o impedire un certo risultato. E così pure lo sanno gli elettori tedeschi, con la possibilità del doppio voto (si confrontino i dati delle recenti elezioni tedesche, collegio per collegio: le percentuali dei partiti nel primo voto – maggioritario – sono notevolmente diverse da quelle del secondo voto, proporzionale, che peraltro è quello decisivo).
In Italia, oggi, a pochi mesi dal voto, manca totalmente questo presupposto, cioè l’abitudine degli elettori ad usare un sistema elettorale. I nostri riformatori stanno facendo i conti senza l’oste: cioè, l’elettore. Stanno presupponendo un elettore immaginario, un elettore perfettamente razionale, capace di fare calcoli sofisticati. Ma, come detto, la stessa struttura della scheda incentiva una logica di scelta di tutt’altro tipo: guidata essenzialmente dal simbolo del partito. Il voto utile, in queste condizioni, riguarderà un’infima minoranza di elettori super-informati.
Ha fatto molto bene perciò l’esponente di Mdp, Speranza, ad annunciare che la nuova lista di sinistra si presenterà comunque in tutti i collegi: non solo perché è giusto e inevitabile in sé, ma anche perché in questa fase di trattative, questa dichiarazione può essere un’efficace arma di dissuasione: un invito a riflettere sulle conseguenze impreviste di una riforma dettata da improvvisazione, ma anche da un eccesso di politicismo. Quando si pensa di essere troppo furbi, alla fine ci si impiglia nelle proprie stesse manovre; o, per dirla in altro modo, le volpi finiscono in pellicceria.

il manifesto 10.10.17
Rosatellum (o la politica maccheronica)
In una parola. La rubrica settimanale a cura di Alberto Leiss
di Alberto Leiss

La cosiddetta Seconda Repubblica si aprì all’insegna del Mattarellum – dal cognome del suo principale artefice, oggi capo dello stato – la legge elettorale maggioritaria che avrebbe dovuto aprire una fase di sorti se non magnifiche almeno più progressive delle precedenti, segnate dal sistema proporzionale da molti in quel momento aborrito.
Le sorti progressive, in un ventennio abbondante, si sono viste poco, per la verità, e questa storia sembra essere stata archiviata con la poco decorosa fine del Porcellum, che prende il nome non dal suo autore, ma dalla sua natura e vocazione, riassunta nella versione da ogni punto di vista volgare di Porcata, consigliata proprio da chi la inventò, il senatore leghista Calderoli.
Quella legge infatti, a pochi mesi dal voto del 2006, era stata fatta da una maggioranza di centrodestra per mettere i bastoni tra le ruote del centrosinistra di Prodi, che infatti in circa due anni deragliò.
Renzi e i suoi si inventarono l’Italicum – senza smentire il vezzo maccheronico, ma con più ambizione nazional-riformista – che fu travolto dai No al referendum costituzionale e dalla successiva sentenza negativa della Consulta.
Adesso, di nuovo in extremis in vista delle prossime elezioni politiche, spunta il Rosatellum: il cognome maccheronizzato del capogruppo alla camera del Pd sembrerebbe conferire un colore più gentile alla faccenda, ma buona parte dell’attuale Parlamento – dai grillini al movimento di Bersani e D’Alema – grida che è una specie di golpe ai loro danni.
Il linguaggio è sempre rivelatore di qualcosa che ha a che fare con il reale, e qui fa pensare a una deriva farsesca della politica italiana. Potrebbe persino non essere un male: i poemi maccheronici del nostro Teofilo Folengo ispirarono un gigante come Rebelais. Però dubito molto che il latinorum istituzionale attuale possa stimolare seguaci all’estero.
Dalla Spagna risuona il giusto grido: «Parliamoci!». Ma per capirsi davvero bisogna scegliere con cura le parole. Mi hanno colpito questi due virgolettati:
«Serve una grande forza popolare, inclusiva, con ambizioni di governo e radicale nel messaggio di cambiamento. Aperta al civismo, all’ambiemtalismo, e al cattolicesimo democratico».
Non bisogna «mutare l’orizzonte di un impegno politico basato sul civismo,l’ambientalismo, il volontariato, l’interazione col cattolicesimo democratico».
Non è la stessa persona a parlare, ma i due capi di movimenti che, stando ai nomi, si rifanno alla stessa idea: «Movimento dei progressisti» (Roberto Speranza) e «Campo progressista» (Giuliano Pisapia). Peccato che si siano appena mandati ognuno al suo paese.
Naturalmente non voglio scherzare più di tanto su motivi di divisione che sono legati anche ad analisi politiche non infondate e giudizi sulle vicende succitate della nostra storia recente che evidentemente sono assai divaricati, nonostante il fatto che le prospettive politiche e sociali di fondo siano declinate con parole tanto sorprendentemente simili.
Forse, comunque vada in materia di liste, alleanze e denominazioni maccheroniche, sarebbe il caso di concentrarsi sul senso radicale di alcune espressioni, facili da pronunciare, ma difficili da intendere. Che significa, per fare un solo ma essenziale esempio, proporsi un accordo forte tra culture della sinistra laica e del cattolicesimo democratico? Non è anche – e forse soprattutto – su questo terreno che il Pd ha fallito?
È giustissimo che questo giornale ripubblichi i discorsi di Francesco ai movimenti popolari. Tuttavia sospetto che… non sufficit.

Il Fatto 10.10.17
Renzi fa il canguro: la legge elettorale non si discute
Il Rosatellum bis oggi in aula con l’incognita di 50 voti segreti e 100 franchi tiratori. L’ordine del segretario Pd: farla passare a tutti i costi Anche ingabbiando la Camera
Renzi fa il canguro: la legge elettorale non si discute
di Wanda Marra

Il Pd sta lavorando a qualsiasi forzatura regolamentare e istituzionale possibile per arrivare all’approvazione del Rosatellum 2.0, evitando le incognite dei voti segreti. È già pronto un “canguro”, ovvero un emendamento che dovrebbe precludere i voti segreti. Solo oggi, inoltre, il governo deciderà se mettere o meno la fiducia. L’ipotesi non solo non è esclusa, ma cresce col passare delle ore.
Oggi arriva in aula l’ultima legge elettorale partorita in questa legislatura. Prevede un terzo dei parlamentari eletto con un sistema di collegi uninominali, tutti gli altri con un sistema proporzionale in listini bloccati, una soglia di sbarramento fissata al 3 per cento per entrambe le Camere, un’unica scheda elettorale e un unico voto, coalizioni nazionali, 6 multicandidature possibili. Ettore Rosato, capogruppo dem a Montecitorio, incaricato da Matteo Renzi di seguire l’iter del testo e di condurlo all’approvazione, sta lavorando con l’ufficio legislativo della Camera e con il suo gruppo parlamentare per “sminare” il più possibile tutti gli ostacoli. Gli emendamenti presentati al testo per l’aula sono 200. Ma non è il numero a preoccupare la coalizione che sostiene questa legge (Pd, Forza Italia, Lega e centristi), bensì i circa 50 voti segreti che potrebbero essere chiesti da chi vi si oppone. Sicuramente lo farà Mdp, come ha annunciato Alfredo D’Attorre. Ed è proprio nei voti segreti che potrebbero intervenire i franchi tiratori: secondo i primi calcoli rischiano di essercene un centinaio tra Pd e Forza Italia, nascosti tra i deputati certi di non tornare in Parlamento.
Gli emendamenti più pericolosi presentati dalle opposizioni riguardano l’introduzione delle preferenze e del voto disgiunto, ma c’è qualche insidia anche in quelli che abbassano le soglie. Il Pd sta lavorando per prevenire questi pericoli: ieri sono stati presentati da singoli deputati dem alcuni emendamenti “preclusivi” che, se approvati, farebbero decadere quelli che riguardano la stessa materia. I cosiddetti “cangurini”, eredi del “canguro”, l’emendamento presentato a suo tempo dal senatore Roberto Cociancich quando Palazzo Madama votava la riforma costituzionale. All’epoca fu un successo: fece decadere tutti gli altri emendamenti all’articolo 1, consentendo la rapida approvazione del cuore della riforma. Ma al Nazareno dell’efficacia di questi cangurini non si fidano. Anche perché non scongiurerebbero tutti i voti segreti.
Per questo gli uffici stanno studiando un fascicolo: stamattina potrebbe arrivare un canguro “complessivo” a firma del relatore, Emanuele Fiano. Un emendamento premissivo, inserito al primo articolo, che indica i principi della legge stessa e che quindi – una volta approvato – farebbe decadere tutti i voti segreti considerati pericolosi.
A quel punto toccherebbe a Laura Boldrini, presidente della Camera, interpretare il regolamento e ammettere gli emendamenti dubbi. Ci sono comunque dei precedenti: il canguro è stato già usato a Montecitorio (nel 1991 per la prima volta) e in questa legislatura due volte al Senato, tra cui il 21 gennaio.
Il Pd in ogni caso lavora soprattutto all’ipotesi fiducia. Stamattina è convocato un consiglio dei ministri che potrebbe autorizzarla: l’ipotesi non è quella di porre la fiducia sull’intero testo, ma una serie di “fiducie” mirate su alcuni punti del provvedimento. Anche in questo caso esiste un precedente, proprio nel caso dell’Italicum.
Quel che è certo è che la situazione è convulsa. Le trattative e le riunioni sono andate avanti per tutta la giornata di ieri. I capigruppo di Pd e Fi, Rosato e Brunetta, hanno catechizzato i propri deputati sui rischi di un nuovo flop, dopo quello di giugno sul “Consultellum”. Sul tavolo entrano anche i futuri equilibri politici. Gli ultimi dubbi sulla convenienza della legge, Renzi li ha sciolti dopo la rottura tra Mdp e Giuliano Pisapia: spaccare la sinistra era uno dei suoi primi obiettivi e ora, coinvolgendo l’ex sindaco, il Pd è convinto di poter contare su una coalizione.
Per tutti i partiti le trattative su collegi e posti in lista vanno avanti da settimane. Per questo, non ci dovrebbe essere un dissenso organizzato sul Rosatellum come ci fu sull’ultima legge elettorale fallita. In linea teorica, i quattro partiti che sostengono il testo (a cui si aggiungono vari cespugli parlamentari) non avrebbero problemi di numeri: sulla carta i sì dovrebbero essere 444 su 630.

