domenica 15 ottobre 2017

ALCUNI SETTIMANALI

pagina 99 13.10.2017
La sinistra in tv è già un partitino del 3%
Audience | In attesa del responso delle urne, è flop a reti unite: il ritorno di D’Alema vale poco più di 800 mila spettatori, Pisapia assente. Ma la crisi è anche del mondo culturale, come dimostrano i casi di Saviano e Baricco
di Paolo Martini


Ce n’est qu’un début, amano ripetere dal ’68 i nostalgici delle barricate. Vero, ma per continuare le combat, converrà rapidamente cambiare strategia. La lunga campagna elettorale per le elezioni del 2018 è partita con enormi ambizioni e scene madri, soprattutto a sinistra, ma non sembra che smuova affatto l’interesse degli italiani in tv.
• Baffino grigio
Prendete il caso limite di Massimo D’Alema, che è il più facile, ma è pur sempre il più clamoroso. Per il suo rientro televisivo in grande spolvero, D’Alema ha scelto la sera in cui è stato annunciato «lo strappino Mdp con il governo» (definizione doc di Bruno Vespa, che persino lui, ha ricavato un misero 6,82 per cento nel primo Porta a Porta a tema, nonostante la presenza del ministro Del Rio). Il fuleader Maximo si era scelto la comoda sedia di casa, su Raitre, a Carta Bianca e quelli della redazione della Berlinguer avevano pensato bene di schierare in soccorso un pugno di personaggi di spettacolo: per compensar Baffino, si sono aggiunti Alberto Angela e Lorella Cuccarini, alla compagnia di giro dove figurano già stabilmente Geppy Cucciari e Flavio Insinna. E non c’erano le partite della Champions League a disturbare il pubblico maschile… Risultato? Un bottino pari a 839mila spettatori, il 3,84 per cento (poco sopra un’ipotetica soglia elettorale, è vero, ma tutti quei "tvsorrisi&cazzoni" nelle liste Mdp non ci saranno mai…). Del resto, per approfittare della situazione, Ballarò su La 7 ha schierato nientemeno che un attore comico, Lino Banfi, tanto se si candidasse di “collegio elettorale” sarebbe pure concorrente di D’Alema, in Puglia. Bianca Berlinguer aveva cominciato un po’ meglio Carta - bianca, con Matteo Renzi, la settimana precedente. Ilf accia a faccia era particolarmente ghiotto dato che il leader democratico accettava di sfidare per la prima volta il volto berlingueriano più simile a papà Enrico che ci sia in circolazione.Ma, dopo più di un’ora di duetto Berlinguer-Renzi, l’Auditel segnava un modesto 4,9 per cento. Siamo ben lontani dagli ascolti di Renzi pre-referendum: a Otto e mezzo, uno dei programmi che sta maggiormente risentendo di questa fase di declino della sinistra in tv, Renzi era arrivato anche al 9,34 per cento, nella puntata scontro con Marco Travaglio, e le presenze su La 7 del leader dem dopo il telegiornale hanno stabilmente fatto salire di un punto abbondante la media che fu del programma di Lilli Gruber al massimo fulgore (7,4 contro 6,1). Quest’anno il salotto della riverita Rossa Signora dell'Informazione fa anche degli scivoloni al 4 per cento, come lunedì 9 ottobre con Piero Fassino a discutere di Pisapia e Renzi (ma quando c’è la Nazionale sono guai per tutti).
• Niente schermi per Pisapia
Non è che se la passi tanto meglio nemmeno la sinistra radical-chic tendenza Pisapia. L’avvocato Giuliano, alle comparsate televisive, preferisce le accoglienti onde fm di Radio Capital o il giornale della casa madre, La Repubblica. C’è tutto un florilegio di casi emblematici sull’impasse della sinistra-sinistra, o sedicente tale, che si possono citare, sempre guardando al termometro degli indici d’ascolto televisivi. L’icona morale degli ultimi anni, Roberto Saviano, non si scosta più dalle piccole percentuali; l’esordio molto pubblicizzato del suo Kings of Crime per il gruppo Discovery ha superato la soglia del milione di spettatori solo se si sommano le messe in onda su 5 canali (Nove, Real Time, Dmax, Focus e Giallo): al netto delle repliche, gli spettatori effettivi sono stati 806mila. Non paga la solennità tragica, ma nemmeno lo snobismo ironico: il caso più eclatante è la nuova striscia quotidiana di Skroll, su La 7, che per ora appare come un flop irrilevabile (0,6-0,8 quando va bene). E la compagnia di giro della Roma post-veltroniana, che ha scelto di rifare Gazeboa La7 con il titolo pre-elettorale Propaganda, non si è schiodata da un modestissimo 3 per cento all’esordio, e dal 2,4 alla seconda prova (ancor più ardua, perché contro la Nazionale e quindi anche con un traino di Otto e mezzo invero modesto, del 3,4 %). Un altro esempio: quando va Fuori Roma l'ex direttora dell’Unità Concita, Raitre scende anche all’1,2 e 1,9 per cento, nonostante la concentrazione di teste autorali De Gregorio-Paolini (Concita stessa con accanto Gregorio Paolini, sì l'autore del caro, vecchio Target con Gaia De Laurentiis).
• Dolori Auditel
A questo punto ci vuole un po’ di pazienza, perché una piccola parentesi tecnica è indispensabile. L’Auditel ha appena aggiornato gli ascolti televisivi, con l’introduzione del cosiddetto Super-Panel: sono stati messi in funzione più di quindicimila meter, per la rilevazione automatica del comportamento di un esauriente campione di famiglie, e in precedenza gli esperti hanno tentato di profilare al meglio questa fetta rappresentativa del pubblico totale e degli italiani. Il che si è tradotto, in dati sulle singole reti tv, in un atout per i canali digitali dall’8 in poi, precedentemente penalizzati da una ricerca meno attendibile. Inoltre, spiegano gli analisti come Emanuele Bruno, «il campione più numeroso garantisce in genere una minore varianza (ovvero ci sono meno picchi) e ora i dati sono più affidabili anche sui numeri più risicati». Già al primo bilancio settembrino, ecco dunque profilarsi un forte incremento di Tv8 e in generale delle digitali, a fronte di un ridimensionamento de La7 e di Raitre in particolare. Che sono peraltro anche le reti politicamente più caratterizzate.
• Baricco flop
Aldilà dei magheggi sull’Auditel, che ci sia comunque un grave problema specifico di linguaggio e di sintonia con gli italiani, per la comunicazione di sinistra, lo spiega anche un altro esempio singolare di questo avvio di stagione televisiva, la serata Furore che segnava il ritorno di Alessandro Baricco. Il grande affabulatore letterario di Pickwicke di Totem, ha scelto un capolavoro di John Steinbeck per parlare di emigrazione, di crisi e di povertà. E ha raccolto 555mila spettatori, il 2,2 per cento, chiudendo allo 0,9! È vero che il prodotto, televisivamente parlando, era davvero imbarazzante, forse perché l’ex direttore di Raitre Daria Bignardi ci ha voluto metter del suo, impacchettando la serata con regista e scenografa delle Invasioni Barbariche. Ma l’argomento e il canovaccio erano pur sempre formidabili, il mediatore culturale più che sperimentato e conosciuto: decisamente imparagonabili, per esempio, ai contenuti del talk nel campo rom conMaurizio Gasparri allestito dal programma concorrente di Retequattro Quinta Colonna con Paolo Del Debbio, che però ha raccolto più del doppio di pubblico (4,6 per cento). È dunque tornata «la sinistra antipatica, da complesso di superiorità morale»? Il sociologo Luca Ricolfi lo aveva teorizzato ormai più di dieci anni fa, e poi lo ha ripetuto persino Oscar Farinetti all’ultima Leopolda, ma Renzi era troppo distratto a gongolare per l’intemerata psicanalitica di Recalcati contro Bersani e D’Alema e «la sinistra pietrificata nella fascinazione masochistica e nel godimento per la distruzione». Se vi manca la prova finale di che brutta aria tiri in tv per la politica di sinistra e per i leader che furono del Pd, ecco pronto l’esempio di Crozza, ritornato alle grandi platee di Raiuno per lanciare con la sua copertina Che Fuori tempo che fa di Fabio Fazio, al lunedì in seconda serata. Ebbene, per il personaggio forte, gli autori di Crozza non gli hanno certo fatto indossare di nuovo la maschera di Renzi, come a Sanremo, e nemmeno quella di una Fedeli o di un Minniti, come su La9 (dove Fratelli di Crozza peraltro fatica a farsi largo). E hanno pescato un vero “antipatico di richiamo”: Sergio Marchionne. Buona la prima, picco Auditel al 16,4 per cento.

