mercoledì 11 ottobre 2017

LaStampa TuttoScienze 11.10.17
“Le razze umane non esistono
La prova è nel nostro Genoma”

Si chiama «No razza, sì cittadinanza» ed è l’iniziativa in programma domani, alle 18, al Collegio Ghislieri di Pavia: a cura dei biologi Carlo Alberto Redi e Manuela Monti, l’evento prevede la presentazione dell’omonimo volume collettivo, in cui gli scienziati, accanto a storici, filosofi, sociologi e giuristi, smascherano le falsità dei razzismi, vecchi e nuovi. Il sequenziamento del genoma e molte altre prove scientifiche, infatti, negano decisamente l’esistenza di razze geneticamente distinte nell’ambito della specie umana: ecco perché - spiegano Redi, professore di Zoologia all’Università di Pavia e socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, e Monti, che insegna «biologia delle cellule staminali» all’Istituto Universitario di Studi Superiori di Pavia - l’obiettivo dell’evento, sostenuto da Fondazione Umberto Veronesi e Merck, è quello di organizzare una raccolta di firme per un’iniziativa di legge popolare. Obiettivo: la cancellazione della parola «razza» dall’articolo 3 della Costituzione italiana.

Corriere 11.10.17
Milano ricorda i Rosselli Una mostra e un incontro a 80 anni dall’assassinio
di Antonio Carioti

Carlo Rosselli era cresciuto a Firenze, ma anche Milano contò nella sua formazione. Perciò, 80 anni dopo l’agguato che vide Carlo e il fratello Nello uccisi in Francia il 9 giugno 1937 da sicari legati ai servizi segreti fascisti, la Fondazione Kuliscioff ha organizzato la mostra L’Italia dei Rosselli , che rimarrà aperta all’Archivio di Stato di Milano (via Senato 10) fino al 31 ottobre. La rassegna viene inaugurata oggi, alle ore 15, con una conferenza aperta da Walter Galbusera della Fondazione Kuliscioff e conclusa da Valdo Spini della Fondazione Circolo Fratelli Rosselli di Firenze. Tra i relatori dell’incontro: Paolo Bagnoli, Marina Calloni, Giuliana Nuvoli, Giovanni Scirocco. Sull’attività di Carlo Rosselli a Milano interverrà Nicola Del Corno: «Si trasferì qui — ricorda — per fare da assistente a Luigi Einaudi. Era il 1923: Carlo, oltre a lavorare alla Bocconi, si dedicò a modernizzare il socialismo insieme a Pietro Nenni, con cui fondò la rivista “Il Quarto Stato”. Quando il fascismo instaurò la dittatura, Carlo s’impegnò per far fuggire all’estero i dirigenti dell’opposizione. Proprio per aver organizzato l’espatrio di Filippo Turati, leader del Psi, Rosselli fu arrestato e inviato al confino, da cui evase per andare a fondare il movimento Giustizia e Libertà».

il manifesto 11.10.17
Inferno-infanzia: 120 milioni di ragazze vittime di violenza
Minori. Un dossier di Terre des Hommes denuncia gli abusi sessuali e i maltrattamenti subiti da bambine e adolescenti

Picchiate, violentate, costrette a subire mutilazioni genitali. Ma anche vendute come schiave o trasformate in piccoli soldati per guerre che non gli appartengono. Oppure spose-bambine (ogni anno sono 15 milioni), obbligate a unirsi a uomini più vecchi di loro. In ogni caso bambine e adolescenti scippate della loro vita spesso da chi in teoria dovrebbe prendersi cura di loro – padri, fratelli, madri o altri parenti – ma che nella realtà quotidiana si rivelano dei carnefici.
Nel mondo ci sono circa 120 milioni di ragazze con meno di venti anni vittime di «rapporti forzati o atti sessuali forzati», piccoli esseri che non trovano protezione neanche tra le mura di casa, a scuola o nel luogo di lavoro. Un fenomeno che riguarda in modo particolare i Paesi in via di sviluppo, ma che coinvolge anche noi.
Basti pensare che in Italia due bambini al giorno sono vittime di abusi sessuali, mille ogni anno. Cifra che nel 2016 è salita a 5.383 casi se si considerano anche altri tipi di violenze oltre a quelle sessuali e che in sei casi su dieci ha riguardato bambine, facendo inoltre segnare un drammatico +6% rispetto all’anno precedente.
«Le conseguenze di una mancata protezione e promozione del benessere infantile sono pesantissime e si ripercuotono nelle fasi successive della vita, oltre a rappresentare un gravissimo danno alla società», ha spiegato il presidente del Senato Pietro Grasso partecipando ieri alla presentazione del dossier di Terre des Hommes «InDifesa. La condizione delle bambine e delle ragazze nel mondo» diffuso alla vigilia della Giornata mondiale delle bambine che ricorre oggi.
La fotografia che esce dallo studio è drammatica. Le vittime delle violenze sono per lo più femmine: nel 2016 erano il 58%, percentuale che aumenta quando si tratta di reati a sfondo sessuale. Le bambine sono l’83% delle vittime di violenze sessuali aggravate, l’82% dei minori entrati nel giro della produzione di materiale pornografico, il 78% delle vittime di corruzione di minorenne, ossia bambine con meno di 14 anni forzate ad assistere ad atti sessuali. Degli omicidi volontari (più che raddoppiati in un anno, da 13 a 21 minori vittime), il 62% era una bambina o una adolescente.
Le violenze domestiche, inoltre, sono la causa della maggioranza dei reati contro i minori: nel 2016 sono state 1.618 le vittime di maltrattamenti in famiglia, il 51% delle quali femmine con un incremento del 12% rispetto all’anno precedente.
Cresciuto anche il numero dei minori vittime di abuso di mezzi di correzione o disciplina, (266 nel 2016), ovvero percossi fino a rendere necessaria la visita in un ospedale. Il rapporto infine i costi sociali che alcuni tipi di violenze comportano.
«Secondo uno studio della World Bank – è la denuncia – la scomparsa dei matrimoni precoci potrebbe tradursi in un risparmio di 566 miliardi di dollari (nel 2030) dovuto alla riduzione delle spese per il welfare dei singoli Stati».
In occasione della Giornata mondiale delle bambine Terre des Hommes lancia la campagna #OrangeRevolution per stimolare la diffusione di una cultura del rispetto e della prevenzione della violenza.
«Serve un impegno sempre maggiore del governo per trovare fondi per il contrasto e la prevenzione della violenza di genere che orienti gli interventi sia in Italia che nei Paesi in via di Sviluppo – ha spiegato il presidente di Terre des Hommes, Raffaele K. Salinari – ma diventa sempre più importante anche costituire alleanze ampie, che includano attori fra loro differenti, capaci di intervenire a tutti i livelli coinvolgendo non solo i governi, le organizzazioni già impegnate in prima linea su questi temi, i professionisti, ma anche i ragazzi e le ragazze stesse».

Repubblica 11.10.17
Amos Oz. Nipoti: miei, vi insegno a diventare uomini liberi
Intervista allo scrittore israeliano, che partendo dal suo ultimo saggio spiega come buona scrittura, buona politica e humour diventano antidoti al fanatismo
di Wlodek Goldkorn

La letteratura è cugina del gossip ci fa entrare dalle finestre nelle case degli altri per imparare come vivono
“Nella vita pubblica ero in prima linea: ora non più”
IL LIBRO Cari fanatici di Amos Oz (Feltrinelli traduzione di Elena Loewenthal pagg. 112 euro 10)

Ha sempre avuto due vite Amos Oz: una da scrittore; l’altra da intellettuale pubblico, in prima linea nella lotta contro l’occupazione e per il riconoscimento dei diritti dei palestinesi. Lui ha sempre voluto convincere qualsiasi (incredulo) interlocutore che si trattava di due vite parallele: dei sentimenti mi occupo nei romanzi, se voglio criticare il mio governo scrivo un articolo, ripeteva. Ora con Cari fanatici, un saggio composto da tre brevi testi in uscita da Feltrinelli, i più fedeli, ma anche gli occasionali lettori di Oz possono finalmente trovare il punto in cui le sue due vite si congiungono: quel punto è la convinzione che tutti gli esseri umani sono i padroni delle proprie scelte, ma anche e prima ancora, che la chiave per una vita decente è saper ascoltare l’altro ed essere capace di vedere il mondo e se stessi con gli occhi altrui. Il miracolo della buona letteratura e della buona politica ha la stessa origine: la capacità dell’osservazione e la distanza da se stessi. E per quanto riguarda il fanatismo: per Oz è un male che affligge tutta l’umanità; ebrei come musulmani, cristiani, come laici.
Crede che un fanatico sia interessato a di leggere le tre lettere che gli ha indirizzato?
«Le lettere non sono indirizzate ai fanatici, ma a tutti noi. In tutti noi è presente un nucleo di fanatismo. Il fanatico è un punto esclamativo deambulante. Lo siamo tutti un po’, perché nei rapporti con i nostri partner o figli, tutti diciamo: devi essere come me. Vogliamo rimodellare gli altri per una sorta di altruismo, per il loro bene. Il desiderio di rimodellare l’altro è il primo grado del fanatismo».
Ma è un desiderio nobile. Si vuole rendere migliore la persona a cui vogliamo bene. Vale anche per la politica; che senso avrebbe farla se non per cambiare la società?
«Il vero fanatico non è interessato alle persone concrete né alla vita sociale quotidiana. Il suo è l’interesse per una fede e un’idea. Pensa di agire per il bene dell’altro ma in realtà vuole un mondo in cui tutti si assomigliano, tutti sono uguali, e quindi non c’è più l’altro. Un segno inequivocabile per cui si riconosce un fanatico è la mancanza del senso dell’umorismo. Aggiungo le parole di Churchill: il fanatico non cambia mai opinione né permette di cambiare l’oggetto della conversazione».
Di solito, quando parliamo del fanatismo, abbiamo in mente i fondamentalisti religiosi o politici che vogliono un regime totalitario. Da quello che sta dicendo si può però dedurre che esiste anche un fanatismo laico che non vuole dittature...
«Ovvio. Il fanatismo ambientalista e no global e perfino il fanatismo delle squadre di calcio».
Ci sarà una differenza tra chi vuole un regime totalitario o fondamentalista e un fanatico della Fiorentina, per esempio...
«La differenza è minima se quell’ultrà augura la morte ai tifosi delle altre squadre perché solo la Fiorentina è degna di essere oggetto di tifo».
Sta dicendo che il fanatismo contempla la morte simbolica?
«Sì, ed è un concetto importante. Va bene urlare allo stadio, visto che chi alza la voce non è necessariamente un fanatico. Il fanatismo non si misura dal tono della voce, ma dalla disponibilità ad ascoltare e a tollerare altre voci. Il rifiuto dell’ascolto è dare morte simbolica».
Come si fa guarire un fanatico?
«Ho già detto che non ho mai incontrato un fanatico dotato del senso dell’umorismo. E se potessi concentrare il senso dell’umorismo in un vaccino, vincerei il Nobel per la Medicina. Seriamente, sono convinto che la letteratura, la buona letteratura sia un antidoto al fanatismo. La letteratura è cugina del gossip. Il gossip a sua volta è il risultato della nostra volontà di guardare dentro le finestre degli altri per sapere come vivono, cosa mangiano. La letteratura però fa un passo in più: non solo vuole vedere cosa c’è dentro la finestra altrui, ma indaga su che cosa si vede da quella finestra. La letteratura permette cioè di assumere lo sguardo altrui sul mondo. Un persona capace di vedere se stesso o l’universo con gli occhi degli altri non può essere un fanatico, perché una persona così sa che ci sono tanti modi di vedere e leggere la realtà. Un uomo o una donna che frequenta la letteratura sa che non esiste un solo linguaggio. John Donne ha scritto che nessuno è un’isola. Io dico che siamo tutti una penisola. Per il pensiero di stampo totalitario siamo solo una molecola di una cosa più grande (il continente), per il pensiero neo-liberale radicale siamo un arcipelago di isole senza legami. Io propugno una via di mezzo: in parte siamo legati a qualcosa di grande e collettivo, ma di fronte all’amore e alla morte siamo soli, esposti esclusivamente al silenzio dell’oceano e della montagna».
Perché ha sentito il bisogno di scrivere questo libro?
«L’ho dedicato ai miei quattro nipoti. Giunto all’età di 78 anni ho solo la mia parola. Non ho un partito, non sono una guida né un maestro. Volevo dire: vostro nonno per sessant’anni era in prima linea, nella vita pubblica; ora il nonno è vecchio. Sta nelle retrovie. Se voi vorrete combattere, il nonno vi darà le munizioni; vi darà suggerimenti su come pensare. È questo che faccio. Aggiungo: il capitalismo,
“Hannah Arendt sbagliava nazismo non è burocrazia”
oggi, ci rende tutti infantili, ci dice che la felicità consiste nel comprare un determinato prodotto. Ma lo fa anche la politica che assieme ai media è ormai parte dell’industria dell’intrattenimento. Ecco, io vorrei che tornassimo adulti e cioè responsabili delle nostre azioni. Quando Gesù dice: “Perdonali perché non sanno quel che fanno”, sbaglia».
Sta dicendo che c’è un elemento di male in ognuno di noi e che ci piace infliggere il male?
«Sì. L’albero di cui Adamo ed Eva hanno mangiato il frutto era l’albero della conoscenza del bene e del male. La teoria di Hannah Arendt per cui il male è una serie di procedure burocratiche non mi convince. L’assassino sa di violare un tabù ».
Lei cita una storia del Talmud, la storia del forno di Akhnai, dove Dio interviene in una disputa tra rabbini. E quando uno dei sapienti gli dice: Signore, questa è una vicenda tra noi uomini, tu non c’entri, Dio finisce per dargli ragione. È una parabola sulla libertà di scelta amata dagli ebrei laici, specie gli esistenzialisti. E tuttavia, perché noi, ebrei laici ed esistenzialisti, ricorriamo a un testo della nostra tradizione? Perché siamo così influenzati dal nostro background culturale?
«La domanda giusta non è quanto siamo condizionati dal nostro background ma in quale misura siamo capaci di liberarci da questo background, in percentuale: il 10 per cento? Il 50? È questa la vera domanda sulla nostra libertà. E per quanto riguarda la nostra autonomia rispetto a Dio: chi di noi si rivolge a Lui, anche per maledirlo, in fondo porta dentro di sé un elemento di fede».