Repubblica 10.10.17
Con la rottura tra l’ex-sindaco e Mdp il recinto è chiuso a sinistra
Renzi con Pisapia si consolida per il Rosatellum
Ora il rischio è costituito dai franchi tiratori nella maggioranza
Ma l’appoggio di Alfano e Verdini difficilmente può definirsi coalizione
di Stefano Folli

LA coincidenza è significativa, forse troppo per essere un caso: la legge elettorale arriva in aula alla Camera quando sul piano politico si è chiuso il recinto a sinistra. Pisapia e il gruppo Bersani-Speranza hanno rotto i ponti fra loro e l’ex sindaco di Milano è entrato nell’orbita renziana (anche se lui e i suoi negano quest’ultima circostanza).
SEGUE A PAGINA 9
D’ora in poi il Campo progressista avrà il compito di rappresentare una certa sinistra all’interno del Pd: una sinistra “dei sindaci”, in teoria più moderna e dinamica di quella di Orlando, con il suo sapore di vecchio apparato un po’ fuori moda.
Il fronte si è saldato nelle ultime ore e quindi adesso si comincia a metter mano al cosiddetto “Rosatellum” (“bis”, per la precisione). Segno che Renzi ritiene di aver disinnescato il rischio di franchi tiratori a sinistra. E si capisce: Mdp è il nemico per antonomasia schierato contro la legge, mentre i seguaci di Pisapia hanno interesse a questo punto a vederla passare. Sarà con questo schema, infatti, che potranno entrare in Parlamento e svolgere il loro ruolo.
Che la saldatura tenga, è tutto da vedere. Dipenderà dall’iter della legge e da quante imboscate la maggioranza riuscirà a schivare. Non a caso si sta tentando in ogni modo di ridurre e circoscrivere il numero degli emendamenti per i quali è richiesto il voto segreto. Normale cronaca parlamentare: Bismarck usava dire che il popolo non deve sapere “come sono confezionate le leggi e le salsicce”.
Certo, il sottofondo politico dell’operazione “Rosatellum” non è dato solo dal caso Pisapia. Sul versante centrista è dato per acquisito l’apporto di Alfano e dei suoi: si vedrà in quali forme dopo l’eventuale approvazione della riforma. In ogni caso c’è da attendersi che un piccolo spazio sia offerto ad Ap, fresca di alleanza con il Pd in Sicilia. Nel frattempo, quasi senza farsi notare, Denis Verdini ha fatto sapere che il gruppo di Ala sosterrà lo “ius soli”, ossia una legge “che piace poco all’opinione pubblica ma rappresenta un fatto di civiltà”. Verdini, da abile giocoliere della politica, ha colto il momento favorevole, da Pisapia ad Alfano, e si è inserito. Lui non tornerà in Parlamento, con ogni probabilità, ma un drappello dei suoi potrebbe riuscirci grazie all’aiuto non di poco conto che stanno offrendo al partito di Renzi.
S’intende che poi le elezioni si vincono con le idee e qualche buona proposta, una merce di cui non c’è abbondanza in giro. Eppure dal punto di vista tattico il centrosinistra si prepara alla battaglia parlamentare sulla legge elettorale avendo rafforzato al meglio i confini della sua area. Quanto al resto, si coglie una certa tendenza alla propaganda. Ad esempio, il termine “coalizione”. È difficile credere che sia davvero una coalizione quella che si formerebbe fra un partito grosso e ingombrante come il Pd e una piccola formazione sotto il 3 per cento quale è l’Alternativa guidata da Alfano. Ovvero, a maggior ragione, il Campo progressista di Pisapia che i sondaggi non riescono ancora a rilevare con sicurezza.
In entrambi i casi si tratta di manovre che hanno i loro pro e contro. Arturo Parisi, ad esempio, nega che il Pd di oggi sia paragonabile all’Ulivo prodiano di ieri. Così come - da un uomo che si è sempre battuto per il maggioritario - non è positivo il giudizio sulla legge elettorale (“dal ‘93 non abbiamo mai smesso di arretrare”), anche perché si tenta di approvarla alla vigilia delle elezioni, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato tale pratica. Il disincanto di Parisi coincide con quello di Romano Prodi, il che induce a osservare con attenzione quello che accadrà in Parlamento, specie se la maggioranza non riuscirà a disinnescare i voti segreti.
Il premier Gentiloni, appena insediato, aveva annunciato che mai più si sarebbero fatte leggi elettorali ricorrendo alla fiducia. Non era difficile cogliere la mano di Mattarella dietro quelle frasi. Almeno questa forzatura sarà evitata al paese. Del resto, sarebbe singolare cercare la fiducia nel mondo trasversale che sostiene il testo Rosato, da Forza Italia alla Lega. In definitiva, la legge è un filo sottile con una base politica forse meno effimera dell’altra volta.

Il Fatto 10.10.17
Besostri: “Anche questo sistema è incostituzionale”

La camera fa finta di nulla e inizia la discussione in aula ignorando le possibili pregiudiziali, ma anche il Rosatellum potrebbe essere a rischio incostituzionalità. A sostenerlo è Felice Besostri, coordinatore degli Avvocati Antitalikum, che dopo la campagna contro l’Italicum si mostra molto critico anche nei confronti della nuova legge elettorale: “Oggi verrà discusso alla Camerail testo della Legge elettorale Rosatellum 2.0,con tempi ed emendamenti contingentati esenza che la Presidenza della Camera abbia ammesso nuove questioni di pregiudizialità costituzionale”. Secondo il legale sono diversi i dubbi di incostituzionalità: “Il primo e più importante riguarda l’impossibilità di votare per un candidato uninominale se non con l’obbligo di votare insieme anche la lista a esso collegata e bloccata”. “Le altre pregiudiziali di costituzionalità riguardano le pluricandidature in liste proporzionali corte. Infine con l’obbligo di presentare candidature uninominali ovunque non si consente a partiti o movimenti politici organizzati la scelta di come e dove presentarsi”.

il manifesto 10.10.17
Sicilia, la drammatica notte delle liste elettorali nella sede del Pd
Regionali. Alcuni presenti raccontano una trattativa ad altissima tensione: dirigenti che arrivano quasi alle mani, telefoni roventi, firme «rubate». E Crocetta resta fuori
di Alfredo Marsala