pagina 99 13.10.2017
Bambole cinesi da matrimonio


Studentesse, wonder woman e donne di ogni nazionalità e estrazione sociale. Nell’ultimo quinquennio il mercato cinese delle bambole di silicone è raddoppiato ogni anno. Addirittura lo ha fatto proprio la sharing economy che, con la app Taqu, si è conquistata una discreta notorietà affittando bambole di dimensioni naturali per 45 dollari al giorno. La app è durata solo un paio di giorni. Il governo ha considerato il business fuori luogo e così l’azienda si è trovata costretta «a interrompere temporaneamente il servizio di ragazza in condivisione». Ciò non toglie che la Repubblica popolare sia già uno dei mercati più fiorenti dei sex toys. Qui viene prodotto il 70% di un mercato che nel 2015 superava i 15 miliardi di dollari. Le statistiche sul consumo non sono disponibili ma i “negozi per adulti” sono estremamente diffusi. E il 65 per cento dei sex toys venduti online ha un pubblico prettamente maschile con un’età compresa tra i 18 e i 29 anni. Un dato che ha fatto riflettere Mei Fong, premio Pulizer 2007 e autrice del recente One Child: The Story of China’s Most Radical Experiment. La giornalista ha provato a legare il fenomeno al risultato di oltre trent’anni di pianificazione famigliare che ha creato uno squilibrio unico al mondo tra maschi e femmine: nel 2030 ci saranno 30 milioni di uomini in età di matrimonio che non avranno possibilità di trovarsi una donna. Una situazione che ha già portato alcuni a teorizzare il ritorno a una società in cui una donna potrà scegliere di sposare più uomini. Ma al di là delle teorie più estreme, questa situazione ha portato gli scapoli cinesi ad avere un basso livello di autostima favorendo un atteggiamento passivo-aggressivo e il ritorno dell’ideale della donna sottomessa. Un contesto emotivo che vorrebbe la donna trasformata in oggetto. E allora, cosa c’è di meglio di una bambola di silicone? (cag)

pagina 99 13.10.2017
Gli unicorni cinesi arrivano in bicicletta
Mercati | A Milano le due ruote di Mobike e Ofo, a Londra Taxify. Il governo punta forte sulle imprese tecnologiche insidiando il primato della Silicon Valley
di Cecili Attanasio Ghezzi