Repubblica 11.10.17
Perché è l’amore la più alta forma del pensiero
L’Io e l’Ego, il Bene e il Male, la cooperazione tra gli uomini e l’odio anticipiamo un brano del nuovo saggio del teologo Vito Mancuso
di Vito Mancuso

Analizzando più da vicino il pensiero in quanto vertice del processo cognitivo, occorre dire che vi sono due disposizioni fondamentali del pensare: quella volta alla costruzione, la cosiddetta pars construens, e quella volta alla distruzione, la cosiddetta pars destruens. (...) La dimensione costruttiva del pensiero è rappresentata dal logos che vuole logica e che produce saggezza e sapienza. Il pensiero come logos-logica si esercita mediante verbi quali osservare, ponderare, considerare, riconsiderare, analizzare, riflettere, meditare. A volte il pensiero come logos diviene sorgivo, come ispirato, e in questi rari momenti riproduce la logica della creazione, genera creatività; i verbi che in questo caso lo rappresentano sono intuire, ideare, scoprire, creare. La dimensione distruttiva del pensiero è rappresentata dal caos che vuole scompaginare la logica e che in questo saggio, evocando Erasmo da Rotterdam, io denomino follia, ma che più propriamente si dovrebbe denominare critica. Tale forma di pensiero si esplica mediante verbi quali criticare, disapprovare, investigare, attaccare, contestare, stigmatizzare, stroncare, demolire. (...) Esiste la possibilità di orientare il desiderio dell’Io senza identificarlo con la voracità dell’Ego? È possibile desiderare senza bramare? Esiste la possibilità di non obbedire a nulla di esteriore e al contempo però di essere in grado di dire di sì alle esigenze della giustizia anche quando ci risultano scomode, per non dire sconvenienti? (...) Nel cercare di camminare lungo il sottile crinale a cui rimandano le domande appena poste, intravedo una dimensione della vita della mente, e conseguentemente dell’esistere, di cui la tradizione parla in termini di
idea e che io intendo presentare mediante l’immagine simbolica dell’amore celeste.
Ci sono gli amori terreni e di questi non c’è bisogno che dica nulla, ma ci sono anche gli amori celesti ed è di questi che desidero parlare. Chiarisco anzitutto che con questa strana espressione intendo le idee (o gli ideali) nella loro capacità di esercitare forza. Per amori celesti intendo le idee in quanto forze non materiali che producono in noi un’intensa attrazione, non priva peraltro di sfumature erotiche perché non di rado eccita, inebria, conquista, seduce. Come la chiamate voi la vostra interiorità, quella specie di territorio misterioso che vi fa essere quello che siete al di là dell’aspetto e dell’agire esteriore e che costituisce la vostra vera personalità? La chiamate psiche? Mente? Io? Ego? Sé? Ipseità? Identità? Coscienza? Anima? Spirito? Ognuno la chiami come vuole o meglio come gli consente la sua formazione, io vi dico solo che mediante il simbolo dell’amore celeste intendo rimandare a una forza reale, non materiale, dotata di grande attrazione, esterna alla mente ordinaria, che richiama, scalda, indirizza l’interiorità umana, e che costruisce propriamente il pensiero perché dispone secondo un certo ordine architettonico i concetti che provengono dalla elaborazione dei dati sensibili. L’idea- guida è paragonabile al direttore d’orchestra che sa armonizzare i diversi musicisti; la sua assenza produce quella confusione mentale e comportamentale descritta così bene da Federico Fellini nel film Prova d’orchestra.
E parlo di amore, perché l’amore è la forza più potente che c’è. Immagino che molti non siano d’accordo con questa mia affermazione e non faccio fatica a comprenderne il motivo, vista la presenza devastante del male.
Tuttavia io sono convinto che, nonostante la loro grande forza, il male e l’odio siano meno forti del bene e dell’amore, perché solo il bene e l’amore sono capaci di costruire, di dare energia positiva, di infondere vita e di durare. Non sottovaluto la forza dell’odio, ma sostengo che si tratta di una forza seconda, che può solo distruggere, mai costruire e che per esistere ha bisogno di indirizzarsi contro la forza primigenia e fondamentale dell’amore, l’unica che sappia costruire ed edificare. L’odio c’è, agisce, a volte vince, ma è comunque sempre secondario, parassitario, si regge sul lavoro altrui in quanto intende negarlo; l’amore invece è primario, creativo, non ha bisogno di nulla per esserci, nasce da sé. La differenza tra la forza dell’amore e quella dell’odio è analoga a quella tra un bambino che costruisce castelli di sabbia e un bambino invidioso che glieli sa solo distruggere: il primo esiste e lavora per sé, il secondo ha senso in funzione dell’altro.
A proposito di lavoro, è noto che secondo la fisica la materia non è altro che energia solidificata, quindi tutto quello che vediamo e tocchiamo è risolvibile nell’energia. Energia viene dal greco energheia, termine formato dalla preposizione en, che significa «in», e dal sostantivo ergon, che significa «atto, opera, lavoro »: quindi energia etimologicamente significa «in atto», «all’opera», «al lavoro». E se tutto è energia, tutto lavora.
Ora però si faccia attenzione a quanto afferma Marco Aurelio:
gegonamen pros synergian,
espressione di solito tradotta con «Siamo nati per la collaborazione », ma che in questo contesto è più incisiva nel suo senso letterale: «Siamo nati per la sinergia ». Il senso della vita umana in quanto umana non è semplicemente lavorare e produrre en- ergia, ma nella sua peculiarità consiste nel suscitare una più raffinata energia capace di legami reciproci fino al vertice dell’amore, e che per questo si chiama sin- ergia.
Il cristianesimo non dice una cosa diversa parlando di «amore del prossimo». Tale logica sinergica è così radicata in noi che quando la possiamo vivere in pienezza nell’amore concretamente corrisposto la vita fiorisce e sorride, e non c’è nulla di più compiuto e di più gioioso.
IL LIBRO Anticipiamo un brano dal nuovo libro di Vito Mancuso in uscita domani, Il bisogno di pensare (Garzanti pagg. 188, euro 16) Nella foto Antonio Canova, Amore e Psiche

Repubblica 11.10.17
Un colpo di mano
La fiducia e il governo diventano strumenti servili di un consenso indotto
Questa operazione testimonia un arrocco di forze politiche spaventate
di Ezio Mauro

NON è un colpo di Stato, come urlano i grillini in piazza, ma questa decisione del governo di mettere la fiducia sulla legge elettorale è un colpo di mano: gravissimo per la materia delicata di cui tratta (una materia di garanzia per tutti) e per il momento in cui avviene, a pochi mesi dalle elezioni politiche.
Giunge così a compimento nel modo peggiore una vicenda emblematica dell’impotenza dell’intero sistema politico, e della vacuità della legislatura tutta intera, e cioè l’incapacità del Parlamento e dei partiti di trovare un’intesa alla luce del sole che doti il Paese di una regola elettorale non basata su furbizie contingenti e vantaggi di parte, ma su un meccanismo in grado di restituire ai cittadini la piena potestà di scegliere i loro rappresentanti, con una regola riconoscibile dagli elettori e riconosciuta dall’intero sistema, capace di durare nel tempo al di là dei calcoli miopi di breve periodo. Restituendo così al meccanismo della rappresentanza quella stabilità e quella neutralità che sono parte indispensabile della fiducia nella politica e nelle istituzioni, oggi perduta.
C’è una contraddizione logica nel chiamare indecentemente in causa nell’atto finale il governo che non è intervenuto nel percorso della riforma — Gentiloni lo aveva sempre escluso, dunque deve spiegare cosa l’ha convinto a cambiare idea — perché faccia scattare il lucchetto della fiducia, troncando il confronto parlamentare per paura delle imboscate nascoste nel voto segreto.
PROPRIO lo spettro dichiarato dei franchi tiratori, che agita questa legge elettorale come i fantasmi abitano i castelli d’Inghilterra, è la prova patente di quanto poco i partiti-padri di questa legge si fidino della sua capacità di convincere e coinvolgere i loro parlamentari, come capita ad ogni confisca di sovranità politica da parte dei vertici più ristretti.
C’è poi una contraddizione tutta politica, clamorosa e sotto gli occhi di tutti: cosa c’entra un patto di maggioranza (riconfermato e blindato a forza con il voto di fiducia) con un provvedimento che nasce trasversale, a cavallo tra gran parte dell’area di governo e una certa opposizione, anzi per dirla tutta da un’intesa tra il Pd e Forza Italia con il concorso interessato della Lega e del partitino di Alfano? In questo modo si svilisce anche l’istituto parlamentare e lo stesso voto di fiducia, uno dei momenti più significativi del rapporto tra il governo e le Camere: qui invece ridotto a puro espediente tecnico, dove non è in gioco la fiducia e nemmeno il governo, ma entrambi diventano puri strumenti servili di un consenso indotto e forzato, con la destra che esce dall’aula per far passare in un giorno pari la fiducia ad un governo a cui si oppone nei giorni dispari.
L’ultima contraddizione — in realtà la prima — è del Pd, il partito che regge la maggioranza, il governo e ha chiesto la fiducia. In epoca di crisi conclamata della rappresentanza, queste operazioni servono solo a testimoniare un arrocco di forze politiche spaventate per un’autotutela ad ogni costo, dando fiato ai partiti antisistema che quanto più sono incapaci di produrre politica in proprio, tanto più ricevono forza dagli errori altrui. Avevamo sempre chiesto una legge elettorale: ma non a qualsiasi costo. Non con il capolavoro di un voto che sembra costruito apposta per creare sfiducia.