Via Bentivegna, Palermo. Quartier generale del Pd. Sono le 4 di notte del 6 ottobre. Mancano 12 ore alla scadenza per la presentazione delle liste per le regionali del 5 novembre. Nell’ufficio ci sono una trentina di persone. Da 48 ore si susseguono riunioni e mini-vertici. La tensione è altissima, alcuni dirigenti del centrosinistra sono arrivati quasi alle mani. Rosario Crocetta è con lo stato maggiore del Megafono, il suo movimento. Il governatore s’è convinto a rinunciare alle sue liste per trasferire i suoi candidati in quelle Micari-Arcipelago: gliel’ha chiesto Renzi dopo avere preso atto che Leoluca Orlando non era stato in grado di riempire le liste con i “civici” come aveva garantito. Se Crocetta non avesse accettato, sarebbe stata la catastrofe. Ma il governatore accetta.
Dalla strada si vedono le luci accese. E si sentono le urla. Si discute dei nomi da inserire nelle liste provinciali Micari-Arcipelago e di conseguenza degli equilibri da mantenere in quelle del Pd. Con i crocettiani, tra cui Mariella Lo Bello, nella sede ci sono i big del Pd: Fausto Raciti, segretario siciliano, il sottosegretario Davide Faraone, braccio destro di Renzi nell’isola, Antonio Rubino, responsabile organizzazione del partito. C’è anche il candidato presidente Fabrizio Micari, col suo braccio destro, l’avvocato Giovanni Di Salvo.
I volti sono cupi, i nervi a fior di pelle. Ci sono tre province da sistemare: Enna, Messina, Siracusa. Sui tavoli ci sono i fogli con le candidature: nomi depennati e poi riscritti, spostati dalle liste Micari a quelle del Pd, poi rimessi a posto, e ancora spostati. Si cerca la quadra tra le correnti dem. Un gioco a incastro complicato, ognuno cerca di ottenere il massimo. Il tempo scorre. Gli animi si surriscaldano. Fuori c’è ancora buio. L’ora della notte dei lunghi coltelli scocca alle 4. A riferire al manifesto quello che accade sono più fonti che hanno assistito alla scena. Carmelo Miceli, segretario Pd a Palermo, dopo avere parlato al telefono con Faraone che intanto aveva lasciato la sede, prende dal tavolo il faldone con le firme, quasi 1.800, raccolte per supportare il listino regionale del presidente, quello di Micari. Infila la porta e se ne va. Senza quelle firme sul listino, addio elezioni per il centrosinistra. I presenti sono increduli. C’è rabbia e indignazione. «Chiamate Renzi subito», è la reazione. Viene avvertito Lorenzo Guerini, coordinatore del Pd. Il sole non è ancora sorto, sono quasi le 5. Renzi viene messo al corrente. I telefonini sono bollenti. Intorno alle 9, il faldone con le firme torna sul tavolo.
La trattativa riprende in una atmosfera surreale. I nodi sempre quelli: Enna, Messina e Siracusa. I nomi dei candidati continuano a ballare da una lista all’altra; il primo ostacolo, Enna, viene superato a fatica. Arrivano i primi giornalisti. Nessuno è in grado di dire con certezza se l’accordo si farà; quelli del Megafono tengono le proprie liste in standby, pronti a depositarle nel caso l’intesa saltasse all’ultimo minuto. I dirigenti passano da una stanza all’altra con i foglietti in mano. Bruno Marziano passando nel corridoio fa il segno della vittoria; lui, Giovanni Cafeo e Paolo Amenta sono nella lista del Pd. Non c’è invece Giovanni Cutrufo, presidente, espressione del sindaco di Siracusa Giancarlo Garozzo, renziano vicino a Faraone. Cutrufo è destinato alla lista Micari di Siracusa, dove c’è anche Pippo Basso, sindaco di Carlentini, due candidati forti che si sarebbero pestati i piedi a vicenda: così Cutrufo, in raccordo con la sua area, decide di candidarsi nella lista di Ap. E Basso a quel punto si tira indietro, troppo debole la lista, da cui scappano anche gli altri candidati minori. Risultato, a Siracusa Micari rimane senza lista.
Resta il nodo Messina. La discussione è serrata: la presenza di Crocetta come capolista di Micari-Arcipelago sbilancia gli equilibri tra le correnti dem. L’intesa viene raggiunta poco dopo le 14. I messi vengono inviati di gran corsa nei tribunali per depositare le liste: mancano 2 ore alla chiusura degli uffici elettorali. Mentre le delegazioni sono in viaggio, nel bunker del Pd va di scena un altro drammatico scontro. Questa volta a perdere le staffe è Fabrizio Micari. Che va su tutte le furie quando scopre che Crocetta intende fare il capolista anche a Catania. Micari alza i toni, minaccia di abbandonare la competizione elettorale; gli sherpa fanno di tutto per scongiurare la catastrofe, alla fine Crocetta abbandona l’idea Catania.
Poco prima delle 16, il messo di Micari-Arcipelago arriva nel tribunale di Messina; mentre è in coda, un suo collaboratore va a recuperare alcune carte in macchina ma si porta dietro lo zainetto con parte della documentazione della lista Micari. Quando ritorna, la porta dell’ufficio elettorale è chiusa. Bussa, ma le 16 sono ormai passate. Chiama il messo al telefonino, la porta si apre. Ma è troppo tardi. L’ufficio elettorale non ammette la lista Micari: Crocetta rimane fuori dall’unico collegio dove si è candidato, dopo avere rinunciato a correre per la presidenza della Regione lasciando spazio a Micari e dopo aver accettato di sacrificare anche il Megafono per salvare la coalizione dal disastro in cui l’ha cacciata Leoluca Orlando.

Il Fatto 10.10.17
Mps, la morte di David Rossi: mistero delle prove distrutte
di Davide Vecchi

Il 6 marzo 2013, dopo aver avvisato la moglie che stava rientrando a casa, David Rossi, capo della comunicazione di Mps e da dieci anni braccio destro di Giuseppe Mussari, viene trovato morto nel vicolo sotto il suo ufficio. Per i magistrati di Siena titolari del fascicolo, Nicola Marini e l’aggiunto Aldo Natalini, è sin da subito un suicidio. Due anni dopo una nuova inchiesta avviata dal pm Andrea Boni ha portato alla luce le falle, le carenze della prima indagine con atti criticati anche dai periti nominati dalla Procura. Il libro “Il caso David Rossi, il suicidio imperfetto” (in libreria da giovedì 12 ottobre per Chiarelettere) ricostruisce l’intera vicenda proprio attraverso le carte delle inchieste per scoprire che il suicidio ipotizzato dai magistrati non è l’unico scenario possibile. Pubblichiamo un breve stralcio del testo relativo a uno dei numerosi errori commessi nel corso della prima fase delle indagini.
Nel giugno 2013, ad appena tre mesi dalla morte di Rossi, gli inquirenti sono certi di avere tutti i riscontri necessari per affermare senza ombra di dubbio che si tratti di un suicidio. Per carità, l’avevano capito già la notte del 6 marzo del resto, già guardando il cadavere riverso al suolo. Tanto che ritenevano superflua anche l’autopsia.
Con tutto quello che succede nelle mura di Mps e le conseguenze pesanti che si ripercuotono all’esterno – le inchieste che coinvolgono gli ex vertici, i miliardi di euro dilapidati, centinaia di lavoratori licenziati, squadra di calcio e di basket fallite, università, comune e decine di enti lasciati senza finanziamenti –; insomma, con tutto quello che ha preso avvio da Mps senza che si riescano a individuare i responsabili né prove sufficienti a incastrarli per il tracollo finanziario della banca più antica del mondo; con la cappa di riservatezza e segreti nascosti all’interno di Rocca Salimbeni: come non pensare che il manager legato al potentissimo Mussari e con ogni probabilità custode di molti segreti sia stato eliminato o spinto a uccidersi? Che domande. Questa è una tesi da romanzo giallo. A Siena, nella realtà, un uomo ricco, potente, noto e ritenuto custode di informazioni riservate, si uccide lanciandosi dalla finestra dell’ufficio pochi minuti dopo aver detto alla moglie che stava rientrando a casa. Ovvio. Forse.
Sicuramente ovvio lo è per i magistrati. (…) Appena inizia la sospensione feriale depositano la richiesta di archiviazione. Per «feriale» s’intende il periodo di pausa che per legge considera i tribunali sostanzialmente «chiusi»: dal primo agosto al 15 settembre. Si tratta di una sospensione pensata con una ratio garantista nei confronti delle parti, in applicazione del più generale diritto di difesa. Ad agosto, si sa, ci sono le vacanze. Anche i senesi, come tutti, si allontanano dalla città, dalle loro abitazioni e dalla quotidianità. Proprio a tutela dei cittadini quindi, visto che i termini per presentare ricorso sono strettissimi – appena dieci giorni –, durante il mese di agosto questi vengono temporaneamente sospesi e decorrono tutti a partire dal 15 settembre successivo. Lo dice la legge. E così è nel 2013. I magistrati, sicuri che il caso Rossi sia un suicidio, chiedono l’archiviazione proprio il 2 agosto 2013. (…)
Ma in quel periodo di vacanza avviene una cosa ben più grave: senza che le parti vengano avvisate, il 14 agosto Natalini dispone la distruzione dei reperti trovati nell’ufficio di Rossi, compresi sette fazzoletti di carta sporchi di sangue. Fazzoletti già repertati con estremo ritardo solamente il 14 giugno, seppur sequestrati il 7 marzo, ma soprattutto mai analizzati né presi in considerazione nel corso delle indagini. Non si sa ad esempio se il sangue sia del gruppo sanguigno di David o appartenga a qualcun altro, magari a un ipotetico aggressore. Si sarebbe potuti risalire comodamente anche al Dna, attraverso quei reperti: erano ben sette.
I legali dei famigliari di David, ricorrendo contro l’archiviazione, avrebbero potuto chiedere che venissero sottoposti a esami specifici: oltre al gruppo sanguigno e al Dna, si sarebbe potuto verificare anche quale tipo di ferita avessero tamponato; la forma della macchia di liquido ematico impressa sui fazzoletti avrebbe potuto svelare molto. Qualsiasi esame aggiuntivo avrebbe fugato ogni futuro dubbio. Anche per la procura quei fazzoletti avrebbero potuto rappresentare un elemento fondamentale: il sangue poteva essere di David e le macchie potevano coincidere con le ferite che il manager aveva al polso. Ma non è stato possibile analizzarli. Perché i fazzoletti vengono decretati come da distruggere il 14 agosto (…) ed eliminati da «Ambrogio Antonini, funzionario giudiziario, e Alessandro Troiani, conducente automezzi» si legge nel verbale. Dei reperti fondamentali vengono così distrutti senza neanche metterne a conoscenza i famigliari. Distrutti senza attendere non solo il decorso dei termini per far presentare alla difesa un’eventuale opposizione alla richiesta d’archiviazione, ma neanche l’esaurirsi della feriale. Si scoprirà solo anni dopo”.