Biciclette rubate, danneggiate, “prese in prestito”. Quasi tutti abbiamo avuto una bici, e quasi tutti abbiamo imprecato quando un giorno qualunque non l’abbiamo più trovatal suo posto. Notutti però abbiamo avuto la stessa intuizione di Dai Wei che, ancora studente universitario, ha pensato di montare un Gps sul suo veicolo a pedali per poterlo controllare dallo smartphone. In un attimo l’idea è diventata una startup e le bici con Gps hanno invaso i campus universitari di Pechino. Era il 2014 quando nasceva Ofo (le due “o” del marchio rappresentano le due ruote). In poco più di tre anni ha distribuito oltre sei milioni di bici in cento città cinesi e, con l’aumento di capitale da 700 milioni di dollari foraggiato da Alibaba, si prepara a invadere il mondo con le sue due ruote gialle. L’obiettivo sono 20 milioni di veicoli per 200 città in venti Paesi nel mondo entro la fine dell’anno. In Cina Ofo ha una ventina di competitor. Il più grande è Mobike che, spalleggiato da Tencent, fa più o meno gli stessi numeri e condivide la medesima strategia di espansione. A Milano Ofo e Mobike sono sbarcate quest’anno e hanno subito iniziato a farsi la concorrenza. Ma non è detto che alla fine, per battere definitivamente gli altri competitor, possano fondersi. Una strategia che abbiamo già visto percorrere in Cina dagli Uber locali che si sono fatti guerra sui prezzi a colpi di sconti per quasi un anno per poi decidere di fondersi in un’unica gigantesca azienda, Didi Chuxing, da poco arrivata in Europa attraverso l’estone Taxify, su cui ha deciso di investire. Ma andiamo con ordine.
• Cavalcando unicorni
Nel 2010 quasi ogni startup valutata sopra al miliardo di dollari –i cosiddetti “unicorni” – era statunitense o europea. Sette anni dopo un “unicorno”su tre è cinese. A delineare i nuovi rapporti di forza nel settore è l’ultimo rapporto del Boston Consulting Group. Anche in questo campo la Cina si va imponendo a ritmi sostenuti. Non a caso, proprio la velocità è uno degli aspetti fondamentali delle “caratteristiche cinesi”, ovvero quelle peculiarità che hanno trasformato il socialismo di Stato in una (dubbia) economia di mercato che si fa (discusso) alfiere della globalizzazione. Per il resto, come sottolinea il vicepresidente della camera commercio italo cinese Fu Yixiang, «è questione di numeri». La Repubblica popolare ormai ospita 710 milioni di internauti, più di quelli statunitensi e indiani messi insieme, e il volume dei pagamenti da mobile è quadruplicato nell’ultimo anno arrivando a 8.600 miliardi di dollari contro i 112 americani. D’altronde la maggior parte del popolo cinese è approdato allo smartphone senza quasi passare dalla navigazione internet su pc. Gli attuali 98 unicorni cinesi, valgono 350 miliardi di dollari. E se hanno iniziato replicando idee e modelli della Silicon Valley, oggi la sfidano in diversi campi creando aziende che non hanno eguali in Occidente. E che in Occidente sbarcano. Per loro l’Italia è una meta privilegiata: «Turismo e moda attraggono i cinesi», spiega ancora il signor Fu, sottolineando come comunque «molte delle strategie di espansione di queste aziende, si rivolgono ancora al mercato che le ha cresciute».
• In Europa per guardare alla Cina
Inserire Alibaba tra i luoghi dello shopping online dei consumatori italiani «non è tra le nostre mission» conferma Rodrigo Cipriani Foresio direttore del gruppo per il Sud Europa. Nonostante l’Italia sia stato il primo Paese europeo in cui Alibaba ha aperto una controllata nell’ottobre 2015, ancora oggi «dobbiamo spiegare alle aziende italiane la sua filosofia e il suo ecosistema che è molto articolato. Sul nostro marketplace viaggiano circa 1,2 miliardi di prodotti, o sai ricavarti una nicchia o, anche se il mercato cinese è un’opportunità, scompari». «Essere nuovi, diversi, e per giunta cinesi, in Europa non aiuta e inoltre quelle relative all’uso dei social o delle app sono abitudini difficili da sradicare», spiega Andrea Ghizzoni, direttore di Tencent Europa. Ma non sarà sempre così. «WeChat in Cina vince perché è Internet, è il portale d’accesso a una serie di servizi che oltre alla chat offrono social, edicole digitali, game store, app, telefonia, multimedia, servizi di pagamento... La strategia di Tencent a lungo termine prevede di montare anche in Europa tutto questo ecosistema, come peraltro stanno facendo Facebook o Google». 
• Le ragioni del successo
C’è da dire che i campioni hi-tech cinesi sono cresciuti protetti dalla competizione internazionale. Baidu è nato come alternativa a Google, Alibaba come risposta a Amazon e Tencent a Messenger.Le Bat, questo l’acronimo dei tre colossi, si sono poi con il tempo diversificate, favorendo la nascita di aziende che gli stanno rubando la scena. Didi Chuxing, il cosiddetto Uber cinese, e Ofo, il Car2Go delle bici, sono solo i nomi più noti.La rapidità con cui le aziende innovative penetrano il mercato cinese non ha pari nel mondo e le radici alla base del loro successo sono le stesse che hanno trasformato la Repubblica popolare nella seconda economia del mondo. Innanzi tutto il territorio è cosi vasto e la popolazione così numerosa da permettere un’economia di scala senza nemmeno dover pensare di espandersi all’estero. Inoltre la cultura, le infrastrutture e le politiche sono relativamente omogenee. Pensate, per farvene un’idea, a un’Europa che parli la stessa lingua e sia soggetta a uno stesso ordinamento. Inoltre la classe medio-alta cinese è più giovane e vogliosa di sperimentare tecnologie del suo corrispettivo occidentale. Se il tipico acquirente di Audi in Germania ha superato i cinquant’anni, in Cina ne ha appena trenta, sottolinea giustamente l’Economist.
• Da sudditi a consumatori
Un elemento tutto cinese è invece che decenni di immobilismo guidato da aziende di stato che servivano gli interessi politici senza curarsi di quelli dei cittadini, hanno contribuito all’entusiasmo dei cinesi per ogni azienda innovativa che mettesse il consumatore al primo posto. Secondo alcuni analisti di mercato, gli imprenditori dell’Internet cinese hanno contribuito in modo indiscutibile alla transizione (in parte ancora in corso) dall’economia di mercato a quella dei servizi. Dal Made in China al Created in China, come ama sottolineare la leadership. L’ultimo trend è quello sanitario. AliHealth, WeDoctor, Venus Medtech, ma soprattutto iCarbonX che, fondata da un genetista che lavorava nel pubblico, vuole creare un avatar digitale dal genoma di ognuno dei suoi clienti in modo da diventare leader della medicina predittiva. Per l’Economist è forse l’azienda che ha più potenziale globale e, in ogni caso, si è già assicurata un record: in soli sei mesi, grazie ai finanziamenti di Tencent, è diventata un unicorno. Per ora è stata la più veloce al mondo a raggiungere questo traguardo. Inoltre, grazie alla partnership con Tencent può accedere ai dati raccolti da WeChat, il social network più utilizzato in Cina che raccoglie tra le sue funzioni anche quelle di portafoglio elettronico, diventando così un accesso quasi senza confine alle abitudini di ogni singolo utente. «Bisogna però ricordare che siamo in una fase di passaggio», ci risponde l’analista del Centro Studi per l’Impresa della Fondazione Italia Cina Alberto Rossi quando gli chiediamo se si immagina una presenza più visibile degli unicorni cinesi in Europa nei prossimi anni. «Per diversi motivi, Europa e Cina si stanno chiudendo. Nel breve periodo ci dobbiamo aspettare una decrescita degli investimenti cinesi, eccezion fatta per alcuni settori mirati che deciderà il governo cinese stesso». E aggiunge: «Anche se questo caso non parliamo di aziende di stato, ma di privati, sappiamo tutti quali sono le caratteristiche cinesi. L’abbiamo visto quest’estate. È bastato un presentatore della tv di Stato che sollevasse dubbi sugli investimenti “irrazionali” di Suning per farne crollare le azioni in borsa». Con la stessa facilità la celebrata Silicon Valley cinese potrebbe rivelarsi una cattedrale nel deserto.

pagina 99 13.10.2017
Se non censuri paghi la stretta di Pechino
Controllo | Un fossato digitale per “proteggere” la capitale. Basta anonimato. E penali ai big di Internet