Repubblica 11.10.17
Il Rosatellum allarma molti peones potenziali franchi tiratori. Ai quali resta l’“arma”del voto segreto finale
“Temono il bis dei 101” la rabbia trasversale di chi rischia il seggio ma (per ora) si allinea
di Goffredo De Marchis

ROMA. One shot. Ai potenziali franchi tiratori della legge elettorale resta un colpo secco: il voto segreto finale. Per buttare giù la riforma e chiudere la legislatura com’era cominciata, cioè maluccio. In tanti evocano i 101 “traditori” che nel 2013 impallinarono Romano Prodi nella corsa al Quirinale, primo atto della legislatura che si conclude il prossimo anno. La fiducia tiene a bada il pericolo, ma non lo scongiura del tutto. «Hanno temuto il bis», sostiene Nunzia De Girolamo, deputata di Forza Italia. Ora depotenziato. A parte quell’ultimo momento della verità.
C’è una rivolta trasversale in Parlamento. Attraversa i
peones dei partiti favorevoli al Rosatellum, corre lungo la dorsale appenninica da Nord a Sud. Dietro le colonne del Transatlantico si svolge un traffico di fogli con le simulazioni collegate al nuovo sistema di voto. Due parlamentari su tre avranno problemi a farsi rieleggere con il meccanismo dei collegi. È scritto nella paginetta che nascondono in tasca. La rivolta ha convinto Paolo Gentiloni a fare il passo che lo trascina nelle piazze come un nemico politico. «Ma senza fiducia questa legge non passerebbe mai. Paolo ha fatto l’unica scelta possibile », osserva Lorenza Bonaccorsi, deputata gentiloniana. «Detto questo a Roma prevedo zero collegi vincenti per il Pd, che non si è ancora ripreso. Non è un problema minore». Poco lontano gli risponde Roberto Morassut, altro parlamentare della Capitale: «Si può lottare nei collegi del Centro e semicentrali. Ci può dare una mano il voto contemporaneo per la Regione, magari Zingaretti farà da traino. Io comunque sono da sempre contro le preferenze, meglio questo sistema ».
Naturalmente, il franco tiratore non confessa mai di esserlo. La lista dei 101 rimane un mistero. La leggenda vuole che Prodi abbia l’elenco completo. Pippo Civati, dicono, ne ha solo metà. Ma il voto segreto protegge bene l’anonimato. Eppure molti non rinunciano a ragionare sull’effetto che la fine delle preferenze avrà sul risultato elettorale. Deputati dem del Nord si scambiano opinioni in un angolo. Deputati del Sud berlusconiani in un altro. «La fiducia era inevitabile - spiega De Girolamo -. Non si reggono 120-130 voti segreti. Questo non toglie che la rabbia c’è». L’esempio dei pugliesi di Forza Italia è molto chiaro: i candidati dei collegi dovranno andare in ginocchio a chiedere i voti a Raffaele Fitto, ras dei consensi nella regione, fuoriuscito dal partito più di un anno fa. I fedelissimi dovranno perciò chinare il capo di fronte allo scissionista: prospettiva poco allegra. Giuseppe Lauricella, deputato Pd siciliano e professore universitario, la prende con filosofia: «Se a Roma c’è il rischio di zero collegi, cosa dovrei dire io in Sicilia, dove si può ripetere il cappotto dei 61 a 0 del centrodestra?». L’epica sconfitta della sinistra nell’isola brucia ancora. «Ma è giusta la decisione del governo, è giusta la legge che salva il Parlamento da una brutta figura. E dopo tre voti di fiducia se qualcuno farà lo scherzo con il voto segreto finale, beh compirà un atto delinquenziale ». Forza Italia ha un problema al Sud perchè il centrodestra lì avrà una coalizione finta, senza la Lega. «In Campania, dove abbiamo tanti voti, non ci sarà corrispondenza coi seggi conquistati », spiega ancora De Girolamo. Il Pd avrà problemi al Nord, per via della forza leghista. Scherza Giuseppe Guerini, onorevole dem e avvocato bergamasco: «Se mi vogliono, la prossima legislatura posso fare il commesso. Conosco bene la Camera e i deputati, sarei perfetto». Veronica Tentori, giovane deputata Pd lecchese, sa che sarà dura in una zona a trazione salviniana. Accanto a lei la veneta Vanessa Camani ammette il problema ma dice: «La coalizione per noi è una strada obbligata, meglio così». E i renziani sono tranquilli? Dicono di no, ma Dario Parrini giura di sì: «Non capisco perchè in Veneto le preferenze avrebbero cambiato qualcosa. Sarebbero passati solo i capolista bloccati, dunque... ».
Le urla in aula, i volantini mostrati alla presidenza, si trasferiscono in strada oggi pomeriggio. Qui in Transatlantico si spiega invece come la legge sarebbe morta sotto il fuoco “amico”. Funziona così, quando ci sono 120 scrutini segreti, anche se hai 100 deputati di margine: c’è una votazione in cui la maggioranza la sfanga per 20 voti, quella successiva in cui la distanza si riduce a 10, alla terza scatta la trappola e passa un emendamento che manda tutto per aria. Impossibile farcela senza fiducia. Però nei capannelli di Forza Italia, la rivolta continua: «Molti di noi voteranno contro al momento finale ». Non basterebbero. Ci vuole il soccorso del Pd per far saltare la riforma. Un deputato del Nord dice sornione: «Io avrei votato “sì” anche senza fiducia. Tanto non mi ricandido, mi voglio godere la fatica che faranno i miei colleghi a farsi rieleggere».

Repubblica 11.10.17
Gentiloni trascinato in una mischia che contiene più pericoli che vantaggi
L’immagine del premier rischia di essere indebolita ed esiste una differenza di vedute tra Mattarella e Napolitano
di Stefano Folli

Non è un atto eversivo, in ultima analisi, ma potrebbe essere uno sbaglio dalle conseguenze insondabili. Accettando su pressione del Pd, cioè di Renzi, di porre la fiducia sulla legge elettorale, il governo Gentiloni risolve forse un problema immediato - mandare in porto la riforma con le buone o con le cattive - ma si espone a un turbine di polemiche in Parlamento e fuori che non si sa quando finiranno. Il clima è già avvelenato a Montecitorio e lo sarà ancor più al Senato.
Come disse Fouché, il ministro di polizia di Napoleone, a proposito della fucilazione del duca di Enghien, «è peggio di un crimine, è un errore». In questo caso non è stato fucilato nessuno, ma la forzatura è sotto gli occhi di tutti. I protagonisti di un sistema politico che non ha saputo venire a capo della legge elettorale, nonostante i solleciti del Quirinale, pensano di risolvere la questione negli ultimi mesi della legislatura strozzando il dibattito parlamentare. È una prova di debolezza che tradisce le paure di una maggioranza fragile. Talmente fragile da non rendersi conto che la vittoria di Pirro di oggi può tradursi domani, nelle urne e nel prossimo Parlamento, in una nuova paralisi o in ulteriori lacerazioni. E non è di conforto pensare che stavolta insieme al Pd ci sono anche Forza Italia e Lega, in una singolare unità d’intenti che sembra quasi anticipare le convergenze a venire.
C’è una vittima in tutto questo ed è il presidente del Consiglio. Gentiloni aveva curato con successo in questi mesi l’immagine di un uomo non proprio al di sopra delle parti, ma certo più vicino alle istituzioni che alle manovre partitiche. Ora il voto di fiducia di cui ha dovuto farsi carico lo risucchia nella mischia. Il che significa che la stessa legge di stabilità potrebbe risentire del nervosismo generale. Come è noto, il premier aveva annunciato in modo esplicito, nelle dichiarazioni programmatiche con cui si presentò alle Camere, che il governo avrebbe «assecondato » il lavoro del Parlamento sulla legge elettorale, ma non si sarebbe ritagliato «un ruolo da protagonista».
Frasi impegnative, del tutto consone al carattere dell’uomo. C’era il precedente dell’Italicum, approvato con voto di fiducia dal centrosinistra (allora senza l’apporto di Berlusconi e Salvini) e poi dichiarato incostituzionale dalla Consulta: sembrò a molti che si volesse isolare quell’episodio, promettendo che non ci sarebbe stato il bis. Le ragioni sono comprensibili, considerando la delicatezza della materia elettorale. Viceversa, dieci mesi dopo, la scena si ripropone. Mesi, infruttuosi, certo, in un Parlamento che comunque vada concluderà la legislatura in modo poco glorioso. E poi c’è il rischio che s’intravede dietro il fallimento della riforma: dover procedere ad armonizzare il modello elettorale di Camera e Senato attraverso un decreto del governo. Un passo di per sé controverso che non elimina le trappole parlamentari, in quanto il decreto va convertito nei sessanta giorni.
Sarebbe un problema nel problema. Questo spiega il favore discreto con cui il Quirinale sembra guardare al voto di fiducia. Del resto, l’ipotesi che la prossima legislatura si avviti nell’ingovernabilità non può non preoccupare il capo dello Stato. Non tutto si può risolvere con la formula magica dei “governi del presidente”, esecutivi tecnici che vanno a cercarsi la sopravvivenza giorno per giorno. Oggi vengono evocati con qualche leggerezza, ma la realtà è più complicata. Anche per questo, il frettoloso voto di fiducia sul “Rosatellum” ha l’aria di un passo falso del governo pressato dal Pd. Non a caso il presidente emerito Napolitano è intervenuto per suggerire di emendare la legge nei punti suscettibili d’esser male interpretati. Invece la fiducia ingessa tutto. Non riuscendo a sbrogliare la matassa, la si taglia con un colpo di spada. È evidente che fra i due presidenti, Mattarella e Napolitano, esiste una differenza di vedute (e naturalmente di responsabilità verso le istituzioni). Ma il punto è soprattutto politico. Come dice Pisicchio, parlamentare esperto, presidente del gruppo Misto: «Il sistema italiano ormai ha tre gambe, compreso il M5S: ha poco senso volerle ridurre a due con la tecnica elettorale». Anche perché il sistema non è abbastanza credibile per tentare un azzardo temerario.