Corriere 10.10.17
Vita da assistenti sociali, nove su dieci subiscono aggressioni
Il dossier su 20 mila professionisti. I settori più a rischio: la tutela dei minori e gli adulti in difficoltà
di Alessio Ribaudo

In Italia l’88,2 per cento degli assistenti sociali, nel corso della carriera, è stato aggredito verbalmente e il 61 per cento era presente mentre ciò accadeva a un collega; il 15,4 per cento ha subito una qualche forma di aggressione fisica. Inoltre, il 35,8 per cento ha temuto per l’incolumità propria o di un familiare e l’11,2 per cento ha avuto danni a beni.
È questa la fotografia scattata dalla ricerca «Conoscere per agire» sulla aggressività nei confronti degli assistenti sociali che sarà presentata domani a Roma nella sede del Consiglio nazionale dell’economia e che è stata promossa dal Consiglio nazionale degli assistenti sociali (Cnoas) e dalla Fondazione nazionale assistenti sociali. Lo studio — che il Corriere ha in anticipo — si basa su un campione di oltre 20 mila professionisti (sui 42 mila totali) ed è stato analizzato da un comitato scientifico, diretto da Alessandro Sicora dell’Università della Calabria. In particolare, nell’ultimo trimestre oltre mille intervistati dicono di aver subito forme di violenza fisiche che hanno richiesto interventi medici importanti. I settori più a rischio sono quelli a tutela dei minori e a sostegno di adulti in difficoltà. Ma c’è di più. Solo una parte delle aggressioni fisiche è denunciata alle forze di polizia (10,6%) o al proprio ente (23,3%). «Presumibilmente per un certo grado di sfiducia diffuso tra i professionisti — spiegano da Cnoas e Fondazione — visto che il 49% dichiara che dopo episodi di violenza verbale l’ente non ha preso iniziative concrete per aiutarli e sostenerli».
Dati preoccupanti per il Cnoas. «Il fenomeno violenza e le maggiori difficoltà nel rapporto tra assistenti sociali, Istituzioni e cittadini non può prescindere dallo stato di crescente sofferenza in cui si trova oggi il sistema dei servizi sociali — dice il presidente Gianmario Gazzi — e anzi ne è una conseguenza: è evidente che nei nostri servizi si scarica la sfiducia e la rabbia dei cittadini verso le istituzioni». Il presidente lancia un appello: «Serve attivare nuovi sistemi organizzativi e strategie metodologiche per gestire meglio le criticità; occorre investire in risorse professionali, nella formazione anche continua, nella sicurezza nei luoghi di lavoro e costruire servizi adeguati». Tra l’altro il 25,4% pensa che la violenza fisica contro gli assistenti sociali sia aumentata negli ultimi cinque anni.
«Gli episodi di violenza sono frutto di sofferenza e di tensioni sociali — spiega Silvana Mordeglia, presidente della Fondazione — ma non vanno sottovalutati quelli che derivano pure da una falsa rappresentazione dell’attività degli assistenti sociali. Stereotipo, questo, difficile da superare».

Corriere 10.10.17
«Ci porta alla III guerra mondiale» E il senatore amico attacca Trump
Duello tra Corker, repubblicano, e il presidente: la Casa Bianca è una casa di cura per adulti
di Giuseppe Sarcina

WASHINGTON Fino a qualche mese fa il senatore Bob Corker, 65 anni, era tra gli ospiti più assidui della Casa Bianca. Ma domenica scorsa il parlamentare del Tennessee, presidente della Commissione affari esteri, si è sfogato con il New York Times : «Ho delle fonti che mi raccontano come ogni giorno l’obiettivo dello staff sia contenere Donald Trump. Ci sta portando verso la Terza guerra mondiale con tutte queste minacce... Pensa di essere in un “reality show” e questo dovrebbe preoccupare tutti coloro che hanno a cuore le sorti della nostra nazione».
La risposta del presidente arriva con quattro tweet: «Il Senatore Corker mi ha supplicato di appoggiarlo per la sua rielezione in Tennessee. Mi sono rifiutato e lui ha abbandonato la competizione. Mi aveva anche chiesto di nominarlo segretario di Stato. “No grazie”, gli ho detto. Quindi me l’aspettavo…In realtà non ha avuto il fegato di correre per un altro mandato». Il senatore smentisce tutto e replica a stretto giro di Twitter: «Peccato che la Casa Bianca sia diventata una casa di cura per adulti. Evidentemente stamattina qualcuno del personale di guardia non si è presentato al lavoro».
All’inizio la relazione tra i due era addirittura eccellente. «The Donald» chiamava «Bob» nei momenti cruciali, per esempio, come raccontava lo stesso Corker a Capitol Hill, «prima e dopo il blitz contro l’aeroporto siriano», lo scorso 7 aprile. Poi anche il senatore, come molti altri, si è perso nel labirinto trumpiano. Perplesso per le dichiarazioni del presidente contro il Qatar; scandalizzato per la blanda posizione della Casa Bianca sulle violenze razziste a Charlottesville; contrariato per la gestione delle interferenze russe nella campagna elettorale. Tuttavia il 21 settembre Corker aveva appoggiato la mossa di Trump sulla Corea del Nord: sanzioni più dure e pressioni sulla Cina.
La rottura, dunque, è maturata nelle ultime due settimane. In questi giorni le cronache hanno registrato la furia di Trump contro il segretario di Stato, Rex Tillerson, l’insofferenza nei confronti del capo dello staff, John Kelly. Sono i fautori, insieme con il segretario alla Difesa, James Mattis, e con il Consigliere per la sicurezza nazionale Herbert Raymond McMaster, della strategia finora adottata nei confronti della Corea del Nord: le sanzioni devono essere uno strumento per costringere i «nemici» al negoziato.
È una linea condivisa da Corker e da gran parte dei 52 colleghi repubblicani. Il senatore non si ricandiderà nelle elezioni di mid-term nel 2018. Vedremo quali saranno le sue scelte concrete sui provvedimenti in calendario: bilancio, tasse, riforma sanitaria.

Corriere 10.10.17
Qatar, Egitto, Cina? I molti dubbi sulla corsa per la guida dell’Unesco
di Stefano Montefiori

L’Unesco è l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’educazione, la scienza e la cultura che si occupa di moltissime cose (forse troppe): dai canti cosacchi di Dnipropetrovsk alla cultura dello scherzo uzbeko al tiro alla corda delle Filippine (alcuni degli oltre 400 beni immateriali protetti come patrimonio dell’umanità), fino al restauro di Palmira in Siria e al diritto alla scuola per i bambini di tutto il mondo. Da ieri nell’edificio poco lontano dalla Tour Eiffel a Parigi sono cominciate le votazioni per designare entro venerdì il nuovo direttore generale al posto della bulgara Irina Bokova. L’Unesco vive una crisi forse ancora più evidente di quella della sua organizzazione madre, l’Onu. Le manovre, i giochi delle alleanze e la Storia piegata ai fini della lotta politica hanno reso il lavoro dei funzionari molto difficile. Quest’anno, per la prima volta dal 2013, il Comitato esecutivo non dovrà esaminare una proposta di risoluzione contro Israele — come quelle che in passato hanno surrealmente negato la storia anche ebraica di Gerusalemme e Hebron — e non è un caso: i Paesi arabi sono impegnati in una grande offensiva diplomatica per piazzare, finalmente, un loro rappresentante alla testa dell’organizzazione. Tra i candidati ci sono il qatarino Hamad al-Kawari, che ha un programma convincente — «Non vengo a mani vuote», ha detto — cioè usare i soldi del Qatar per colmare il baratro di bilancio provocato dallo stop ai contributi di Stati Uniti e Giappone, ma appartiene a un Paese accusato da Arabia saudita e alleati del Golfo di sostenere il terrorismo jihadista. Oppure l’egiziana Moushira Khattab, ex ministra di Mubarak, oggi criticata dalle associazioni di difesa dei diritti umani perché vicina al nuovo dittatore Al Sisi. In questo contesto crescono le chance del cinese Qian Tang, anche lui espressione di un Paese dalle dubbie credenziali quanto a tutela delle diversità culturali, e della francese Audrey Azoulay. Ex ministra della Cultura e — questo potrebbe contare molto — figlia di un importante consigliere della monarchia del Marocco.