A settembre l’anonimato è stato ufficialmente bandito dai social media cinesi. Perché? Tutti i cittadini dell’ex celeste impero sono responsabili della diffusione dei «valori socialisti». Le Vpn, ovvero le reti che per più di un decennio hanno permesso agli utenti di scavallare il cosiddetto Grande Firewall, sono state messe fuori legge. Perfino Apple ha dovuto rimuoverle dal suo store cinese. E c’è di più. Ormai chiunque avvii una chat di gruppo, anche privata, è legalmente responsabile dei contenuti che vi vengono pubblicati. L’avvento del «credito sociale», ovvero l’esperimento che mira al controllo della cittadinanza attraverso i big data e le singole attività online, sembra sempre più imminente. Tanto che secondo uno dei più attenti osservatori di censura e media cinesi, David Bandurski, bisognerebbe aggiornare il lessico sostituendo al concetto di Grande Firewall quello di Grande Alveare, un complesso frattale in cui è possibile controllare la bolla(o cella se si vuole mantenere la metafora qui proposta) di ogni singolo internauta. Nell’attesa del XIX Congresso del Partito comunista, l’appuntamento politico più importante del quinquennio, il sindaco di Pechino Cai Qi ha proposto di scavare «un fossato virtuale» che i soli ulteriormente l’internet della capitale da quello del resto della Cina affinché sia ancora più controllabile. Bisogna assicurarsi che chiunque si esprima «dica la cosa giusta in maniera corretta». Per la prima volta anche le aziende che operano nell’internet cinese saranno sanzionate «con la massima penalità» se non riusciranno a impedire la pubblicazione sulle loro piattaforme di«fake news e pornografia»o contenuti che«incitano alle tensioni etniche» o «minacciano l’ordine sociale». Nel 2013, secondo i media di Stato, c’erano oltre due milioni di censori che lavoravano sull’intranet cinese. Da allora, anche se non abbiamo più avuto statistiche ufficiali, il loro numero deve essere aumentato esponenzialmente. Si tratta del famoso «esercito dei cinque mao», ovvero dei 5 centesimi, quanto si viene pagati per ogni segnalazione di contenuti «non armonici» al sistema. L’agenzia di stampa Reuters è recentemente riuscita ad intervistare sotto anonimato alcuni dei censori impiegati da Toutiao, un aggregatore di notizie che vale 2 miliardi di dollari. «Se appena due anni fa il nostro dipartimento impiegava 30-40 persone, oggi siamo quasi in mille». E ancora: «Tutti ormai fanno lavoro di revisione. Solo l’anno scorso occupavamo un piano, oggi dieci». A cui, non è un mistero, si aggiungono bot e intelligenze artificiali sempre più sofisticati.

pagina 99 13.10.2017
Gli ultimi socialisti ai confini del Continente
Portogallo | Alle politiche del 2015 invece della “grande coalizione” , il Ps ha scelto la sinistra radicale. Un azzardo premiato alle ultime elezioni
di Goffredo Adinolfi


LISBONA. Guardando al panorama europeo – Francia, Germania e Olanda, tanto per citare tre esempi – quello del socialismo portoghese rappresenta un’eccezione a un processo di crisi che appare sotto molti aspetti irreversibile. Lo scorso primo ottobre alle elezioni amministrative il Partido Socialista (Ps) ottiene il suo risultato migliore di sempre. Ma non solo, perché c’è un altro primato che merita di essere sottolineato: non era mai successo che, a elezioni di medio termine, un partito di governo non subisse contraccolpi negativi in termini di consenso. Eppure, con la drammatica fine del mandato di José Socrates (socialista) nell’aprile del 2011, a cui segue la dichiarazione di insolvenza, la richiesta di un piano di assistenza finanziaria a Fondo monetario internazionale, Banca centrale europea e Unione europea, e la vittoria delle destre (Partido Social Democrata – Psd e Centro Democrático Social / Partido Popular – Cds/PP - luglio 2015), pochi avrebbero scommesso su di una riscossa delle dimensioni che sta assumendo in questi ultimi mesi.
• Fuga per la vittoria
La cosa è stata tutto fuorché lineare, anzi. Il neo-eletto segretario Ps António José Seguro (luglio 2011), ottiene alle elezioni europee (2014) una vittoria di stretta misura. Dopo tre anni di consistenti tagli alla spesa pubblica e un intensissimo ciclo di protesta ci si sarebbe aspettati risultati molto più favorevoli. Davvero un brutto segnale tanto più a un anno dall’atteso appuntamento per il rinnovo dell’Assembleia da Republica (2015). António Costa, allora sindaco di Lisbona, è scelto dai militanti come sostituto a Seguro (novembre 2014). Ancora una volta però all’orizzonte non si intravede un’inversione di ciclo, anzi, è vero il contrario, e cioè la coalizione di centro-destra Portugal à Frente (PàF) guidata dal Primo ministro Pedro Passos Coelho ricomincia a crescere nei sondaggi fino ad imporsi con il 38% dei voti, distanziando i socialisti di 6 punti (legge elettorale proporzionale con correzione D’Hont). L’effetto Costa non c’è stato e dopotutto l’ex sindaco della capitale di promesse ne ha fatte poche. Soprattutto non ha chiarito in modo inequivocabile se e in che modo era intenzionato a rompere con la linea economica del precedente governo. Va detto che nell’ambito del socialismo europeo quello lusitano ha sempre rappresentato l’ala più moderata da qui anche le ridotte aspettative da parte dell’opinione pubblica. Preso atto del responso delle urne il Capo dello stato Aníbal Cavaco Silva conferma Passos Coelho e spinge per un accordo di grande coalizione tra Ps e PàF. Questo nonostante in parlamento le forze progressiste fossero maggioritarie: il Bloco de Esquerda (Be) ottiene il 10% e il Partido Comunista Português l’8%. Però no, un’alleanza in cui la sinistra radicale possa entrare nell’area di governo preoccupa. Gli equilibri di bilancio, l’Europa, il rispetto dei trattati monetari, sono tutti elementi rispetto ai quali Be e Pcp non hanno mai fatto mistero di essere contrari. Sono giorni complessi, Passos Coelho è sfiduciato dall’Assembleia da Republica, l’accordo Ps-Be, da un lato, e Ps-Pcp dall’altro si trova e Cavaco Silva è così costretto a cedere e a nominare António Costa primo ministro.
• Il rivoluzionario patto a sinistra
Per capire quanto sia stato rivoluzionario il patto tra i partiti della sinistra occorre tenere presente il fatto che era dal consolidamento della democrazia nel 1976 che i partiti erano divisi in due categorie molto rigide: da un lato quelli che compongono l’arco di governo, Ps, Psd e Cds/Pp e dall’altra Be (nato nel 1999), e Pcp. Come spiega il politologo André Freire al settimanale Sol il 14 febbraio scorso: «Se è vero che c’è stato un effetto sorpresa dopo le elezioni dell’ottobre 2015, è anche vero che António Costa aveva dato segnali di volere desacralizzare l’idea dei partiti dell’arco di governo e di volere contare con altri alleati al di là di quelli tradizionali». Alcuni numeri possono rendere l’idea della dimensione del successo. L’ultimo barometro politico (Aximage, settembre 2017) attribuisce al Ps il 43% delle intenzioni di voto. La coalizione Psd-Cds/Pp al 28% e Be e Pcp, pur leggermente in calo rispetto alle politiche dell’ottobre 2015, rispettivamente al 9% e all’8%. Globalmente quindi la maggioranza che appoggia il governo ha una crescita di consenso di più del 10%. Certo, l’alleanza ha beneficiato in termini elettorali solamente il Ps, ma i vantaggi per il Pcp e Be in termini di prestigio sono comunque molto significativi. A giocare un ruolo decisivo è la figura di Costa che, dopo due anni come primo ministro, gode di una fiducia del 65% della popolazione.
• I motivi del successo
Vari i motivi alla base del successo dei socialisti. Intanto l’alleanza a sinistra mostra in modo netto come nel paese ci sia un’alternanza non appena rituale. In questo senso ne hanno giovato anche le istituzioni democratiche. I dati raccolti dall’Eurobarometro mostrano come tra il 2015 il 2016 la fiducia sia salita dall’11 al 16%nei confronti dei partiti, dal 18 al 36% per il parlamento e dal 15 al 39% per il governo. In secondo luogo il programma e le misure fino a qui approvate, nulla di molto rivoluzionario certo, ma quel tanto che basta a tradurre in modo concreto un’inversione di tendenza. Il potere di acquisto dei ceti medi e deboli è stato rafforzato attraverso un aumento del salario minimo, defiscalizzazioni e, in modo indiretto, dal rafforzamento dello stato sociale. Ad aiutare la crescita economica, consistente, che porta a una riduzione della disoccupazione, aumento delle ricette fiscali e quindi della possibilità di spendere pur mantenendo il deficit a livelli straordinariamente bassi (anche qui i risultati sono storici). In conclusione il partito socialista di oggi non è poi molto differente da quello del 2011, se non nella capacità mostrata da António Costa di grande pragmatismo e capacità aggregativa, cosa che era mancata al suo predecessore Socrates, non è poco certo se solo pensiamo che nella legislatura passata in Germania le forze progressiste al Bundenstag erano maggioritarie. C’è tuttavia un paradosso, che è alla base del grande consenso che oggi sta vivendo il Ps: il non avere vinto le elezioni del 2015 ha obbligato a un’alleanza che ha spostato il baricentro dell’azione governativa molto più a sinistra di quello che è l’asse tradizionale. Se Costa fosse riuscito a ottenere la maggioranza assoluta e avesse quindi attuato il programma originale con ogni probabilità, non avrebbe riscosso lo stesso entusiasmo di quello che si sta attuando da due anni a questa parte.