Il Fatto 11.10.17
Ecco il golpe del Rosatellum: Renzi sequestra la Camera
Oggi si vota - Il segretario Pd costringe Gentiloni a porre la fiducia sulla legge elettorale. Alta tensione in Cdm, Orlando contro. Il Quirinale approva, Napolitano no. M5S: “Fascisti”
di Wanda Marra

“Anome del governo pongo la questione di fiducia”. Mentre Anna Finocchiaro, ministro dei Rapporti con il Parlamento, annuncia in aula la fiducia al Rosatellun 2.0, Ignazio La Russa si avvicina, cercando di fermarla. Intanto, dai banchi dei Cinque Stelle si alzano le urla “Fascisti”. E “Venduta, venduta”, all’indirizzo della presidente della Camera Laura Boldrini.
La legislatura si avvia al termine con una forzatura istituzionale. Così come è andata avanti: tra “canguri” e di “tagliole” era stata approvata la riforma costituzionale. Con la fiducia era stato approvato l’Italicum. Alla Camera, si vota oggi e domani (con possibilità di slittare a venerdì mattina): gli articoli 1, 2 e 3 saranno sottoposti a fiducia, il 4 e il 5 si esamineranno a scrutinio palese. E poi c’è il voto finale, che sarà segreto, sul provvedimento. I no annunciati sono di Cinque Stelle, Mdp e Fratelli d’Italia. Sul sì, tutti gli altri. Forza Italia e Lega non saranno presenti in Aula durante le fiducie, ma voteranno il provvedimento.
Resta l’incognita del voto finale. Il pallottoliere del Pd finora ha contato sempre un centinaio di franchi tiratori, quelli che volevano le preferenze, quelli che sanno che mai verranno ricandidati, con un sistema che permette ai leader di partito di mandare in Parlamento tutti nominati. I conteggi che giravano ieri dicevano che la maggioranza può contare su un margine di 25-30 voti di scarto. Aumenterà? Diminuirà? Difficile dirlo ora. Dalle parti della maggioranza sono abbastanza tranquilli e si preparano alla prossima mossa: portare la legge in Senato la settimana prossima, chiudere a ritmi record. Magari con fiducia pure a Palazzo Madama. Mentre si fa strada un’altra idea: votare – con fiducia – anche lo ius soli, prima della sessione di bilancio, che inizia il 27 ottobre.
Le ultime 48 ore sono state convulse, e complicate soprattutto per Palazzo Chigi. In questi giorni, Paolo Gentiloni è stato in contatto continuo sia con Renzi che con Mattarella. Fino a lunedì sera, come raccontano deputati del Pd, ha resistito all’opzione fiducia. D’altra parte aveva sempre detto che “il tema della legge elettorale è principalmente del Parlamento, ci limiteremo ad accompagnare e facilitare il percorso”. Il pressing del Pd è stato continuo: il canguro, ovvero l’emendamento soppressivo, non bastava. I voti segreti, secondo Ettore Rosato, capogruppo dem che ha avuto da Renzi il compito di portare la legge fino alla fine, a tutti i costi, erano circa 120. Così, ieri mattina il Nazareno è partito in pressing. “È opportuno che Gentiloni ponga la fiducia”, ha detto lo stesso Rosato in mattinata. I capigruppo di maggioranza erano d’accordo con lui, come gli altri sostenitori della legge. Il pressing c’è stato da più parti: si è attivata pure Maria Elena Boschi. A ora di pranzo, il Quirinale ha fatto filtrare di considerare positivo l’impegno del Parlamento, pur non esprimendosi né nel merito, né sulla fiducia.
Il Cdm è durato mezz’ora. Andrea Orlando, Guardasigilli, si è alzato per dire che secondo lui – prima di mettere la fiducia – bisognava almeno convocare Mdp e cercare una mediazione su alcuni punti del testo. Gentiloni è stato possibilista. Ma è toccato a Marco Minniti e Maurizio Martina bloccarlo, sostenendo che quella che veniva richiesta al governo era una decisione “tecnica”, non politica. E così il Cdm ha deciso. Con Gentiloni che si è intestato una scelta non sua. Giorgio Napolitano – che ha espresso qualche riserva sulla legge – non pensava si sarebbe arrivati rapidamente a questa scelta. È finita la tregua: in questi mesi il Pd renziano non ha mai davvero creato problemi al premier, ora sta facendo sentire la sua pressione. L’accelerazione sulla legge elettorale potrebbe portarsi dietro lo scioglimento delle Camere dopo la legge di Bilancio e il voto a marzo. Questa è la strategia di Renzi, con Mdp spinta verso un’opposizione più dura, lo scenario diventa concreto.

Il Fatto 11.10.17
“Stanno forzando le regole per una legge imbarazzante”
Gaetano Azzariti - “Usano in modo disinvolto i regolamenti parlamentari. Peggio pure dell’Italicum: chiedono una finta fiducia anche all’opposizione”
di Tommaso Rodano

“Porre la fiducia sulla legge elettorale significa svilire ancora, ulteriormente, i concetti su cui è fondato il diritto parlamentare”. Gaetano Azzariti, professore di Diritto costituzionale a La Sapienza di Roma, osserva con crescente perplessità la partita politica sul cosiddetto Rosatellum. “C’è un uso disinvolto e opportunistico dei regolamenti parlamentari”. Si forzano le regole, sottolinea Azzariti, per far passare una legge “tecnicamente e politicamente imbarazzante”.
Non è la prima volta che un governo chiede la fiducia sulla legge elettorale.
Ci sono precedenti storici, ma sono piuttosto inquietanti: la legge Acerbo nel ’23 (quella voluta da Mussolini per prendere possesso del Parlamento, ndr) e la “legge truffa” nel ’53, altrettanto controversa. Di recente c’è stato l’Italicum, prima che fosse abolito.
Perché la definisce una forzatura delle regole?
I princìpi sono quelli dell’articolo 72 della Costituzione, ultimo comma: alcune materie, tra cui la legge elettorale, devono seguire il procedimento ordinario. La fiducia non dovrebbe essere contemplata. In questo caso la forzatura è ancora più grave.
Perché?
Stavolta si usa la fiducia per chiedere il voto non solo di chi sostiene il governo, ma pure di parte dell’opposizione. È un tradimento dell’istituto della fiducia parlamentare. Se ne dovrebbe dedurre che da domani Salvini e Berlusconi (favorevoli al Rosatellum, ndr) entreranno in maggioranza. Ovviamente non è così. È un inganno.
La definiscono “fiducia tecnica”.
La fiducia tecnica non esiste in Costituzione. Un escamotage linguistico non cancella la stortura delle norme. Si forzano i regolamenti parlamentari. Utilizzare un espediente tecnico per aggirare un problema politico – la paura del voto segreto – è la dimostrazione di quanto siano disinvolti i soggetti in questione.
Secondo Felice Besostri, la scelta della presidente Boldrini di concedere la fiducia incide negativamente sul prestigio della terza carica dello Stato. Concorda?
Non voglio personalizzare. La presidenza della Camera ha le sue responsabilità, ma quelle del governo non sono minori: la fiducia viene chiesta dal consiglio dei ministri, che si è riunito su richiesta di un partito politico. Prima il presidente del Consiglio Gentiloni sosteneva – a mio avviso correttamente – che la legge elettorale fosse responsabilità del Parlamento. Avrà cambiato idea.
Il Rosatellum per lei è incostituzionale?
Non pronuncio sentenze che spettano alla Corte, ma penso sia una legge che non serve al sistema politico, ma solo a garantire gli interessi di alcuni partiti, quelli che hanno stipulato il patto. Non è una buona impostazione.
E nel merito?
Ci sono evidenti contraddizioni interne. La più grave: i collegi uninominali sono una forma d’inganno. Non sono reali. Avendo impedito il voto disgiunto, è chiaro che i collegi uninominale sono collegati alla parte proporzionale: il candidato del collegio è in realtà il capolista di più collegi proporzionali. È una forma d’inganno. In ogni caso l’elettore potrà scegliere ben poco.
Il Rosatellum conduce alla grande coalizione.
Certamente non è una legge che ha l’obiettivo della governabilità. Peraltro, in un sistema tripolare è impossibile perseguire la governabilità assoluta. È stato sfatato il mito del governo che si forma il giorno dopo le elezioni. Ripeto: questo sistema di voto non è espressione di un pensiero definito, ma solo del bisogno di avvantaggiare i partiti che l’hanno scelto. Una legge di opportunità e non di sistema.
In un sistema tripolare, come dice lei, qual è la legge più adatta?
Se i partiti avessero avuto coraggio avrebbero optato per una legge proporzionale. Le due sentenze della Consulta hanno stabilito che c’è un limite alla forzatura maggioritaria. Non si può forzare la mano, in un sistema tripolare, confuso e conflittuale. Oggi l’unico sistema equilibrato sarebbe quello che garantisse la maggiore proporzionalità. Sarebbe l’unico a restituire il conflitto e le divisioni esistenti nella società. Risolvere il problema della governabilità spetta a un Parlamento pienamente legittimato. Dopo le elezioni, non prima.

Il Fatto 11.10.17
“Mattarella non si lasci coinvolgere”
Libertà e giustizia - “Operazione per distorcere la volontà popolare”
“Mattarella non si lasci coinvolgere”

Nel 2014, per la prima volta, la Consulta ha dichiarato incostituzionale la legge elettorale. In nome del principio della continuità dello Stato la sentenza non ha travolto deputati e senatori eletti l’anno precedente, ma ha comunque sancito espressamente la rottura del rapporto di rappresentanza tra i parlamentari e il corpo elettorale. In poche parole, ha sancito la non rappresentatività del Parlamento attualmente in carica.
Ciononostante, la maggioranza parlamentare non si è fatta scrupolo di abusare dei numeri che l’avevano incostituzionalmente resa tale, riscrivendo a proprio vantaggio le regole del sistema istituzionale. Un tentativo vanificato da un doppio fallimento: la bocciatura referendaria della riforma costituzionale e l’incostituzionalità anche della nuova legge elettorale.
Oggi, incredibilmente, ci risiamo. Ancora una volta una maggioranza parlamentare non rappresentativa degli italiani prova a imporre una legge elettorale segnata da astuzie e forzature: mancanza di un chiaro principio ispiratore, divieto del voto disgiunto, ripartizione pro-quota del voto maggioritario tra i partiti della coalizione nel proporzionale, ritorno delle liste-civetta, candidature plurime, liste bloccate… Alla base, un patto apertamente rivolto a danneggiare le forze politiche lasciate escluse e a privare i cittadini del potere di determinare la composizione del futuro Parlamento. Il risultato che si va costruendo sotto i nostri occhi è talmente artificioso e incomprensibile che gli stessi fautori della legge non hanno potuto evitare il ridicolo di prevedere l’inserimento nella scheda elettorale di istruzioni per l’uso agli elettori!
Da più di dieci anni i partiti elaborano leggi elettorali rivolte non ai cittadini, ma esclusivamente a se stessi. Non mirano a valorizzare la volontà popolare, ma a distorcerla a loro favore. Non si interrogano su quale strumento sia più adeguato alle esigenze sociali, ma su quello più utile ai loro regolamenti di conti. È ora di dire basta.
I vertici istituzionali hanno il dovere di garantire il corretto rispetto delle regole della competizione politica. Vogliamo credere che questa volta le presidenze delle Camere sapranno difendere il dettato costituzionale respingendo l’inammissibile pretesa del governo di apporre la fiducia sulla legge elettorale. E vogliamo credere che questa volta il Presidente della Repubblica non accetterà di farsi coinvolgere in un’operazione finalizzata, a pochi mesi dal voto, a predefinire incostituzionalmente il risultato delle elezioni a discapito della volontà degli elettori.