Corriere 10.10.17
Nel cervello con emozione
Rizzolatti , scopritore dei neuroni specchio «ora la sfida è filmare l’attività cerebrale»
di Luigi Ripamonti

Neuroni specchio . «Ma sa che proprio non ricordo quando ci è venuto in mente di chiamarli così?» Nessun eureka! allora? «No. Anzi, per molto tempo temevo che potesse esserci un qualche artefatto. Solo dopo molti controlli mi sono convinto che fossero reali» .
In questo modo, decisamente sorprendente, parla della scoperta che l’ha reso celebre in tutto il mondo Giacomo Rizzolatti, il neuroscienziato italiano che riceverà, l’8 novembre a Milano, la prima edizione del premio «Lombardia è ricerca», istituito dalla Regione Lombardia, del valore di un milione di euro, superiore a quello del Nobel.
I neuroni specchio sono cellule nervose che si attivano quando compiamo una determinata azione e anche quando quell’azione la compie qualcun altro. Se prendiamo un caffè al bar nel nostro cervello si accendono ( scaricano ) determinati neuroni, che però si attivano anche se vediamo qualcun altro prendere un caffè. Ciò implica che «capiamo» quello che fanno gli altri sfruttando le stesse risorse neurali che usiamo quando facciamo noi la stessa azione. Osservazione e azione sono intimamente legate. Ne può discendere che, più sviluppiamo le nostre capacità di agire, più sviluppiamo quelle di comprendere le azioni eseguite dagli altri, e più sviluppiamo le capacità di capire le azioni degli altri più sviluppiamo le nostre di agire.
«Non a caso oggi vediamo la possibilità di sfruttare i neuroni specchio nella riabilitazione, cioè per fare ri-apprendere rapidamente schemi motori a persone che, per qualsiasi motivo, non li abbiano potuto utilizzare per lunghi periodi» esemplifica lo scienziato.
«Però i neuroni specchio ci hanno aperto prospettive anche su fronti diversi — prosegue —. Ora, infatti, sappiamo che interpretiamo alcune cose con i neuroni specchio, in maniera fenomenologica (qualcuno fa qualcosa e la sua azione in qualche modo risuona in me) e altre in maniera oggettiva, inferenziale (su qualcosa penso, ragiono e capisco). Se estendiamo il concetto alle emozioni, la cosa si fa interessante perché è molto diverso capire l’altro con l’empatia, in maniera fenomenologica, perché i miei neuroni “scaricano” insieme ai suoi, oppure in maniera oggettivo-inferenziale. Un esempio: se so che in un Paese molto lontano hanno ucciso 20 persone mi dispiace, ma non nello stesso modo (emotivo) in cui accade quando vedo soffrire una persona di fronte a me».
Questo può avere implicazioni sociologiche e filosofiche? «Certamente — conferma Rizzolatti —, perché un conto è rapportarsi a qualcuno che percepisco “come me”, altro a qualcuno o qualcosa di “lontano”, “diverso”. In questo secondo caso la componente emotiva è scalzata da quella inferenziale. Durante il nazismo, per esempio, la propaganda contro gli ebrei ha fatto in modo che essi fossero percepiti come qualcosa di differente, inferiore, rispetto ai tedeschi-ariani, e ciò ha cancellato la percezione emotiva, rendendo uomini normali, nel privato buoni padri di famiglia, capaci di crimini orrendi. Psichiatri che hanno visitato Eichmann prima del suo processo lo hanno definito normale, non un mostro».
Un’attenzione storica che non meraviglia in questo figlio di due medici che, sebbene ora diriga un «tranquillo» dipartimento del Cnr a Parma, ha alle spalle, fra l’altro, anche l’espulsione della sua famiglia per cause storico-politiche, da Kiev, dove è nato nel 1937, e dove il suo bisnonno era emigrato dal nativo Friuli.
Volendo invece guardare alle prospettive più strettamente cliniche dei suoi studi e, in particolare, all’impiego dei fondi che gli saranno assegnati con il «Nobel» della Lombardia che cosa si può dire?
«Cercherò di dare il mio contributo a quello che reputo un salto di qualità decisivo nello studio del funzionamento del cervello — risponde lo scienziato —. Ora noi, attraverso esami come per esempio la Risonanza magnetica funzionale e la Pet, siamo capaci di vedere quali aree cerebrali si attivano in determinate condizioni. Ma si tratta di “fotografie”, che non ci informano sul fronte del tempo: non ci svelano in che successione avvengono le attivazioni nervose. Per questa ragione, giudico molto importante la collaborazione che abbiamo avviato con il Centro per la Cura Chirurgica dell’epilessia dell’ospedale Niguarda di Milano. I metodi che vengono adottati in questo centro per motivi clinici permettono, infatti, un’analisi che va proprio in questa direzione. In questo modo potremo passare dall’ottenere fotografie funzionali del cervello a veri e propri film della sua attività».

Corriere 10.10.17
La stimolazione elettrica per «mappare» l’epilessia
Le diagnosi anatomiche del Niguarda di Milano
di Cristina D’Amico

Sapere sempre di più sull’epilessia vuol dire poter curare meglio le persone che ne soffrono (circa 500 mila in Italia), ma anche aumentare le conoscenze sul cervello, con l’obiettivo di tracciare la mappa completa di tutte le sue aree funzionali. Un importante contributo alla ricerca arriva dal Centro Munari per la chirurgia dell’epilessia, dell’ospedale Niguarda di Milano, a cui verrà destinato gran parte del premio vinto da Giacomo Rizzolatti. Nel Centro vengono operate ogni anno circa 120 persone con forme epilettiche che non rispondono alle cure farmacologiche (età media 24 anni, bambini in più di un terzo dei casi) e per il 40 per cento di questi pazienti è utilizzata prima dell’intervento l’«indagine tramite elettrodi all’interno del cervello», metodica molto sofisticata che, con invasività e rischi contenuti, permette di esplorare direttamente qualsiasi zona cerebrale.
«La chirurgia consente in una quota di epilessie farmacoresistenti di eliminare la zona da cui originano le crisi ed è il più delle volte risolutiva, — spiega Giorgio Lo Russo, direttore del Centro Munari — ma è indispensabile avere la certezza di poter intervenire sul paziente riducendo al massimo il rischio d’insorgenza di nuovi deficit neurologici. In alcuni casi, con le indagini non invasive, tra le quali la risonanza magnetica e la Pet, non riusciamo ad avere informazioni anatomo-elettro-cliniche convergenti, per agire in sicurezza. Allora, introducendo gli elettrodi, possiamo registrare le crisi, a volte indurle con la stimolazione elettrica e mappare le regioni funzionali, così da definire la zona da dove originano».
Gli elettrodi, da 5 a 20, vengono inseriti nella scatola cranica del paziente, sotto anestesia, attraverso fori di 2,5 mm di diametro e lasciati in sede mediamente per 12 giorni durante i quali il malato sarà collegato al sistema di registrazione dei dati. «La finalità — sottolinea Giorgio Lo Russo — è prima di tutto diagnostica, ma può avere anche risvolti terapeutici, e offre ai neurofisiologi, ad esempio al gruppo di ricerca del professor Giacomo Rizzolatti con il quale collaboriamo, l’opportunità di acquisire dai pazienti informazioni sull’attività fisiologica cerebrale».
Le ricerche sull’epilessia percorrono anche altre strade. «Numerosi studi mirano alla scoperta di nuovi farmaci, ben tollerati dai pazienti, che siano in grado non solo di curare le forme attualmente intrattabili (il 30% dei casi), ma anche di bloccare i meccanismi alla base della malattia — sintetizza Oriano Mecarelli, del Dipartimento di Neurologia dell’Università La Sapienza di Roma e presidente della Lega Italiana contro l’epilessia —. Sono in corso, poi, ricerche per prevenire l’insorgenza dell’epilessia dopo gravi insulti cerebrali, (un trauma o un ictus), grazie a biomarcatori nel sangue che segnalino i malati a rischio. Un altro importantissimo di ricerca punta a formulare terapie personalizzate, che tengano conto dell’espressione dell’epilessia nel singolo paziente, della causa, delle caratteristiche genetiche, delle altre patologie presenti. Infine, si cercano biomarcatori per prevenire la morte improvvisa in epilessia, 50 mila casi all’anno nel mondo (su 65 milioni di malati). Per alcuni degli ambiti, ad esempio per i biomarcatori, siamo solo all’inizio; per altri, come le terapie personalizzate, ci sono già risultati promettenti».
«La ricerca italiana, pur nei limiti delle risorse, si colloca bene a livello internazionale — conclude Mecarelli —. E nel 2020 è atteso un importante investimento europeo per avviare studi sull’epilessia ai quali parteciperanno certamente centri del nostro Paese».