pagina 99 13.10.2017
Se cade la diga austriaca
Legislative | I Verdi hanno fermato l’avanzata della destra alle presidenziali. Ma le scissioni a sinistra, l’affaire Facebook e i migranti spingono l’Fpö
di Barbara Ciolli


L’estrema destra austriaca brinda euforica ai comizi per le legislative anticipate del 15 ottobre. Con i cristiano-democratici (Övp) e i socialdemocratici (Spö) che si rimpallano il grave scandalo degli account falsi su Facebook e la sinistra sempre più in macerie, a goderne potrebbero essere i populisti xenofobi dell’Fpö (al 24%-25%): il terzo o il secondo partito a seconda degli schizofrenici sondaggi, se non per la prima volta addirittura il primo.
• Millennial in ascesa
Battere l’enfant prodige dell’Övp Sebastian Kurz(al 33%-34%), che a31 anni ha personalizzato e svecchiato l’immagine del partito rincorrendo l’Fpö, è dura. Ma l’estrema destra, che in vista di una coalizione ha rinunciato agli slogan contro l’euro, non ci è mai stata tanto vicina: alle Regionali del 2015 è balzata dal 15% al 30%, poi al 35% al primo turno delle tormentate presidenziali del 2016. A scongiurare, meno di un anno fa, la salita all’Hofburg del candidato dell’Fpö Norbert Hofer furono i Verdi: protagonisti di una sorprendente vittoria del loro storico e autorevole militante (anche se diventato indipendente) Alexander van der Bellen. Gli ambientalisti superarono il 21%, spazzando via i socialdemocratici e i cristiano-democratici all’11%. E al ballottaggio, appoggiati per necessità dall’Spöe dall’Övp, sfiorarono il54%. L’epilogo rassicurò, dopo mesi di fibrillazioni, l’Ue sulla tenuta democratica dell’Austria, in prospettiva delle imminenti legislative per la caduta della grande coalizione e poi della successiva.
• Il suicidio dei verdi
L’autolesionismo pervasivo a sinistra ha tuttavia frantumato anche i Verdi, capaci dall’estate scorsa di inabissarsi dal 12% al 4%, spaccandosi sui migranti. La scissione con il cofondatore Peter Pilz, leader di un’omonima lista ambientalista populista e protezionista, ha dilapidato il potenziale di incanalare costruttivamente i voti contro i partiti al potere, che dalla metà del 2016 hanno nell’ordine subito: le dimissioni del cancelliere e capo dei socialdemocratici Werner Faymann; il calo dell’Övp al 20% prima del restyling di Kurz; il fallimento delle ultime larghe intese di Christian Kern, successore di Faymann. Tanto i Verdi che Pilz sono dati tra il 5% e il 4%, lo sbarramento per entrare in parlamento, e i comunisti del Kpö plus (dal 2017 alleati con i giovani Verdi, in seguito a un’altra scissione) al 2%: un disastro per la sinistra, anche alla luce dell’affaire a ridosso del voto sulle due pagine fake di Kurz risultate aperte da un consulente elettorale dell’Spö per infangare il leader millennial cristiano-democratico.
• Socialdemocratici a picco
Amico dell’Italia fino a dichiarare «inesistente l’emergenza al Brennero», Kern è il cancelliere uscente candidato dei socialdemocratici che rischiano la disintegrazione: nega di aver commissionato gli account falsi, insinua dei soldi sottobanco al loro incaricato dell’Övp, rivendica il «miglior programma nei contenuti», ma ammette che la «campagna elettorale è stata estrema» per lo «scandalo peggiore della Seconda repubblica». Nella piccola e chiusa Austria i sondaggi sono da mesi fluttuanti come l’elettorato: in un rilevamento del 5 ottobre l’Spö  è in caduta libera al 22% e l’Fpö al 27%, in un altro dell’8 ottobre l’Spö è al 27%. E se anche prevalesse la scelta del meno peggio, quel che è certo è che non si vuole l’ennesimo esecutivo Spö-Övp.Tutte le altre possibili combinazioni restano aperte. Anche le più disinvolte. Ma non a sinistra.

pagina 99 13.10.2017
La borsa nera dei bitcoin cinesi
Trading | Le quotazioni in criptovaluta delle aziende, vietate da Pechino, proseguono nei circuiti clandestini


A inizio settembre la banca centrale cinese le ha messe al bando, ritenendo che dietro di esse si nascondessero truffe e altre attività illecite, ma adesso le Ico (Initial Coin Offering) sono tornate a fare capolino sul mercato nero. Di che si tratta? Le Ico sono un meccanismo che combina alcune caratteristiche del crowdfunding e delle Ipo (le Initial Pubblic Offering comunemente usate in borsa) e che permette alle imprese di intercettare investimenti in criptovaluta da parte del pubblico – come accade su Kickstarter – compensandoli con una percentuale della proprietà aziendale o degli utili, quando ci saranno. In Cina, nonostante il divieto, si sta sviluppando una rete clandestina, lontana dagli occhi degli organi di vigilanza, in cui si possono ancora finanziare aziende tramite valute digitali. Investitori e intermediari finanziari lo sanno: il trading di bitcoin e di altre criptovalute è più fiorente che mai. «Si possono chiudere gli scambi, ma non si può fermare la domanda fortissima che sorregge queste forme di investimento», ha ammesso di recente Leon Liu, amministratore delegato di Bitkan, società che ha sede a Shenzhen e fornisce dati e servizi sul trading in valuta digitale. Secondo Liu l’errore di Pechino è stato vietare forme di investimento come le Ico, quando sarebbe stato meglio regolamentarle. «In effetti molte Ico in Cina erano solo truffe per racimolare soldi senza regole chiare sui possibili vantaggi per gli investitori», dice al Wall Street Journal, Regina Lai, direttore commerciale di Sosobts, piattaforma di data analysis specializzata in valute digitali, «ma come in ogni altro azzardo speculativo con le Ico puoi guadagnare un sacco di soldi ma puoi anche perdere tanto». Intanto la febbre da bitcoin non accenna a spegnersi. Dopo il crollo a settembre causato dalla stretta attuata dalla banca centrale cinese nei confronti delle Ico, il valore della moneta virtuale è tornato a crescere. «Only rises, does not fall» (“cresce soltanto, non cala”) si legge nella presentazione di un’azienda cinese di logistica che cerca di attirare investitori sfruttando il trading di criptovaluta. Illegalmente, secondo Pechino, che però deve fare i conti con un sottobosco sempre più in fermento.