Il Fatto 11.10.17
Bersani in piazza per “smacchiare” il nuovo Nazareno
Mdp esce dalla maggioranza, al Senato governo salvato ancora da Berlusconi e Verdini. Oggi protesta Art.1 e 5Stelle
di Luca De Carolis

Fuori dalla maggioranza, una volta per tutte. E anche dal Nazareno, risorto ieri sera in carne e inciucio in Senato, con Forza Italia e verdiniani che salvano il governo uscendo in massa dall’aula. La fiducia posta sulla legge elettorale “libera” Articolo 1- Mdp, sganciandolo una volta per tutte dal governo Gentiloni. E lo proietta in piazza a Roma, dove questo pomeriggio i vari pezzi della sinistra non dem si riuniranno davanti al Pantheon, per una manifestazione contro il Rosatellum che potrebbe pure essere la foto di una lista o coalizione rossa prossima ventura. Un’ipotesi, nel giorno delle certezze. Perché il Pd e il governo che vanno dritti sulla fiducia ignorano Mdp, contrarissimo, escludendolo dalla riunione di maggioranza in mattinata.
Così gli danno la ragione anche formale per svincolarsi. E l’addio lo siglano indirettamente Pier Luigi Bersani e Roberto Speranza, via Twitter: “Domani tutti in piazza alle 17.30 per la democrazia”.
Con loro Sinistra italiana e Possibile. E anche Anna Falcone, volto e motore dei Comitati del No, (mentre Tomaso Montanari è fuori per lavoro). “Però nessuno l’aveva avvertita” fanno notare dai Comitati, che comunque saranno in piazza con i loro striscioni. Anzi, nelle piazze, perché alle 13 davanti a Montecitorio protesteranno i 5Stelle con i parlamentari e gli iscritti chiamati alle armi da tutte Italia, evento che replicheranno domani. Dovrebbe esserci anche Beppe Grillo, probabilmente giovedì. I Comitati vogliono aggregarsi, “perché questa è una battaglia senza bandiere”.
Però prima delle manifestazioni c’è lo strappo dei bersaniani. Con il senatore renzianissimo Andrea Marcucci che la prende male: “Mdp fa la prova da neo Rifondazione”. Non a caso, perché proprio in quei minuti la faglia tra bersaniani e governo si palesa in Senato, con Articolo 1 che vota sì a due emendamenti della Lega sulla legge europea, mandando sotto il governo. È il varco del Rubicone. Sufficiente per provocare le palpitazioni alla maggioranza, che mentre tutti guardano a Montecitorio si ritrova a doversi coprire dal tonfo a Palazzo Madama.
Dal Pd parte il giro di contatti con forzisti e verdiniani, mentre la capogruppo di Mpd in Senato Cecilia Guerra annuncia l’astensione nel voto finale, che a Palazzo Madama vale come un no. “La maggioranza di governo ha il dovere di sostenere la legge europea, lo faccia” scandisce. E sono i saluti. “Siamo fuori dalla maggioranza, la legge elettorale è un attentato alla democrazia” certifica Federico Fornaro, mentre i telefoni nel Palazzo bollono. Per qualche minuto i 5Stelle sperano nel capitombolo. “Governo e maggioranza scricchiolano” twitta il senatore Vito Petrocelli. Ma il Nazareno è grande, e Berlusconi ovviamente è il suo profeta. “Da forza politica di opposizione, abbiamo deciso di non partecipare ai voti che riguarderanno le fiducie chieste dall’esecutivo” rende noto il capo di Forza Italia. Così Fi in Aula annuncia l’astensione per salvare la faccia, ma sui banchi in Senato è improvvisa morìa di berlusconiani, per abbassare la soglia numerica di sopravvivenza. Ovvero, per fare da stampella al governo senza dover votare il testo. Veterano com’è, Denis Verdini fa uscire pure i suoi (pochi, in verità), mentre la maggioranza racimola ministri tra cui un trafelato Marco Minniti. Alla fine la legge passa, mentre il sottosegretario agli Esteri Sandro Gozi inveisce contro “l’atteggiamento irresponsabile di Mdp”. Fornaro non fa una piega: “Li lasciamo ai loro accordi con Fi”. Mentre Miguel Gotor picchia: “I deputati del Pd sono pecore che vanno al macello, solo Marco Meloni (lettiano, ndr) ha avuto il coraggio di annunciare il no alla legge elettorale”. Oggi, le piazze. Tutte diverse, e tutte contro il governo. Da ieri, senza un pezzo.

Il Fatto 11.10.17
Esclusivo: ecco a voi l’agenda con le prossime mediazioni di Pisapia
di Alessandro Robecchi

L’abilità di Giuliano Pisapia come mediatore è ormai nota nel mondo e oggetto di grande ammirazione. Al termine di una complessa operazione di intelligence, il Fatto Quotidiano, in collaborazione con il mago Otelma e Belfagor, è in grado di anticipare le prossime mosse di Pisapia, volte a portare pace e stabilità sul pianeta.
13 ottobre. Pisapia riunisce Spagna e Catalogna. Trasportato in una località segreta con un furgone della Guardia Civil, Giuliano Pisapia ha messo in campo le sue doti di mediatore nella grave crisi spagnola. L’incontro è iniziato alle 14. Alle 15.30 l’Andalusia ha proclamato l’indipendenza, alle 16 le Asturie hanno fondato un impero e Alicante ha chiesto l’annessione all’Honduras. L’incontro si è concluso cordialmente, e Pisapia è stato subito riaccompagnato al confine e ringraziato del suo generoso tentativo.
17 ottobre. Pisapia si offre all’Atalanta come mediatore tra reparti, nel ruolo di trequartista. Malumore tra i tifosi. Sette giocatori chiedono asilo politico al Milan, si dimette l’allenatore. Pisapia ringrazia della disponibilità al dialogo e si allontana velocemente.
26 ottobre. Pisapia risolve il caso Cesare Battisti. Grazie alla mediazione di Giuliano Pisapia l’annosa questione dell’estradizione di Cesare Battisti dal Brasile è risolta: lui verrà estradato e Pisapia andrà in Brasile. Favorevoli Pd, Mdp, Si, Calenda e suo cugino, quel che resta dei montiani, i verdiniani incensurati e tutti gli altri. Contrario Pisapia, che ci ripensa e ritira l’offerta.
30 ottobre. Chiamato dai vicini a notte fonda in un bilocale della Bovisa, a Milano, Giuliano Pisapia ha mediato fino all’alba in una lite tra coniugi, cercando di avvicinare le posizioni e di evitare che si passasse alle vie di fatto. Grazie alla sua mediazione, la lite si è sviluppata in tutto il palazzo per poi propagarsi nel quartiere, con saccheggi e incendi. Tutti hanno lodato il generoso tentativo di Pisapia, ma lo hanno pregato di allontanarsi.
3 novembre. Pisapia si offre al Pd per mediare con gli elettori del Pd. Un generoso tentativo rimasto inascoltato.
4 novembre. Pisapia interviene nella vertenza Ilva proponendo una mediazione di buon senso. Invece che quattromila esuberi e diecimila lavoratori pagati meno, suggerisce diecimila esuberi e quattromila lavoratori pagati meno. Al termine della trattativa lascia Taranto nottetempo, travestito da donna, nel bagagliaio di un’auto.
5 novembre. Congresso: pandoro o panettone in vista del Santo Natale? Giuliano Pisapia si offre come mediatore nella storica faida che divide le famiglie italiane.
10 novembre. Pisapia si offre a Mdp per mediare con gli elettori di Mdp. Un generoso tentativo ancora da valutare.
12 novembre. Pisapia e la crisi coreana. Forte della sua fama nella composizione dei conflitti, Giuliano Pisapia si è offerto di mediare tra Donald Trump e Kim Jong-un, proponendosi per colloqui di distensione. Semplice il piano di lavoro: i coreani potranno tenersi le atomiche ma dovranno diventare americani e dimostrarlo nel modo più lampante: sparandosi addosso spesso tra loro. Prime razioni: la Corea ha lanciato seicento missili in mare e il Pentagono ha spostato tre portaerei nel golfo di Laigueglia. Pisapia è tornato in Italia, lodato per il generoso tentativo.
20 novembre. Pisapia si offre come mediatore tra tutti i giornali che insultano D’Alema e gli altri giornali, quelli che insultano D’Alema. Per una volta la mediazione riesce.
26 novembre. Il governo messicano e i narcos firmano finalmente un comunicato congiunto: chiedono a Giuliano Pisapia di rinunciare alla sua pur generosa opera di mediazione nella guerra che insanguina il Paese per non peggiorare la situazione.
30 novembre. Avviata la mediazione di Giuliano Pisapia con gli elettori di Pisapia: dalle 15 alle 15.10 ha telefonato a tutti.

Il Fatto 11.10.17
Aspettando quelli che aspettano Pisapia
Il circo - Mentre i leader litigano, gli elettori sono in attesa di poter scegliere quale sinistra non andare a votare
di Francesca Fornario

Pisapia e Bersani, dopo un’estate passata a dichiarare che avevano avviato un confronto per verificare la possibilità di valutare l’ipotesi di contemplare l’eventualità dell’opzione di convergere verso un percorso unitario, prendono strade diverse. “Sulla manovra è scontro tra i deputati di Pisapia e Mdp”, titolano i giornali: i primi confermano il sostegno a Gentiloni mentre i secondi non vogliono farlo cadere. Ah.
Pisapia saluta Speranza: “Non mi interessa un partitino del 3% (come quello che lo ha candidato sindaco, ndr
), ho sempre lavorato per una forza ben più vasta”. Il Pd. Ribadisce che a sinistra serve un soggetto plurale, non divisivo, inclusivo senza Bersani, Speranza, D’Alema, Fratoianni, Falcone, Montanari, Acerbo… Un soggetto “sfidante” e non “nemico” del Pd, perché “Il nostro nemico è il centrodestra”: l’alleato del Pd.
“Un campo aperto alle soggettività democratiche e cattoliche”, spiega, perché “democratiche e cristiane”, gli avranno fatto notare Tabacci, Letta e Prodi, avrebbe rovinato agli elettori l’effetto-sorpresa.
Mdp accusa Pisapia di essersi tirato indietro, ma quello non si era mai fatto avanti. L’errore è averlo aspettato. Sono mesi che Pisapia – avrebbe potuto spiegare a Bersani qualunque adolescente – si comporta come quello che vuole farsi lasciare. Insistendo a dire “con grande chiarezza” che non va con il Pd e non va senza il Pd. Ha partecipato, riluttante, a qualche festa in piazza con Bersani che lo aveva incoronato leader del soggetto che erano due, ma non si è presentato al Brancaccio da Falcone e Montanari che invocavano il Quarto Polo a Sinistra del Pd: “Non mi interessa”.
Si è sfilato dalla contesa elettorale in Sicilia per non dover sostenere il candidato di Mdp, Possibile, Sinistra Italiana e Rifondazione comunista (ex partito di Pisapia) contro il Pd.
Si rassegnerà infine all’alleanza con il Pd inscritta in una legge truffa che favorisce le ammucchiate e non le coalizioni, non prevedendo per i mucchi l’obbligo di avere un programma comune.
Il quarto polo esulta “fine delle ambiguità, Mdp ha scelto da che parte stare”, ma le dichiarazioni degli esponenti di Mdp non sono affatto di rottura con la prospettiva del centrosinistra. D’Alema: “Con Giuliano ci ritroveremo, abbiamo lo stesso obiettivo: ricostruire il centrosinistra”. D’Attorre: “Mi auguro che Pisapia ci ripensi e che torni da protagonista”. Speranza: “Pisapia è naturalmente protagonista di questa storia e spero ci sia, la mia cultura politica è di centrosinistra, non mi interessa una svolta identitaria”. Come Pisapia, lo esplicitano chiaramente: le loro strade si dividono ma tutte portano al centro. In un momento in cui – è conclamato in tutto l’occidente – la sinistra guadagna consensi se va a sinistra. È per questo che Pisapia così come Mdp che ancora aspetta Pisapia così come Possibile e Sinistra Italiana che ancora aspettano Mdp che ancora aspetta Pisapia sono l’unica sinistra in Europa che rischia di non entrare in Parlamento, pur essendo ogni giorno sulle prime pagine e in tv.
Anzi, per quello: agli esodati, ai precari, ai mal pagati a voucher, agli operai licenziati e riassunti col Jobs act, agli studenti messi a friggere patatine in un fast-food in alternanza scuola-lavoro, agli insegnanti con la pensione posticipata, ai facchini spazzati via con gli idranti durante gli scioperi, ai delusi dal centrosinistra non interessa poter scegliere tra Pisapia e Bersani: poter scegliere per quale centrosinistra non andare a votare.
Saranno poco sofisticati, ma la pensano come gli altri sfruttati che hanno creduto a Podemos, a Corbyn a Mélenchon: vogliono mandare a casa quelli che ci hanno governato negli ultimi 20 anni. Compresi quelli che ci hanno governato negli ultimi 20 anni.