La Stampa 10.10.17
Luigi Bobbio, padre del Sessantotto
che anticipò il Maggio francese
Morto a Torino a 73 anni. Figlio di Norberto, era stato leader del movimento studentesco e di Lotta Continua, di cui scrisse la storia
di Beppe Minello

È morto uno dei padri del ’68 e della contestazione studentesca. Luigi Bobbio, il più grande dei tre figli del filosofo Norberto Bobbio, è deceduto l’altra notte. Aveva 73 anni. Docente dell’ateneo torinese, era esperto di analisi delle politiche sociali. Il mondo accademico è in lutto e con Luigi Bobbio se ne va anche una parte della storia più recente di Torino e non solo quella.
Fra poco più di un mese, il 27 novembre, ricorrono infatti i 50 anni dell’occupazione di Palazzo Campana da cui nacque il Sessantotto. «Da qui cominciò tutto» commenta commosso l’amico Giovanni De Luna, a sua volta tra i protagonisti di quei giorni. Luigi Bobbio fu tra i principali leader del movimento studentesco e poi fondatore ed esponente di Lotta Continua: «Il movimento guidato da Luca Sofri e del quale fu l’unico, tranne più recentemente Aldo Cazzullo con il suo I ragazzi che volevano fare la rivoluzione, a scrivere la storia, nel ’79, con Savelli editore: Lotta Continua. Storia di un’organizzazione rivoluzionaria», ricorda Steve Della Casa, critico cinematografico con un passato in Lc.
«L’idea di questo giornale», scrivevano Bobbio e Guido Viale sul primo numero di Lotta Continua nel novembre ’69, «è quella di trovare i nessi per saldare le lotte operaie con le lotte degli studenti, dei tecnici, dei proletari più in generale, in una prospettiva rivoluzionaria». Ricorda ancora Della Casa: «Luigi era Lotta Continua: per molti anni la Sip dell’epoca lo perseguitò per il pagamento delle bollette dell’utenza telefonica di corso San Maurizio 27, sede di Lc, che risultava intestata a suo nome».
L’occupazione di Palazzo Campana, che a quel tempo era la sede delle facoltà umanistiche, diede il via alla ribellione anche negli altri atenei italiani anticipando il Maggio francese. La scintilla fu la notizia che si volevano trasferire le facoltà nel parco della Mandria, quello che circonda la Reggia di Venaria. Gli studenti fecero irruzione nel senato accademico e nel consiglio di amministrazione, «rompendo quella sacralità del potere accademico», come ricordò De Luna nel trentacinquesimo anniversario dell’occupazione, che significava anche dover raggiungere con le pattine la scrivania di Giovanni Getto, il cui ufficio aveva un lucidissimo parquet, per sostenere l’esame e magari venire bocciati perché le si abbandonava prima di arrivare alla scrivania del docente.
Tra quei professori c’erano Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone, che si trovarono contestati dai propri figli. In realtà, tornando alla rievocazione fatta 15 anni fa da De Luna, il rapporto tra gli studenti e i due docenti fu molto dialettico. Alcuni, come Guido Quazza, si schierarono con gli allievi senza riserve, mentre altri, ad esempio Franco Venturi e Aldo Garosci, azionisti come Bobbio e Galante Garrone, ebbero invece un rapporto più conflittuale con i giovani contestatori.
Luigi Bobbio si laureò in Giurisprudenza nel 1972 con 110 lode e nel 1988 conseguì il dottorato di ricerca in sociologia con una dissertazione dal titolo Gli interventi sul patrimonio culturale tra Stato e Regione. Analisi di una politica pubblica. Autore e ricercatore di scienze politiche, come professore di scienza politica dell’Università torinese Luigi Bobbio è stato un esperto di analisi delle politiche pubbliche, del rapporto tra amministrazione locale e statale e di processi decisionali dell’apparato statale. Dal 2000 ha insegnato come professore associato e dal 2005 come ordinario.

il manifesto 10.10.17
La cognizione dell’orrore
Intervista. Rachel Moran, autrice del libro «Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione» è in Italia per alcuni incontri pubblici. «La povertà è responsabile della capitolazione delle donne alla prostituzione, è la forza trainante della collusione femminile con il proprio sfruttamento, ma non è la principale causa»
di Mariangela Mianiti

Con un padre affetto da bipolarismo e una madre schizofrenica, Rachel Moran ha conosciuto presto la fatica di trovare un baricentro. Ma il peggio è arrivato quando, per sfuggire alla condizione di senza tetto, a 15 anni ha cominciato a prostituirsi nelle strade di Dublino. Da quel baratro è uscita sette anni dopo, si è laureata in giornalismo, ha avuto un figlio, ma il passato continuava a pesare. Doveva e voleva capire, così ha scritto. Ha impiegato più di dieci anni per raccontare in un libro che cos’è davvero la prostituzione. Pubblicato in Irlanda, Usa e Germania, sostenuto da studiose, femministe e personaggi come Jane Fonda e Jimmy Carter, Stupro a pagamento. La verità sulla prostituzione (Round Robin Editrice, pp. 390, euro 16 – traduzione di Ilaria Maccaroni e Chiara Carpita) è da poco uscito in Italia dove l’autrice arriva per presentarlo in due incontri organizzati da Resistenza Femminista: il primo domani a Milano presso la Casa dei Diritti, il 12 a Roma alla Casa Internazionale delle donne.
Senza fare sconti nemmeno a se stessa, Moran racconta che cosa significa essere usate a pagamento e attacca chi vorrebbe normalizzare e legalizzare la prostituzione. Da anni si batte perché sempre più paesi adottino il modello nordico votato in Svezia nel 1999, l’unico grazie al quale il mercato del sesso è diminuito perché punisce l’origine del problema, la domanda, ovvero i clienti.
Lei scrive: «Gli uomini compiono sempre violenza sessuale nella prostituzione e la maggior parte ne è consapevole». Come è arrivata a questa certezza?
L’ho capito sentendo il mio corpo usato come un oggetto masturbatorio da migliaia di uomini che, ovviamente, sanno che il sesso che acquistano è indesiderato, altrimenti non lo pagherebbero. L’utilizzo di contanti per comprare l’ingresso dentro il corpo di qualcun altro è un atto di violenza sessuale in sé e per sé. Lo so perché l’ho vissuto e visto succedere a molte altre, e non tutte sopravvivono. Ho l’obbligo di dire la verità sui danni che gli uomini fanno alle donne quando, per il loro egoismo sessuale, sono disposti a trattare altri esseri umani come bambole viventi e respiranti. Questi uomini sanno perfettamente il male che fanno. Per questo nessuno di loro desidera che le loro madri, sorelle e figlie entrino nei bordelli.
Tre le tipologie di clienti che  indica: quelli che preferiscono credere che lo stupro non sia stato commesso; quelli che ne sono consapevoli, ma non cambiano; quelli che lo sanno e se ne compiacciono perché traggono dallo stupro un enorme piacere sessuale. Fra queste categorie ce n’è una peggiore dell’altra?
L’ultima, ovvero gli uomini che calpestano la volontà di una donna, sono i più duri da affrontare per la semplice ragione che, emotivamente e psicologicamente, è più doloroso essere lese da qualcuno che ti danneggia deliberatamente. Tuttavia, a nessuno verrebbe in mente di chiedere a un muratore, per esempio, se lo ha ferito di più chi gli ha pestato i piedi, chi ha volontariamente messo in pericolo la sua sicurezza o chi gli ha dato un pugno in faccia.
Al contrario, queste distinzioni si applicano alla prostituzione. Siamo spinti dai lobbisti pro-prostituzione a pensare che questo sia un mestiere come un altro. La verità è che le donne prostituite hanno subito migliaia di incidenti di sesso indesiderato e hanno dovuto elaborare i traumi che ne conseguono. Questo spiega perché nella prostituzione i tassi di Ptsd (Disordini da stress post traumatico, n.d.r) siano più alti che fra i veterani di guerra.
Rachel Moran
Che ruolo ha il denaro?
Funge da silenziatore e chi ne è coinvolto ne è ben consapevole. Il denaro è il risarcimento del sesso indesiderato, e quando sei stato compensato per il sesso indesiderato non hai il diritto di lamentarti. Il sesso nella prostituzione non è solo abusivo, ma è abuso che per contratto si è obbligate a ignorare. Il denaro ha un ruolo simbolico, ma anche la funzione di ridurre al silenzio. In questo senso, la vergogna per la colpa si aggiunge alla lesione originale.
In Germania e Olanda la prostituzione è legalizzata. Che rischi ci sono in quei modelli?
La Germania è come un girone infernale. Lì ho incontrato donne così traumatizzate dalla prostituzione che non riuscivano nemmeno a parlare. Ho visto cartelloni sulle strade che reclamizzano «Una donna, una birra e una salsiccia al sangue». Le donne sono vendute insieme a pacchetti menù. I bordelli sono palazzi di dodici piani costruiti per ospitare mille uomini al giorno e offrono donne a prezzi ridotti per pensionati e disoccupati. Ci sono prostitute offerte e tasso fisso, l’equivalente di «Mangia quanto vuoi allo stesso prezzo», a tariffe forfettarie che permettono di usare tutte le donne che si vogliono quante volte si vuole, a «pacchetti banda» dove numerosi uomini arrivano insieme e usano il corpo di una o più donne come un branco di selvaggi.
Per quanto riguarda l’Olanda, il sindaco di Amsterdam ha chiuso metà del distretto a luci rosse per la criminalità rampante e incontrollabile. Le donne che vivono lì e nei dintorni dicono che camminare per strada è un’esperienza intimidatoria perché sono trattate come materie prime. È il risultato della riduzione di una classe di donne a oggetti sessuali e, inevitabilmente, colpisce tutte quante.
Come mai è così difficile eliminare la prostituzione?
L’egoismo sessuale maschile è responsabile della prostituzione che è più un’istituzione che un’industria. Il suo nucleo è la domanda di disponibilità sessuale femminile. La prostituzione è molto più vecchia del capitalismo, anche se il capitalismo l’ha facilitata. La gente dice che la povertà è responsabile della prostituzione. Non è vero. La povertà è responsabile della capitolazione delle donne alla prostituzione, è la forza trainante della collusione femminile con il proprio sfruttamento, ma non è la principale causa. I responsabili sono quegli uomini disposti a saziare il loro egoismo sessuale disumanizzando le donne come prodotti da comprare per i loro appetiti.
Perché in Svezia la legge ha funzionato?
Guido l’organizzazione Space International (Sopravvissute all’abuso della prostituzione che chiedono di illuminare l’opinione pubblica, n.d.r).
Chiediamo venga fatta luce sulla realtà perché sappiamo che se ciò non accade nulla cambierà. In Svezia la prostituzione è stata riconosciuta come forma di abuso sessuale commerciale e le persone, soprattutto le femministe, hanno fatto battaglie lunghe e difficili per ottenere la criminalizzazione dei clienti. La legge è neutrale dal punto di vista dei generi e una donna che acquista sesso è altrettanto colpevole ma, sorpresa, in 18 anni non ne è mai stata trovata una.
La legge lì ha funzionato e il mercato si è ridotto perché la prostituzione non è tollerata socialmente. I giovani oggi tendono a considerare l’acquisto di sesso come un comportamento perdente e questo ha reso la Svezia una società di genere più equa.