pagina 99 13.10.2017
Orléans vende sogni non solide realtà
Architettura | La prima edizione della Biennale transalpina rifiuta gli slogan engagés o la tradizionale presentazione dell’edificio e costruisce una raffinata narrazione per immagini. Per far emergere la fertilità del pensiero immaginifico e creativo all’origine del processo di costruzione
di Lucia Tozzi


Stando alle regole che vengono imposte oggi ai curatori di biennali dalle istituzioni che le finanziano, questa di Orléans (inaugurata il 12 ottobre e visitabile fino al 1 aprile 2018) non dovrebbe neppure rientrare nella categoria. Con una scelta di nomi totalmente estranea alla logica dello star system –niente Piano, Foster, BIG, Koolhaas o Nouvel – e una ricerca raffinatissima irriducibile ai soliti slogan da bassa propaganda, Camminare nel sogno di un altro si presenta come un miraggio nel panorama degli eventi internazionali. Intendiamoci, non è che i curatori Abdelkader Damani (direttore del Frac Centre-Val de Loire) e Luca Galofaro abbiano invitato solo giovanissimi o ignoti: ci sono Gian Piero Frassinelli, oggi più che mai celebre a causa dell’inesorabile revival della stagione radical italiana e in particolare di Superstudio, c’è Juan Navarro Baldeweg, e poi Tatiana Bilbao, Bernard Khoury, gli Ensamble, Didier Fiuza Faustino, Aristide Antonas, Aleksander Brodsky, Beniamino Servino e molti altri che pure girano, sono amati, idolatrati a volte. Ma ognuna di queste presenze ha un ruolo preciso in questa mostra, costruita intorno ad alcuni specifici campi di tensione, in primis quello tra arte e architettura, legato anche alle collezioni del Frac e alle passate edizioni dell’Archilab Festival. Qui le loro opere non sono macchie di colore comprimarie alla solida materialità della grande architettura, quella muscolare, esposta come una sequenza di maquette. I protagonisti questa volta sono loro, riuniti non da omogeneità tematica o da affinità politica, ma dalla capacità di reagire alle situazioni del mondo con un pensiero immaginifico. «Abbiamo guardato agli architetti interessati alla costruzione di un pensiero che non sempre coincide con la costruzione di edifici», ha dichiarato Galofaro in una recente intervista su Artslife a cura di Niccolò Lucarelli. «Questa è una biennale di collezioni che rifiuta di presentare l’architettura in un modo tradizionale, attraverso oggetti finiti, gli edifici. Vogliamo raccontare l’inizio del processo di costruzione e non la fine di questo processo. L’architettura per noi si costruisce attraverso l’incontro di immaginazioni diverse, prende forma lentamente».
• Tra l’esodo e il sogno
Le migrazioni e i processi partecipativi sono due sottotesti fondamentali della mostra, ma la cornice sociologica è bandita. Per fortuna nessuno sguaiato appello alle utopie, nessun titolo didascalico o sensazionalista costringe il pubblico ad assumere un improprio atteggiamento engagé. Quello che è legittimo aspettarsi a Orléans è un insieme di narrazioni per immagini di rarissima qualità, dove la migrazione è intesa come unica meta e il sogno come un «metodo per andare oltre la catastrofe e dirigersi l’uno verso l’altro». E così saranno le fragili città di carta o argilla di Aleksander Brodsky – minacciate da laghi di petrolio – o le strutture assemblate e illuminate da fioche luci a parlare delle metamorfosi urbane. Affianco ai disegni del tunisino Nidhal Chamekh sulle pratiche urbane – e poi sullo smantellamento della terribile Giungla di Calais (il più grande campo profughi francese) – e alle azioni dirette di Perou (l’organizzazione per il reperimento delle risorse urbane presieduta da Gille Clé- ment e Sébastien Thiery), le architetture struggenti dei norvegesi Manthey Kula riflettono sulla condizione dell’esilio, mentre la palestinese Saba Innab indaga la questione dell’architettura senza terra nei luoghi spossessati.
• Dark Beirut e l’aérotrain abbandonato
Due universi paralleli, quelli di Bernard Khoury e Beniamino Servino, rappresentano un’indagine incessante dei rapporti tra territorio e memoria. Khoury produce con le sue architetture una proliferazione di impronte dark su una Beirut ormai sfigurata dal real estate, completamente immersa in un processo di trasformazione che vuole rimuovere non solo ogni traccia del conflitto, ma anche qualsiasi segno di vitalità urbana dal suo tessuto. Beniamino Servino, lontano da questi registri di cupezza, conduce una lotta donchisciottesca, tutta interna allo spazio tra la propria mente e la mano che produce migliaia di disegni stupefacenti. Il suo nemico è la miseria antimonumentale delle terre campane in cui vive ed è sempre vissuto, il cui sviluppo volgare e senza redenzione ha però un valore archetipico globale. Giorno dopo giorno Servino individua gli elementi fondamentali che compongono il vocabolario di questa deprivazione estetica e li contamina con la sua inesauribile vis progettuale, trasformandoli in monumentali figure di una nuova dignità. Uno degli interventi più notevoli nello spazio pubblico di Orléans è il padiglione progettato da 2A+P/A, tratto da un disegno di Ettore Sottsass (dalla serie Architettura Monumentale): uno scrigno-wunderkammer che dopo la Biennale sarà trasferito permanentemente nel Parc Floral di Parigi, simbolo della creazione come atto migratorio. Lo studio 1024 architecture, aperto da due dei fondatori del collettivo Exyzt, ha invece creato una scultura/infrastruttura dotata di caffè, bookshop e spazio di incontro all’interno e all’esterno del Frac; mentre il belga Cé- dric Libert interviene sulle rovine del fascinoso aérotrain di Jean Bertin abbandonato nel paesaggio, esempio mirabile di incompiuto orléanese.
• Mal d’Africa
Tra le immagini dei grandi calchi dei siti naturali in cemento operati dagli Ensamble Studio, della bunker architecture di Didier Fiuza Faustino, delle città-spa di Building Building, degli interni-esterni di Aristide Antonas, delle tipologie domestiche di PioveneFabi, emergono i repêchage di due architetti quasi coetanei: il napoletano Fabrizio Carola (1931) e il nigeriano Demas Nwoko (1935), che messi a confronto incarnano forse meglio di ogni altro il senso del titolo della biennale. Carola ha realizzato su suolo africano delle architetture in terracotta che reinterpretano con acribia filologica e intelligenza modernissima dal punto di vista climatico le tecniche costruttive della tradizione subsahariana; Nwoko ha sviluppato un sistema progettuale che condensa in un sincretismo spettacolare forme dell’architettura Igbo con i principi occidentali e le tecniche giapponesi. In spregio alle chiusure identitarie prodotte dai fanatismi conservatori, ma anche dagli eccessi culturali della deriva postcoloniale (basti pensare alle obbrobriose elucubrazioni intorno alla cultural appropriation, che di tanto in tanto scuotono il dibattito internazionale), quest’orgia di racconti e figure offerta da Damani e Galofaro porta all’evidenza assoluta il principio della prolificità del pensiero in movimento.