La Stampa 11.10.17
Una riforma pagata a caro prezzo
di Marcello Sorgi

Va detto subito: la decisione di Gentiloni (e soprattutto di Renzi) di porre la fiducia sul Rosatellum è una forzatura. La legge elettorale è la più politica delle leggi, la principale delle regole del gioco ed è sempre meglio che sia il Parlamento a decidere in materia, e non il governo a imporsi. La fiducia - che cancella gli emendamenti e le 160 votazioni in cui pezzi di maggioranza si sarebbero potuti unire a pezzi di opposizione approfittando dello scrutinio segreto -, in Italia è spesso l’unico strumento che l’esecutivo ha per realizzare le proprie scelte, di fronte a coalizioni divise, riottose o in via di liquefazione, com’è ormai quella attuale, al termine della legislatura.
Ed è un modo - legittimo, beninteso, ancorché non ordinario - di coartare la volontà del Parlamento, ponendogli l’alternativa secca tra approvare un testo o provocare la crisi di governo. Era stato lo stesso Gentiloni, del resto, a dichiarare che non sarebbe intervenuto sulla legge elettorale, lasciando che fossero le Camere a occuparsene. Di qui appunto la doppia forzatura: la fiducia posta su una materia delicata, di stretta competenza parlamentare come la legge elettorale, e per di più al di fuori del programma concordato con la propria maggioranza.
Premesso questo, forse bisognerebbe chiedersi cosa ha spinto a forzare il governo, e sottinteso il Quirinale, la cui condivisione era necessaria per avviare il percorso stabilito. E prima ancora, farsi un’altra domanda: sarebbe stato meglio abbandonare anche il Rosatellum, dopo l’affondamento del Tedeschellum a giugno, in balia dei franchi tiratori, che già si preparavano alle loro scorribande, o adoperare tutti i mezzi possibili per ottenere che la legislatura non si concluda senza aver varato una nuova legge elettorale? In mancanza della quale, ricordiamolo, si sarebbe andati a eleggere le nuove Camere con i due differenti moncherini del Porcellum e dell’Italicum, lasciati in vita dalla Corte costituzionale nel timore di un’emergenza. Oltre a produrre risultati diversi per Camera e Senato, eventualità purtroppo già verificatasi in precedenti elezioni politiche, non solo nel 2013, la combinazione dei due sistemi elettorali avrebbe determinato con assoluta certezza l’assenza di maggioranze, sia a Montecitorio sia a Palazzo Madama. I lodatori del ritorno al proporzionale e ai «bei tempi» dei governi che nascevano in Parlamento, questo avrebbero dovuto considerarlo: nella Prima Repubblica, infatti, le maggioranze e le coalizioni parlamentari erano in qualche modo obbligate dalla massiccia presenza del Partito comunista, escluso per ragioni di quadro internazionale dalla prospettiva del governo. Oggi invece un Parlamento non in grado di dar vita a un governo e a una maggioranza, o capace di esprimerne di incerti, navigherebbe sul filo dello scioglimento e di molteplici richiami alle urne, com’è accaduto di recente in Spagna, con conseguenze (vedi la secessione della Catalogna) determinate dalla debolezza di un esecutivo di minoranza.
Nel merito, il Rosatellum è tutto fuorché un toccasana, e non è sicuro (anche se è possibile) che sia in condizione di condurre i cittadini a esprimere un chiaro indirizzo che porti a un esecutivo stabile. Aver rinunciato al sistema maggioritario - che in tutta Europa consente agli elettori di scegliersi i governi, e in Italia, grazie al doppio turno contenuto nell’Italicum e purtroppo dichiarato incostituzionale, avrebbe messo anche gli italiani in condizione di decidere -, ha portato Gentiloni a un bivio complicato: rassegnarsi al proporzionale, con la confusione che ne sarebbe seguita, o acconciarsi al compromesso del Rosatellum, un mix assai edulcorato di maggioritario e proporzionale (solo un terzo dei parlamentari saranno eletti in collegi uninominali), aggravato dall’imposizione finale della fiducia per approvarlo. Una forzatura innegabile e forse incancellabile, dopo quella analoga e assai contestata di Renzi sull’Italicum; ma resa necessaria, come s’è visto, dal corso delle cose. Che porterà infine, c’è da scommetterci, il testo della nuova legge, se approvata, per la terza volta all’esame della Corte costituzionale; ed esporrà anche il prossimo Parlamento, se eletto con il Rosatellum, al rischio di veder messa in dubbio la propria legittimità. Dopo quasi cinque anni, dal punto di vista politico-istituzionale e delle regole del gioco, l’Italia si avvia così a uscire da questa legislatura peggio di come ci era entrata. Avremo, sì, una legge elettorale: almeno questa. Ma a che prezzo.

Corriere 11.10.17
Richiesta danni da 400 milioni agli ex vertici di Banca Etruria
di Federico Fubini e Fiorenza Sarzanini

Gli ex consiglieri e sindaci di Banca Etruria sono stati citati davanti al tribunale civile di Roma per i danni causati dalla loro cattiva gestione. Il risarcimento richiesto dal liquidatore, con il via libera di Bankitalia, supera i 400 milioni. Si tratta di 37 persone che hanno governato la banca dal 2010 fino al crac. Tra loro anche l’ex vicepresidente Pierluigi Boschi, padre della sottosegretaria Maria Elena. I manager, accusati di aver depauperato il patrimonio dell’istituto, dovranno presentare le memorie difensive.
ROMA Gli ex amministratori di Banca Etruria sono stati chiamati in giudizio per risarcire i danni causati dalla loro cattiva gestione. Il liquidatore Giuseppe Santoni li ha citati davanti al tribunale civile di Roma per una cifra che supera i 400 milioni di euro. In tutto si tratta di 37 persone: i sindaci e i componenti dei tre consigli di amministrazione che si sono avvicendati dal 2010. Tra loro Pier Luigi Boschi, il padre del sottosegretario Maria Elena, che a partire dal 2014 era vicepresidente insieme ad Alfredo Berni quando l’istituto di credito era guidato da Lorenzo Rosi. Ma anche i loro predecessori quando al vertice c’era Giuseppe Fornasari.
La società di revisione
Tra gli obiettivi della causa civile c’è la possibilità di poter utilizzare il denaro proveniente dagli eventuali indennizzi per gli obbligazionisti subordinati. Vuol dire che l’azione di responsabilità mira a ottenere i fondi necessari a ristorare i creditori che hanno subito perdite quando — era il novembre 2015 — il governo decise di mettere in liquidazione le quattro banche: oltre ad Etruria, CariChieti, CariFerrara e Banca Marche. Ai giudici spetterà pure il compito di valutare l’attività della società di revisione PriceWaterhouseCoopers.
L’iniziativa di Santoni coinvolge Ubi Banca perché al momento dell’acquisto ha firmato una clausola contrattuale che le imponeva di aderire all’eventuale giudizio. Adesso — dopo la notifica dell’atto che potrebbe avvenire nelle prossime ore — saranno i manager a dover presentare proprie memorie difensive, tenendo conto che in caso di accoglimento del ricorso la maggior parte rischia di dover pagare più di 10 milioni di euro e dunque di subire il pignoramento dei beni.
La prima lettera
Risale al marzo del 2016 la lettera spedita da Santoni ai 37 ex manager ritenuti responsabili del grave dissesto. In quella lista erano stati inseriti anche gli eredi dei consiglieri che nel frattempo sono deceduti. Con la missiva il commissario liquidatore concedeva 30 giorni di tempo per versare 300 milioni di euro di indennizzo «in solido». La base di partenza era dunque una richiesta di 8,1 milioni di euro ciascuno, da liquidare anche con beni immobili, autovetture, titoli azionari.
Sembra evidente che un anno e mezzo è trascorso invano e dunque si è deciso di procedere con l’istanza depositata in tribunale. Dell’iniziativa è stato informato il Fondo di Risoluzione presso la Banca d’Italia, proprio come era già accaduto per gli altri tre istituti di credito oggetto del decreto del governo.
Le tre contestazioni
I tre motivi che hanno convinto Santoni a procedere sono elencati nel ricorso, ma erano stati già anticipati nella lettera. In particolare secondo il liquidatore a provocare il «buco» nei bilanci di Etruria erano stati i comportamenti dolosi degli amministratori, ma anche quelli colposi. E sarebbe stato proprio questo secondo aspetto a far lievitare ulteriormente la cifra indicata un anno e mezzo fa. In particolare i componenti dei Cda e i sindaci avrebbero erogato mutui e finanziamenti senza richiedere le necessarie garanzie e — in alcuni casi — «anche in conflitto di interessi». Oltre a sottolineare le iniziative di «indebito e illecito ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia», Santoni contesta ai vertici dell’Istituto aretino di non aver dato seguito all’input di palazzo Koch che raccomandava la fusione con un partner affidabile che invece non ha avuto seguito. E questo nonostante fosse arrivata un’offerta, ritenuta vantaggiosa, dalla Banca popolare di Vicenza.
In questo quadro si inseriscono le consulenze inutili e quegli incarichi affidati a manager interni che però non hanno fornito risultati. Non a caso nella lettera inviata un anno e mezzo fa Santoni parlava di «depauperamento del patrimonio sociale» attraverso «numerose iniziative contrarie alla prudente gestione», ma anche i «rilevanti premi aziendali non dovuti». La relazione di Santoni allegata alla richiesta di messa in liquidazione di Etruria parlava di almeno 17 milioni elargiti per pagare senza motivo esperti esterni.

Corriere 11.10.17
«Anni di negazione alla Spagna servirebbe uno psicanalista»
di E. Ro.

BARCELLONA «Cerco di ascoltare tutti. Ho amici appassionatamente a favore dell’indipendenza e altri assolutamente contrari. E tutti sono persone razionali, aperte, pacifiche. Ma c’è qualcosa che mi sfugge, e che non mi piace». Quasi trent’anni di vita a Barcellona, due figli nati e cresciuti qui, non bastano all’architetto Benedetta Tagliabue per comprendere come si sia potuti arrivare a una battaglia per l’indipendenza fra gente tanto civile.
Se l’Italia avesse una portabandiera in Catalogna, sarebbe probabilmente lei, l’architetto che ha contribuito a renderla più bella: lo studio fondato col marito e collega catalano Enric Miralles, scomparso nel 2000, ha rinnovato il mercato di Santa Caterina, ha disegnato la Torre Mare Nostrum, il Parco Diagonal Mar: «Barcellona è la mia casa, il luogo in cui voglio tornare. Sono italiana, ma mi sento offesa, come tanti catalani, dal modo in cui sono state ignorate per anni le loro richieste. Ho l’impressione che si sia arrivati fino a questo punto perché Madrid lo ha voluto».
Dunque i catalani meritano l’indipendenza?
«Non voglio esprimermi. Ma conosco i catalani: sono pieni di passione per la loro lingua, la loro cultura, la loro storia. E tutto ciò non può essere sottovalutato. Non è possibile lasciare due milioni di persone a favore dell’indipendenza senza risposta».
Molti spagnoli hanno l’impressione che i catalani soffrano di un complesso di superiorità.
«Non parlerei di un senso di superiorità, piuttosto di orgoglio resistente. La Catalogna ha vissuto anni di grande difficoltà».
Allude alla Guerra civile?
«Sì. Quando venni a Barcellona per la prima volta mio marito mi spiegò che, dopo la morte di Franco, l’equilibrio della Spagna reggeva su una specie di patto del silenzio: non se ne parlava più. E adesso ci vorrebbe uno psicanalista per sciogliere quei nodi che continuano a dividere gli spagnoli».
Da imprenditrice è preoccupata dalla fuga di banche e imprese?
«Sì, sicurezza e stabilità sono i requisiti fondamentali per gli investitori. I catalani hanno molto senso pratico, ma forse stanno prendendo la questione con troppa allegria. La passione rende ingenui».