Il Fatto 10.10.17
“Il mio Godard” estremista e banale come non fu mai, nel ricordo di sua moglie
Sugli schermi a fine ottobre il film di Hazanavicius ispirato al libro di Anne Wiazemsky sul ’68 della coppia
di Fabio Ferzetti

Aveva ragione il vecchio Marx. La Storia si ripete sempre due volte, prima come tragedia poi come farsa. E dove non arriva la Storia arriva certo cinema. Che come tutta la cultura pop dominante non resiste alla tentazione di resuscitare decenni trascorsi solo per sbarazzarsene piegandoli a mode, gusti e stili di vita contemporanei. Quasi che oggi fossimo per definizione incapaci di capire ciò che è troppo lontano. L’ultima conferma arriva dal film su Jean-Luc Godard e il maggio ’68 che in Italia uscirà a fine ottobre ma merita uno sguardo ravvicinato ora che l’autrice del libro a cui è ispirato, Anne Wiazemsky, moglie e attrice di Godard nel triennio cruciale 1967-1969 (ma recitò fra i tanti anche per Bresson, Pasolini, Ferreri, Carmelo Bene), è scomparsa a 70 anni pochi giorni fa nel disinteresse pressoché generale dei nostri media.
Intitolato in italiano Il mio Godard, il film di Michel Hazanavicius, regista specializzato in pastiche e parodie (suo l’oscarizzato The Artist, sugli anni d’oro del muto), nasce infatti da uno dei due teneri e circostanziati libri dedicati alla loro liaison dall’attrice, che da brava nipote di François Mauriac era anche una narratrice nata. Si tratta di Un an après, “Un anno dopo”, che racconta proprio il ’68 e non è stato ancora tradotto in italiano (il precedente Un anno cruciale, sugli inizi della loro relazione, è invece pubblicato da e/o).
Basta infatti percorrere le 200 pagine lievi e implacabili, amorose e sgomente, scritte dall’attrice solo nel 2015, dopo numerosi altri libri e romanzi, dunque con tutto il distacco necessario, per capire come funziona il film. Troppo ansioso di trasformare il giovane Godard in una specie di prefigurazione dei primi personaggi di Woody Allen (con molta arroganza in più) per restituire non diciamo il clima dell’epoca. Ma almeno un accenno alla complessità e alla grandezza, anche tragica, di quello che allora era non solo uno dei registi più famosi del mondo, ma il massimo anticipatore e il principale interprete delle tensioni – morali, politiche e perfino estetiche – destinate a sfociare nel “joli mai”, in un coacervo di spinte e contraddizioni senza precedenti.
Che avrebbe travolto fra i tanti proprio Godard, spingendolo a rinnegare tutto per annullarsi in un mitico “soggetto collettivo”. Addio all’esordio-capolavoro dunque (“Oggi mi vergogno di aver fatto Fino all’ultimo respiro), ma anche al geniale Pierrot le fou, quasi un manifesto del’68. La figura così borghese del regista, privilegiato, uomo di potere, doveva scomparire, come nel film Godard spiega, insultandolo, all’esterrefatto Bernardo Bertolucci. Un gesto violento e quasi suicida, che avrebbe cambiato per sempre la vita e il cinema di Godard. Ma che il film estremizza e banalizza, approfittando di ogni cedimento del regista per piantare il chiodo più a fondo. E seppellire con Godard tutta un’epoca, senza tanti distinguo. Eppure nel libro c’è moltissimo altro. Non ci sono solo gli scontri di piazza, i manifestanti intimiditi e respinti con fastidio dal regista, gli scoppi di violenza verbale, i graffiti offensivi sui muri dell’università (storico anche perché micidiale e nel suo stile Godard è il più stronzo degli svizzeri maoisti). C’è una coppia che per un bel pezzo non smette di amarsi, malgrado tutto. C’è un grande cineasta sulla cresta dell’onda che progetta un film sui Beatles ma finisce per farlo con i Rolling Stones, anche perché litiga con Lennon ed è geloso di Paul McCartney che scompare sotto il tavolo del ristorante con la Wiazemsky (in tutta innocenza, giura lei). C’è un inguaribile timido che senza occhiali “sembra Buster Keaton” ma è capace di sfidare i “flic” in assetto di guerra e di bloccare con un pugno di colleghi (tra cui Truffaut) il festival di Cannes, mentre la Wiazemsky anziché raggiungerlo si abbronza nella villa dell’odiato Lazareff, editore del borghesissimo France Soir (e si pentirà di quella debolezza).
Insomma c’è tutto un mondo, con i suoi sogni e le sue follie, a volte divertenti (vedi lo slogan “De Gaulle vampiro!” improvvisato quando il corteo passa davanti a un cinema dove danno un film di vampiri). Anche se la chiave di tutto forse è la frase che uno sconsolato Godard pronuncia quando scopre con sincero stupore di essere considerato una specie di oracolo dai manifestanti. “Allora sparirò, mi metterò al servizio degli altri”. Ecco: sparire, dedicarsi agli altri. Anche se gli altri non vogliono. È questo che oggi suona tanto incomprensibile.

Repubblica 10.10.17
Una targa per la memoria delle vittime di Stalin
“Ultimo indirizzo”, il ricordo degli epurati dal Grande Terrore sul modello delle “pietre d’inciampo” per i morti della Shoah
di Rosalba Castelletti