Monografiche
«Un’architettura costruita è quasi sempre inferiore all’idea che l’ha generata.

L’architetto è sempre costretto a scegliere i compromessi migliori, ma se questi non rispettano un livello minimo di qualità non gli restano che due soluzioni: costruire edifici che contrastano con le proprie idee e spesso con l’interesse degli utilizzatori, trasformando il proprio mestiere in una pura fonte di guadagno; rifiutare la realizzazione e quindi la remunerazione, scegliere la via della professione di fede e abbandonare l’architettura. Personalmente ho scelto la seconda e ne sono molto felice». Questa franca dichiarazione di Guy Rottier potrebbe essere il manifesto della Biennale di Orlèans. Rottier, che aveva collaborato con Le Corbusier all’Unité d’habitation di Marsiglia (nota anche come Cité Radieuse), ha disegnato poi negli anni Sessanta e Settanta edifici e oggetti di ineguagliabile bellezza, mischiando la propria fascinazione per l’architettura ipogea, le case di terra e i sistemi di cattura della luce studiati in Siria e in Marocco con visioni antropomorfiche, zoomorfiche e una straordinaria potenza di segno. Quando decise di ripensare l’oggetto scacchiera non rivolse l’attenzione ai pezzi, ma alla trascurata griglia, creando dei paesaggi irti, sconnessi, addirittura pop. La monografica dedicata a Rottier si sposa a quella di Patrick Bouchain, ospite d’onore della Biennale e suo grande animatore. In Italia è prevalentemente associato alla Biennale di Venezia del 2006, dove da curatore chiamò il gruppo Exyzt a progettare una struttura effimera che rendesse vivibile e vivo, giorno e notte, il padiglione francese. A metà degli anni Ottanta aveva collaborato con Daniel Buren a Les deux plateaux del Palais Royal di Parigi ed era stato consigliere di Jack Lang. Bouchain ha un talento vero, umano, per l’a rchitettura partecipata. Per anni ha diretto la Friche la Belle de Mai a Marsiglia, un modello assoluto per la riconversione di spazi inutilizzati in centri culturali e sociali, che del resto è la sua specialità. In mostra saranno visibili, tra le altre cose, i progetti e i modelli del Teatro Zingaro di Aubervilliers e del Teatro del Centauro di Marsiglia.

Internazionale 13.10.2017
Cina
Il congresso di Xi Jinping


Il 18 ottobre si apre a Pechino il 19° congresso del Partito comunista cinese. L’assemblea confermerà Xi Jinping segretario del partito e leader del paese per i prossimi cinque anni e offrirà indicazioni sui futuri indirizzi politici, economici e sociali della Cina. In genere la leadership resta in carica per due congressi (cioè per dieci anni), ma molti pensano che Xi Jinping possa infrangere la regola e restare alla guida del paese anche dopo il 2022. Nei prossimi giorni, quindi, gli occhi saranno puntati sui segnali che potrebbero smentire o confermare quest’ipotesi. “Il primo segnale è già arrivato con l’indagine per corruzione a carico del leader della città di Chongqing, Sun Zhengcai, uno dei candidati alla successione di Xi”, scrive la Nikkei Asian Review. Potrebbe essere un avvertimento per chiunque pensi di sostituire l’attuale leader. Un’altra importante indicazione verrà dalla sorte di Wang Qishan, fedelissimo di Xi e guida della campagna anticorruzione voluta dal presidente. Se, nonostante abbia superato i limiti d’età, sarà confermato nel comitato permanente del politburo, il livello più alto della leadership, sarebbe un altro segnale della volontà di Xi di restare al potere. Infine, l’attenzione si concentrerà sulla scelta dei rappresentanti della cosiddetta “sesta generazione” di leader nominati ai livelli più alti. Tra i candidati ci sono tre uomini molto vicini a Xi: Li Zhanshu, Zhao Leji e Chen Min’er. “Dal congresso del 1997 la politica cinese segue delle regole non scritte”, spiega The Diplomat. Stando a quello che è successo in passato, se i due componenti più giovani del politburo – Hu Chunhua, 54 anni, e Chen Min’er, 57 – entrassero nel comitato permanente, sarebbe un chiaro segnale che i predestinati alla futura leadership del paese sono loro.

Internazionale 13.10.2017
La follia americana
di Dave Eggers, Medium, Stati Uniti


Il 22 agosto Donald Trump è andato a Phoenix per un comizio. In città c’erano militanti di destra e antifascisti armati, manifestanti pacifici e centinaia di poliziotti. e sono emerse tutte le tensioni che attraversano gli stati Uniti, scrive Dave Eggers