il manifesto 11.10.17
Al via al Cairo i colloqui decisivi per la riconciliazione Fatah-Hamas
Palestinesi. Sul tavolo i poteri del governo Hamdallah a Gaza, le elezioni e, più di tutto, la sicurezza. Le armi in possesso della milizia di Hamas sono il nodo che deciderà il successo o il fallimento di questo tentativo di riconciliazione
di Michele Giorgio

GERUSALEMME Le elezioni, il rapporto tra il governo palestinese in carica e la struttura amministrativa di Hamas a Gaza, la futura Olp e la sicurezza. Questi i temi principali sul tavolo ieri al Cairo alla ripresa dei colloqui tra i delegati del partito Fatah, guidato dal presidente Abu Mazen, e quelli del movimento islamico Hamas. Obiettivo: applicare i punti dell’accordo di riconciliazione nazionale palestinese del 2011 e mettere fine ad uno scontro interno che dura da oltre dieci anni. Il faccia a faccia nella capitale egiziana è avvenuto ad una settimana dal ritorno a Gaza del premier dell’Autorità nazionale palestinese Rami Hamdallah e dei suoi ministri, in seguito alla disponibilità manifestata dalla leadership di Hamas di accogliere alcune delle condizioni poste da Abu Mazen per la ripresa del dialogo.
In entrambe le delegazioni, giunte lunedì notte al Cairo, spicca la presenza dei capi dei rispettivi servizi di sicurezza. Se quella di Fatah è guidata, ancora una volta, da Azzam al Ahmad, ad avere il ruolo principale è comunque Majd Faraj, il comandante dell’intelligence dell’Anp. Dall’altra parte il protagonista è il capo di Hamas a Gaza, Yahya Sinwar, uno dei fondatori del braccio armato del movimento islamico, le Brigate Ezzedin al Qassam, e interlocutore diretto di Mohammed Deif, il comandante militare di Hamas. A mediare c’è l’Egitto con finalità al momento non chiare. Ieri il presidente Abdel Fattah al Sisi, con una nota diffusa dal suo ufficio, ha precisato che «l’iniziativa egiziana è stata avviata per raggiungere l’unità dei palestinesi che porterà a una pace giusta con Israele».
Le armi in possesso della milizia di Hamas sono il punto critico che deciderà il successo o il fallimento di questo nuovo tentativo che Fatah e Hamas fanno per mettere fine allo scontro interno e alla separazione tra Cisgiordania e Gaza. Gli islamisti hanno messo in chiaro che quelle armi non si toccano e resteranno sotto il controllo di Hamas. Fatah è diviso. Non mancano nel partito di Abu Mazen i sostenitori della flessibilità verso Hamas in nome dell’unità nazionale – tra questi il capo di Fatah in Cisgiordania, Marwan Barghouti, detenuto in Israele – accanto a coloro che invece si oppongono all’idea di due distinte forze militari: una dell’Anp in Cisgiordania e un’altra di Hamas a Gaza. Abu Mazen vuole un’unica sicurezza, sotto la sua autorità. E così pensa anche Jibril Rajoub, uno dei leader di Fatah. Le altre formazioni politiche palestinesi spingono per un compromesso. «Non voglio che Hamas rinunci alla propria milizia – ha detto ai giornalisti Mustafa Barghouti, capo del partito di opposizione Mubadara – perché è un sistema a protezione degli abitanti di Gaza». Gli israeliani, ha aggiunto «ne hanno uno tra i più potenti al mondo e posseggono anche testate nucleari. Quindi perché Hamas dovrebbe rinunciare al suo?». Barghouti si è detto a favore dell’invio a Gaza di truppe dell’Onu per garantire protezione alla popolazione civile.

Corriere 11.10.17
Il declino degli stati europei
di Ernesto Galli della Loggia

Quelli che sto per citare sono certamente fenomeni di natura nuova e assai diversa tra di loro. Ma le grandi rotture storiche nascono per l’appunto così: da una molteplicità di cause quasi sempre nuove, all’apparenza slegate, che a un tratto per qualche ragione si sommano convergendo verso un solo risultato. Ora, ho l’impressione che qui in Europa — in particolare nella sua parte occidentale — proprio una cosa del genere potrebbe forse oggi essere in incubazione: una rottura storica. Una rottura che va producendosi sotto i nostri occhi ma senza che noi ce ne rendiamo conto.
Si tratta solo di un’impressione, come ho detto, suffragata da null’altro che da indizi, e alla quale concorre di certo in misura notevole l’atmosfera che si respira intorno a noi: un’atmosfera di declino, di sfilacciamento, dove si mischiano assenza di prospettive individuali e pubbliche, vincoli sociali non più accettati né riconosciuti, classi dirigenti incolte e inconsapevoli del proprio ufficio, ceti sociali privi d’identità — il tutto all’insegna di una crescente inquietudine destinata a rafforzarsi se si pone mente, per l’appunto, ai fenomeni di cui dicevo all’inizio.
Innanzi tutto alla diffusa presenza in molti Paesi di combattive minoranze più o meno «nazionali» che ambiscono a staccarsi dallo Stato di cui finora facevano parte per costituirne un altro per conto loro. Non si tratta solo della Catalogna, come si sa.
Un po’ dappertutto nell’Europa occidentale — dai Paesi Baschi, alla Bretagna e alla Corsica, al Fronte fiammingo in Belgio, alla Scozia, alle Isole Fær Øer in Danimarca, fino al più casereccio autonomismo leghista di casa nostra — sono sorti e prosperano movimenti del genere, mentre si nota un diffuso appannarsi del senso di appartenenza allo Stato unitario tradizionale. Gli antichi cementi ideali di questo si sono un po’ dovunque grandemente indeboliti, e così un po’ dovunque gli effetti della globalizzazione, uniti a quelli della crisi economica e alla liquefazione della Ue, stanno producendo un rilancio in chiave difensiva della dimensione locale subnazionale. La quale, rispetto al sentimento difensivo su scala nazionale — facilmente risucchiato a destra verso lidi identitari reazionari — ha il vantaggio di potersi presentare con sembianze comunitario-democratiche, e dunque di apparire molto più accettabile.
Ma su una siffatta statualità europea, già indebolita dall’autonomismo e dal localismo, nonché corrosa da una crescente perdita di legittimità (e che probabilmente lo sarà sempre di più in futuro), si stanno rovesciando gli effetti di due fenomeni nuovi, uno più inquietante dell’altro perché minacciano di inquinare surrettiziamente il meccanismo del consenso elettorale.
Il primo è rappresentato dal lavorio sotterraneo ma non troppo a cui sembra dedicarsi ormai come prassi la Russia di Putin, al fine di orientare secondo i propri interessi la vita politica interna dei Paesi che essa giudica di suo «interesse». Un lavorio che ha avuto una prima clamorosa (e parrebbe ormai accertata) manifestazione nell’hackeraggio dei sistemi informatici messo in opera durante le elezioni americane dello scorso anno. Ma che molti elementi portano a credere che possa più o meno ripetersi o essere permanentemente all’opera in un certo numero di situazioni chiave, avvalendosi anche di altri e, diciamo così, più semplici e convincenti strumenti. La recentissima nomina dell’ex cancelliere tedesco Schröder a presidente di Rosneft (il maggiore produttore russo di petrolio), dopo la sua virtuale messa a libro paga del Cremlino già da anni, dà un’idea dei metodi spregiudicati che Putin è disposto a usare per estendere e consolidare l’influenza russa. E che è difficile pensare usi solo in Germania.
Su una linea analoga, mirante per così dire a «lavorare» dal di dentro gli equilibri della vita pubblica e politica europeo-occidentale, molti indizi indicano che si stia muovendo anche una parte del mondo arabo. Agendo su molti tavoli, avvalendosi anch’essi delle proprie enormi disponibilità finanziarie nonché di apposite «Fondazioni», spesso dall’esibito fine «caritatevole» e «non profit», alcuni Paesi islamici inquadrano e organizzano i fedeli delle comunità emigrate in Europa, incamerano quote massicce di partecipazioni industriali e finanziarie, acquistano immobili , catene di magazzini, grandi alberghi e interi isolati delle città del continente. C’è bisogno di sottolineare come, anche senza pensare a usi esplicitamente corruttori di una tale influenza economica, essa tuttavia rappresenti/possa rappresentare in quanto tale un formidabile strumento di pressione dai mille possibili risvolti?
Infine, in modo analogo specialmente in ambito economico si muove nella misura che sappiamo anche la Cina, la quale «per esempio» ha già messo gli occhi, e in qualche caso anche le mani, su quel delicatissimo ganglio del sistema europeo degli approvvigionamenti di materie prime che sono i porti del continente.
Da tutto quanto ho appena detto è difficile evitare di trarre due conclusioni, perlomeno indiziarie. La prima è che sulle società dell’Europa occidentale, in specie sulla loro vita pubblica, sta cominciando a gravare l’ipoteca di un potenziale, ambiguo condizionamento esterno sempre più vario e penetrante. La seconda concomitante conclusione è che nella stessa area si è messo in moto — in parte consapevolmente voluto, in parte no — un processo di erosione dal di dentro dell’intero sistema della sovranità, e dunque un progressivo indebolimento della statualità. Gli Stati di questa parte del continente, insomma — ricchi oltre ogni misura di tutto: di saperi, di agi, di fortune di ogni genere, di una qualità di vita eccezionale, quanto poveri però di un particolare spirito combattivo — danno la crescente impressione di costituire compagini fragilissime con cui gli stessi loro cittadini s’identificano ben poco, e dunque alla fin fine accaparrabili da chiunque disponga di decisione e mezzi nella misura necessaria. E magari sappia anche condurre le cose in maniera non traumatica.
Non si tratta di alcuna «guerra di civiltà» sia chiaro, è tutta un’altra faccenda. È semplicemente un problema di «pieno» e di «vuoto», di un «pieno» che tende a riempire un «vuoto». Nessuna «guerra di civiltà», dicevo. Ma a proposito di «pieno» e di «vuoto» è impossibile non considerare che mentre dietro il «pieno» si stagliano i profili di due grandi tradizioni teologico-politiche — quella dell’ortodossia russa della Terza Roma da un lato, e quella dell’ Islam dall’altro — dietro il «vuoto», invece, c’è solo la progressiva evanescenza della coscienza cristiana dell’Occidente europeo.

il manifesto 11.10.17
Mosca, la rabbia dei migranti
Russia. A fine settembre è esplosa la protesta dei tadjki, stanchi di mazzette e sfruttamento in una città che li vuole invisibili. Manovali e facchini in nero, producono l’11% del Pil della capitale. Ma non c’è integrazione
di Yurii Colombo