MOSCA. Ha gli occhi lucidi Mikhail mentre guarda il portone dell’abitazione dove il padre, Grigorij Lazarevich Ostrovskij, trascorse gli ultimi anni della sua vita. «Purtroppo non lo ricordo. Avevo meno di tre anni quando fu giustiziato». Tra le mani stringe una piccola targa di metallo grigio con incisi i dettagli essenziali sulla vita e il triste destino del padre. A sinistra del testo, al posto della fotografia, un riquadro vuoto, simbolo dell’assenza. Con l’ottantaduenne Mikhail ci sono il figlio e il nipote. Tre generazioni strette in un abbraccio per l’unico funerale a cui abbiano avuto diritto: l’affissione di una placca al numero 19 di Bolshoj Kozikinskij pereulok.
Era il 7 luglio del 1937 quando Grigorij Ostrovskij, viceministro dell’Agricoltura, fu arrestato. Quattro mesi dopo veniva fucilato con l’accusa di propaganda da cui fu scagionato solo nel 1956. Dopo la morte di Josip Stalin, oltre due milioni e mezzo di vittime della repressione furono riabilitate dal governo sovietico nel tentativo di fare ammenda. «Una storia sconosciuta alla maggior parte dei russi che accomuna persone di ogni ceto sociale e nazionalità», racconta Serghej Parkhomenko, giornalista e attivista instancabile.
È grazie alla sua caparbietà che nel dicembre 2014 è nata “Poslednij Adres”, Ultimo indirizzo, l’iniziativa che ricorda le vittime del Grande Terrore. L’idea gli venne a Francoforte imbattendosi nelle Stolpersteine, le “pietre d’inciampo” in memoria delle vittime del nazismo. «Ci accomunano due principi. Primo, ricordare i morti individualmente. Vogliamo che la gente capisca che dietro alle statistiche ci sono persone ordinarie. Secondo, dietro a ogni targa c’è anche una persona in vita che fa una richiesta». Ogni istanza viene verificata grazie al vasto archivio compilato da Memorial, l’ong che da anni cerca giustizia per i crimini della polizia segreta sovietica. Una missione malvista nella Russia odierna che ricorda Stalin solo come il fondatore della grandezza dell’Urss. Tanto che un anno fa è stata bollata come “agente straniero”.
Finora l’attività di Parkhomenko non è stata intralciata. «Abbiamo un accordo tacito con le autorità. Non chiediamo autorizzazioni e loro non ci fermano». In tre anni l’associazione si è estesa anche ad altri Paesi ex Urss. In Russia ha raccolto 2mila richieste e affisso 600 targhe. Il più grande ostacolo è ottenere il consenso di tutti gli inquilini dei palazzi dove vengono apposte. «Lo stalinismo non è solo erigere nuovi monumenti al dittatore, ma anche disprezzo della vita umana. Il nostro progetto ha il fine opposto: ricordare il valore di ogni singola esistenza», dice Serghej mentre carica in macchina una scala pieghevole e il trapano elettrico.
Ci sono altre targhe da affiggere in questa mattina d’autunno. Come quella di Jan Janovich Krumin’, classe 1897, uno dei “fucilieri lettoni rossi” che all’indomani della Rivoluzione combatté con i bolscevichi. Negli anni Trenta, per la polizia segreta la sua nazionalità contava più del suo valore militare. E fu fucilato. Oggi una placca lo ricorda in Gogolevskij boulevard. «Mio nonno era un uomo semplice, un operaio, eppure ora ha una targa nel centro di Mosca», sussurra commossa la nipote Natalja tenendo in mano due garofani rossi, i fiori del lutto. «È un grande onore».

Repubblica 10.10.17
Vi spiego il futuro inevitabile
Il domani secondo il guru Kevin Kelly: più realtà virtuale, rinascita del lavoro e Internet come grande mente globale
Dalla fine della privacy al tramonto dei social
di Jaime D’Alessandro

ROMA. «Certe innovazioni sono inevitabili», racconta Kevin Kelly, «e anche se le volessimo fermare non potremmo farlo». Per questo ha intitolato il suo ultimo libro, che sta per uscire in Italia,
L’inevitabile (Il Saggiatore). Lui le rivoluzioni tecnologiche le ha viste tutte, iniziando da quella dei primi personal computer, e ogni volta ha assistito prima allo scetticismo e poi all’incredulità di chi è stato travolto. Nato in Pennsylvania nel 1952, è stato il primo direttore della rivista Wired, fra le più importanti del mondo della tecnologia. E alla fine degli anni Sessanta pubblicava il Whole Earth Catalog, periodico underground che affascinava così tanto un ragazzino di nome Steve Jobs da spingerlo a rubarne il motto per farlo suo: “Siate affamati, siate folli”.
Il suo ultimo libro è diviso in dodici capitoli ognuno dedicato a un aspetto, dalla robotica e l’intelligenza artificiale, fino alle nuove forme di tv, di trasporto, di commercio. Non tutto torna e non sempre le previsioni sono affilate. Ma dipinge un futuro ibrido, probabile, con un’umanità “aumentata” che eternamente condivide, circondata da oggetti capaci di comprendere quel che fa o dice e dove la stessa tecnologia finisce per plasmarla costringendo le persone al ruolo di studenti a vita per cercare di restare al passo con i tempi.
«L’unione fra la nostra realtà e quella fatta di pixel è la prossima grande svolta dopo quella dei social network», spiega con la sua voce pacata e le frasi lente scelte con cura. «Sopratutto darà vita a una nuova forma di economia grazie alla discesa nel reale di beni virtuali». Insomma, ci aspetterebbe la Los Angeles di Blade Runner unita a quella del romanzo Guerreros di William Gibson grazie a lenti smart capaci di visualizzare ologrammi di ogni genere. Un futuro che però è già inciampato, basti pensare al flop dei Google Glass. Ma quando facciamo notare a Kelly che né la realtà virtuale né quella aumentata sembrano essersi diffuse, eccezion fatta per fenomeni passeggeri come Pokémon Go, lui obbietta tirando in ballo la storia: «Lo sa come immaginavamo Internet agli inizi degli anni Novanta? Come una sorta di televisione da cinquemila canali. Non ne capivamo le potenzialità. L’errore è pensare al domani con la testa di oggi. L’Ibm fece fatica a capire che un’azienda di solo software come la Microsoft avrebbe potuta sorpassarla. A sua volta la Microsoft non credette al Web né alla pericolosità di un motore di ricerca gratuito. E Google non si accorse che l’ondata successiva sarebbe stata quella dei social network ». Non è apocalittico come Jaron Lanier, fra i “padri” della stessa realtà virtuale, autore fra gli altri di Tu non sei un gadget (Mondadori) e fra i primi “tecno scettici” ormai sempre più numerosi. E non è nemmeno un integrato entusiasta alla Eric Schmidt, ex amministratore delegato di Google che scrive libri sulle meraviglie di La nuova era digitale (Rizzoli). Nel saggio precedente, Quello che vuole la tecnologia (Codice Edizioni), Kelly ha invece sostenuto che le innovazioni abbiano capacità di evolversi da sole: possederebbero nel loro Dna quelle successive in una catena già scritta. Per lui ad esempio i nodi del Web, i nostri smartphone e i 57 miliardi di telecamere e sensori in circolazione entro il 2020, sono la base di un organismo che sta volgendo rapidamente verso l’acquisizione di capacità cognitive. «Internet alla fine è la più grossa e veloce fotocopiatrice del mondo», prosegue. «Trasforma in dati tutto di noi. L’idea stessa di privacy ad esempio è destinata a tramontare e fra qualche tempo troveremo “naturali” un numero elevato di cose che ora ci sembrano altro». Compresi gli aspetti negativi sui quali però lui preferisce non soffermarsi. E alla fine della lettura sorge quasi la speranza che alcune delle sue previsioni si dimostrino errate. Peccato solo che Kevin Kelly sia lo stesso che nel 1995 si era messo a fantasticare di reti neurali fatte di processori organizzati imitando la biologia. Quindici anni prima che cominciassero a invadere il mondo.

Repubblica 10.10.17
“Nessuna paura l’intelligenza artificiale è un’opportunità”

ROMA. «Ammetto di essermi sbagliato nel mio saggio Le persone non servono (Luiss): non credo che l’automazione e l’intelligenza artificiale distruggerà così rapidamente milioni di posti di lavoro. Ci vorrà molto più tempo. L’avvento dell’automobile è stata ben più violenta. E poi l’intelligenza artificiale ha ancora dei limiti evidenti».
Nella hall di un albergo del centro di Roma, comincia così la marcia indietro di Jerry Kaplan. Stessa identica età di Kevin Kelly, 65 anni, e percorsi paralleli. Kaplan però è ingegnere informatico e imprenditore seriale che oggi insegna allo Stanford Center for Legal Informatics. Un pioniere del digitale in Italia per presentare il suo ultimo libro Intelligenza artificiale alla Luiss dopo aver tenuto una lettura al Senato.
Quindi le paure di Elon Musk e altri sono eccessive?
«Elon Musk è pazzo. Tutto qui. L’intelligenza artificiale (Ai) è anche un fenomeno sociologico fatto delle reazione nei media e dei commenti di persone come Musk. L’automazione esiste dalla rivoluzione industriale. Oggi abbiamo traduzioni automatiche, riconoscimento delle immagini, guida autonoma. Grandi strumenti, ma da qui a pensare che ci annienteranno o sorpasseranno ne passa ».
Ray Kurzweil sostene che il sorpasso avverrà nel 2045.
«Sta nascendo una strana filosofia attorno alle Ai. Sono credenze, come il transumanesimo, mosse dalla parte emotiva. Che è poi la stessa che rende le fake news tanto polari. E i media purtroppo seguono questi allarmismi. Ma chi conosce la materia sa che nell’intelligenza artificiale non ci sono pericoli, casomai opportunità. E non c’è alcuna possibilità che possa nascere una sorta di coscienza digitale. È solo fantascienza o una forma singolare di spiritualità, a scelta ».
( j. d’a.)