MOSCA Lo scorso 20 settembre a Mosca, nella zona antistante il centro commerciale Moskva, si erano radunati un migliaio di migranti originari delle repubbliche centroasiatiche.
TADJKI, KIRGHIZI, UZBEKI, kazaki. Protestavano, dopo che in mattinata cinque loro compagni erano stati picchiati da vigilantes del centro. I cinque erano finiti all’ospedale e uno per alcuni giorni è rimasto in fin di vita con «gravi ferite al capo e la perdita di materia cerebrale», come registrava il bollettino medico.
I migranti volevano spiegazioni dal direttore del magazzino per quanto successo, ma alcuni si sono presentati all’appuntamento con spranghe di ferro devastando tutto ciò che c’era intorno.
Si sono scontrati con i vigilantes e la polizia è intervenuta in forze. 250 migranti sono stati portati in questura. Per alcuni è scattato l’arresto, per altri la deportazione nei loro paesi.
Il giorno dopo sul piazzale si sono radunati ancora centinaia di migranti: c’è stata un’assemblea improvvisata. Poi la polizia ha garantito che si sarebbe aperta un’inchiesta. Anche se i migranti sapevano benissimo cosa era successo: una prosaica storia di sfruttamento, ricatti e razzismo.
Igor ha 19 anni, è nato a Mosca da genitori tadjki. Quella sera era anche lui davanti al centro commerciale dopo il ferimento dei cinque connazionali. Avvertito da un tam tam via Whatsapp si è precipitato sul luogo dopo il lavoro.
«Cosa è successo? I vigilantes sono soliti prendere la vzyatka (bustarella) per far accedere a lavorare nel centro commerciale. I nostri fratelli si sono rifiutati di pagarla e per questo sono finiti all’ospedale». La mazzetta giornaliera è fissata in 400 rubli sui 1500 che gli operai guadagnano (circa 20 euro).
«QUANDO SONO ARRIVATO sul piazzale i più giovani erano arrabbiatissimi: armati di sbarre e di sassi volevano entrare nel centro e ammazzare tutti».
Che a Mosca la questione migranti sia esplosiva ormai non lo nega più nessuno. Il giorno dopo gli incidenti si è riunito il consiglio comunale di Mosca in seduta straordinaria.
«Che tornino a casa, abbassano i salari dei lavoratori russi», ora chiedono i comunisti e la destra di Zirinovsky. Ma il partito di Putin non è d’accordo: «Dobbiamo essere realisti. Senza gli immigrati la nostra economia si fermerebbe», dicono al quartier generale di Russia Unita.
SECONDO I DATI DEL 2016 vivono nella capitale e nella sua provincia oltre 450mila persone provenienti dalle ex repubbliche sovietiche del centro Asia. Le previsioni delle Onu parlano chiaro: in Tadjkistan la popolazione passerà da 8,7 milioni a 10,2 milioni entro il 2050, mentre quella russa scenderà dagli attuali 144 milioni a 131.
«Gli incidenti di quella notte non sono i primi e non saranno probabilmente gli ultimi», dice Kormat Sharipov, presidente dell’Associazione dei Migranti nella Csi: «Negli ultimi tre anni 17 migranti sono stati uccisi o gravemente feriti in situazioni come questa. E quella notte, dopo quanto accaduto al Moskva, qualcuno ha perso la pazienza».
In uno studio pubblicato da Sergey Ryazantsev membro dell’Accademia Russa delle Scienze, i migranti tadjki a Mosca spendono pochissimo per vitto e alloggio e spediscono alle famiglie gran parte dei guadagni. Il Tadjkistan sopravvive per le rimesse dei suoi cittadini che lavorano in Russia. Secondo Ryazantsev, si tratta di quattro miliardi di dollari l’anno, il 52% di tutto il Pil del Tadjkistan.
MOLTI TADJKI si trasferiscono a Mosca solo per lavori stagionali: in patria i salari medi si aggirano intorno agli 81 dollari al mese contro i 687 di Mosca. Qualche moscovita storce il naso vedendoli per le strade ma contribuiscono all’economia della città per l’11%, lavorano spesso in nero e sono caratterialmente miti.
«Non tornerei mai a Dushanbe. Non c’è lavoro e governano sempre gli stessi», sostiene Igor. Il Tadjkistan è retto da una sorta di monarchia repubblicana. Emomali Sharifovich Rahmon guida il paese ininterrottamente dal 1990 e alle elezioni partecipa solo il suo Partito Democratico Popolare.
I tentativi di colpo di Stato per destituirlo nel 1997 e nel 1998 sono falliti sembra grazie all’aiuto del Fsb russo e il Cremlino lo ha sempre considerato un alleato affidabile.
Nel paese la religione di Stato è quella musulmana, anche se sono presenti forti comunità cristiane e resistono importanti enclavi zoroastriste. Igor non frequenta la moschea e la sera, quando si vede con gli amici, beve birra: «Ma i miei genitori non lo sanno», dice sorridendo.
ANCHE L’INTEGRAZIONE resta limitata. Mentre gli uzbeki – anche grazie ad una grande tradizione gastronomica – a Mosca hanno aperto bar e ristoranti, i tadjki non sembrano essere portati per il commercio. Non resta che cercare lavoro nei cantieri di una Mosca che si sta rifacendo il trucco per i prossimi mondiali di calcio o sgobbare come facchini nei centri commerciali.
E poi c’è il capitolo ordine pubblico. Secondo i dati della polizia, nel 2016 dei 72mila reati compiuti in città circa 5mila sono attribuibili a cittadini provenienti dalle repubbliche asiatiche. Si tratta per lo più di piccoli reati contro la proprietà o risse in periferia tra ragazzi.
«I tadjki non sono mai entrati nel giro della grande criminalità organizzata che controlla droga e prostituzione», che resta appannaggio dei caucasici, ammettono alla questura di Mosca. Per quanto riguarda il terrorismo non sono molti i potenziali membri di cellule dell’Isis. Basti pensare che a Mosca, una città che ormai sfiora i 9 milioni di abitanti, gli individui a «rischio radicalismo islamico» non sono più di 5mila.
«La vera violenza è quella della polizia nei confronti delle nostre comunità», ha sostenuto in un’intervista a Radio Svoboda Kormat Sharipov. «Proprio la sera degli incidenti, mentre mi avviavo verso il mio ufficio, sono stato bloccato da due auto della polizia e mi hanno accusato di essere l’organizzatore degli incidenti». Sharipov, che collabora anche con l’Organizzazione dei Lavoratori Migranti, ha denunciato di aver subito in un solo anno ben 78 visite della polizia.
SEMBRA MANCARE da parte dell’amministrazione comunale una visione strategica su come gestire l’immigrazione. «Repressione, razzismo e super-sfruttamento non potranno essere per sempre la ricetta», conclude Sharipov.

La Stampa TuttoScienze 11.10.17
Umani&Macchine
Si avvicina il momento in cui evolveremo insieme
A Milano gli scenari dei guru della Singularity University
di Gabriele Beccaria

Si chiamano Divya Chander e Neil Jacobstein e molte cose li accomunano. L’interesse per i processi dell’intelligenza e il senso del sé, per la mente sintetica e per la prossima era dell’esplorazione spaziale. Un altro aspetto che ne intreccia le passioni è la scala temporale: quello che sembra un futuro lontano a loro appare come un presente già in formazione. Vedono crisalidi che sbocciano e sia la prima sia il secondo, con le loro ricerche, stanno contribuendo a moltiplicarle.
Divya e Neil sono due entusiasti e, quando si raccontano, sparpagliano concetti che si legano in modo inaspettato per poi disperdersi verso direzioni impreviste. Ti osservano per indovinare se riesci a stare al passo con le loro idee e in cambio aprono spiragli entusiasmanti sui progetti a cui lavorano. «Immaginiamo di connettere i cervelli con le macchine: così potremmo ottenere una super-coscienza!», dice, spalancando gli occhi, la neuroscienziata, professoressa a Stanford, mentre l’altro professore, specialista di Intelligenza Artificiale, li strizza a fessura per osservare che «siamo già esseri aumentati, in simbiosi con smartphone e laptop». E aggiunge che poco importa se le protesi elettroniche siano tascabili o se diventeranno micro-impianti nel cranio: l’importante - scherza - «è che non ci lascino cicatrici, se dovremo fare update periodici di memorie e programmi!».
Chander e Jacobstein erano tra i protagonisti di un forum a Milano, il primo in Italia, della Singularity University. Istituzione californiana che è più di un’accademia. È anche - e soprattutto - un incubatore di idee, concentrata sulle caratteristiche e sugli effetti delle tecnologie «esponenziali»: per esempio la genetica e la robotica, dato lo straordinario potere di far crescere la conoscenza e mandare all’aria ogni paradigma. Mentale e sociale. Ideata a Mountain View, nel centro della Nasa di Silicon Valley, è la creatura di due visionari, Peter Diamandis e Ray Kurzweil, e prende il nome proprio dalla «singolarità», resa celebre dallo stesso Kurzweil: è il momento epocale in cui tutto cambierà, perché i robot avranno superato gli umani e per la prima volta (se si mettono da parte i tempi ancestrali della rivalità tra Sapiens e Neanderthal) due specie pensanti si divideranno (e forse si contenderanno) il controllo del Pianeta.
Divya e Neil credono in una morbida co-evoluzione. «Studiamo interfacce avanzate, per esempio per aiutare i quadriplegici», spiega Chander, evocando un catalogo di protesi bioniche e avatar immateriali. «E poi ci sono gli esoscheletri avanzati», aggiunge, che traducono un’intenzione in un’azione. Passo dopo passo immagina per noi un futuro da cyborg soddisfatti, in cui corpo fisico e memorie sintetiche si fondano e in cui la parte artificiale realizza ciò che il lato biologico non raggiunge. Se nei topolini si inseriscono già chip neuronali, non è lontano il momento di replicare i test in noi. A lei interessa come aiutare i malati e come potenziare i sani, addentrandosi in uno dei misteri scientifici più caldi del XXI secolo: che cos’è la coscienza?
Aggirando possibili risposte, Jacobstein è convinto che le sue Intelligenze Artificiali siano destinate a imparare sempre più intensamente e a riuscire in compiti per noi impossibili. La consapevolezza, forse, potrebbe prendere forma attraverso la strabiliante quantità delle informazioni processate. «Mia moglie, che è medico, deve basarsi sulla conoscenza di alcune migliaia di pazienti, e non di più, e sullo scambio di dati con un certo numero di colleghi. Le menti sintetiche, invece potranno condividere le loro esperienze nel cloud», osserva, suggerendo numeri inconcepibili. L’A.I. - l’«Artificial Intelligence» - diventerà una risorsa ad ampio raggio. Ci aiuterà ad affrontare dilemmi giganteschi come i cambiamenti climatici e, adesso, «sa riconoscere le lesioni cancerose della pelle meglio dei dermatologi». Senza dimenticare che analizza la realtà bypassando i pregiudizi e le trappole logiche che sono un fardello della nostra specie, portando alla luce modelli destinati a rimanere altrimenti invisibili.
Un modello possibile lo cerca Divya proprio nella coscienza. Strumento d’indagine è l’optogenetica, con cui attivare e disattivare neuroni modificati geneticamente ricorrendo a micro-impulsi di luce. «Manipoliamo specifici circuiti», mentre con l’elettroencefalografia si registra l’attività elettrica di differenti zone del cervello durante l’anestesia e il risveglio. E quello che sta scoprendo è un’estrema variabilità di reazioni, da individuo a individuo. Si aprono interrogativi stordenti: «La coscienza è una proprietà locale o generale? I neuroni sono il filtro di un processo emergente più vasto? In che modo il corpo è legato alla mente?».
Stato di veglia e sonno, anestesia, ipnosi, coma... Ogni condizione sfuma in un’altra e il ventaglio si apre su altre creature. Anche un moscerino può essere indotto all’incoscienza, mentre la lista degli animali che si riconoscono allo specchio si allunga. Esplorare la coscienza - suggerisce Chander - significa addentrarsi nelle nostre abilità cognitive profonde e nella possibilità di potenziarle: «È essenzialmente un problema energetico, legato ai nostri scarsi watt».
Molti più watt, invece, saranno necessari per i robot a cui agenzie governative e società private affideranno l’esplorazione del Sistema Solare e della galassia. «Un obiettivo è la luna di Giove, Europa - dice Jacobstein -. Il progetto è far atterrare una sonda sulla crosta ghiacciata e perforarla». Al di sotto un’altra si immergerà nell’oceano liquido e «dovrà riconoscere, da sola, se gli nuota accanto una creatura e, piccola o grande, scattare un’istantanea». Joacobstein ammicca e ammette che il pesce potrebbe essere nient’altr che un microbo, ma, sebbene unicellulare, l’alieno farà storia. Il privilegio di quel primo e storico incontro sarà riservato a un’intelligenza artificiale, alla quale dovremo inculcare il meglio di noi: la scintilla della curiosità.