A Phoenix, nel raggio di pochi isolati in centro, c’erano quindicimila sostenitori di Trump e diecimila persone che manifestavano contro di lui. C’erano i Bikers for Trump (motociclisti per Trump) e una sezione del John Brown gun club, un gruppo antifascista armato di pistole e fucili semiautomatici. C’erano gruppi di sollevatori di pesi con magliette che inneggiavano a Trump. C’erano uomini in giubbotti smanicati con stampata la bandiera della confederazione sudista, e c’era un’enorme gallina gonfiabile che somigliava a Donald Trump. C’era un uomo con un megafono che per tutto il pomeriggio ha ripetuto che gli omosessuali andranno all’inferno, che chi guida ubriaco dovrebbe morire e che le donne con la gonna meritano di essere stuprate. C’erano anarchici, antifascisti e centinaia di poliziotti armati. erano passati dieci giorni dal raduno neonazista di Charlottesville, il paese era in lutto e nel pieno dell’epoca più folle della sua storia. In Arizona c’erano 40 gradi e sembrava che facesse ancora più caldo. È un miracolo che quel giorno a Phoenix non sia morto nessuno. Il 16 agosto Trump aveva annunciato che avrebbe tenuto un comizio a Phoenix. sarebbe stato un raduno come quelli che faceva durante la campagna elettorale. Girava voce che avesse tre motivi per farlo: il primo era che Jef Flake, uno dei rappresentanti dell’Arizona al senato, aveva scritto un libro molto critico nei confronti del presidente, e Trump voleva metterlo in imbarazzo andando in visita nel suo stato e sfidandolo davanti ai suoi elettori; il secondo motivo era che Joe arpaio, ex sceriffo della contea di Maricopa, era stato condannato a sei mesi di carcere perché, ignorando la sentenza di un giudice, aveva continuato ad arrestare persone sulla base del semplice sospetto che fossero immigrati irregolari: Trump, si diceva, voleva concedergli la grazia in pubblico e in modo teatrale; la terza ragione era che Trump voleva parlare del suo progetto di costruire un muro al confine tra Arizona e Messico. la sera dell’11 agosto e la mattina del 12, qualche giorno prima che uscisse la notizia del comizio di Phoenix, i nazionalisti bianchi e i neonazisti si erano radunati a Charlottesville, in Virginia. I manifestanti di estrema destra, i loro avversari e gli esponenti di un’organizzazione paramilitare locale avevano portato scudi, mazze, bastoni e, poiché in Virginia è consentito girare per strada con armi in vista, decine di pistole e fucili. C’erano stati degli scontri a emancipation park. Il 12 agosto Richard W. Preston, grande mago dei Confederate white knights (cavalieri bianchi confederati), un gruppo riconducibile al ku klux klan, era stato filmato mentre gridava “ehi, negro” a Corey long, un nero che era arrivato a emancipation park con una bomboletta da usare come lanciafiamme. Preston gli aveva puntato una pistola alla testa e poi aveva sparato un colpo a terra, accanto ai suoi piedi. In seguito sarebbe stato accusato dell’unico reato che a quanto pare aveva commesso: aver aperto il fuoco a meno di trecento metri da una scuola. Dopo che la polizia aveva disperso la manifestazione della destra, due manifestanti, Daniel Patrick Borden e Alex Michael Ramos, erano stati accusati di lesioni aggravate per aver picchiato Deandre Harris, un nero di vent’anni. mentre militanti di destra e di sinistra lasciavano la zona, James Alex Fields, un bianco di vent’anni, si era lanciato con la sua auto contro un gruppo di persone che manifestavano per la pace, l’uguaglianza e l’armonia tra bianchi e neri. Una donna di 32 anni, Heather Heyer, era rimasta uccisa e altre 19 persone ferite. Quella notte erano morti anche due poliziotti dopo che il loro elicottero era precipitato mentre sorvolava il raduno. In tutto erano morte tre persone e venti erano rimaste ferite. ma con centinaia di persone armate di pistole e fucili semiautomatici in mezzo a centinaia di manifestanti e nel caos totale, le cose sarebbero potute andare molto peggio.Dopo Charlottesville, e dopo le critiche ricevute da Trump per come la città aveva reagito alle violenze, Greg Stanton, il sindaco di Phoenix, aveva preso la decisione senza precedenti di chiedere al presidente di non recarsi nella sua città. “l’America sta soffrendo”, aveva scritto Stanton in un articolo sul Washington post. “e sta soffrendo soprattutto perché Trump ha gettato benzina sulle tensioni razziali. Temo che, visitando Phoenix il 22 agosto, il presidente voglia accendere un fiammifero”. Doug Ducey, il governatore repubblicano dell’Arizona, aveva fatto sapere che avrebbe accolto Trump all’aeroporto ma non avrebbe partecipato al comizio. Pur sapendo che il comizio di Phoenix avrebbe attirato i suprematisti bianchi e i loro avversari, e che chiunque tra i 25mila manifestanti previsti avrebbe potuto essere armato (anche in Arizona è consentito girare per strada armati), non aveva annullato l’evento. pur sapendo che un uragano si stava avvicinando al golfo del Messico e che avrebbe colpito la costa degli stati Uniti poco dopo il comizio, Trump non aveva annullato l’evento. Catherine H. Miranda, senatrice democratica del parlamento dell’Arizona, aveva dichiarato: “Consigliamo vivamente al presidente di visitare Charlottesville per portare conforto alla città”. ma Trump non era andato a Charlottesville per portare conforto. non era rimasto a Washington per monitorare quello che sarebbe diventato uno degli uragani più devastanti degli ultimi decenni. aveva deciso di andare a Phoenix. Fila interminabile a metà mattinata la temperatura aveva già superato i 38 gradi. A mezzogiorno erano 41. La città era completamente immobile e quasi deserta, a parte qualcuno che faticosamente si spostava da un edificio con l’aria condizionata all’altro. Il Phoenix convention center, un centro congressi nel cuore della città, era tranquillo. all’angolo tra Washington street e second street, un uomo reggeva un cartellone con la scritta “police lives matter”, le vite dei poliziotti contano. Alle due sono arrivati centinaia di sostenitori di Trump che si sono messi in ila lungo second street. Il centro congressi avrebbe aperto alle quattro, e il presidente avrebbe parlato alle sette. le persone in ila non indossavano tuniche bianche né camicie brune. erano in pantaloncini e maglietta, sedevano su sedie di tela e si rinfrescavano sventolando bandierine americane. Sembravano dirette a un barbecue patriottico o a una partita di baseball. erano soprattutto bianchi, ma c’erano anche uomini e donne neri, asiatici e ispanici, molti anziani e bambini. non gridavano, non intonavano slogan e parlavano poco. Quasi tutti si limitavano a stare in ila e a cercare di rinfrescarsi e di non disidratarsi. Ma erano in pochi. Il centro congressi può contenere tra le 19mila le 29mila persone, ma alle tre c’erano solo cinquecento sostenitori di Trump. Forse il presidente aveva sbagliato i suoi calcoli, forse in Arizona non c’erano molte persone disposte a sentirlo parlare dopo la tragedia di Charlottesville. Mi sono diretto verso il Civic space park, dove il puente human rights movement, un’associazione locale che si batte per i diritti degli immigrati senza documenti, aveva organizzato una manifestazione. lungo il tragitto sono passato davanti al campus dell’Arizona state university, dove centinaia di studenti in pantaloncini e sandali si spostavano da un’aula all’altra o aspettavano l’autobus con gli auricolari nelle orecchie. osservando il campus non si sarebbe detto che in città stesse per succedere qualcosa. nel Civic space park una cinquantina di persone di tutti i colori e le età erano in piedi o sedute sotto gli alberi. C’erano casse d’acqua impilate in piramidi sbilenche. Qualcuno stava ancora scrivendo i cartelli per la manifestazione. Un nero corpulento indossava una maglietta con la scritta: “nah – Rosa Parks, 1965”. sul prato e intorno al gruppo c’erano alcuni senzatetto accovacciati sotto gli alberi. Un uomo a torso nudo era seduto su un sacco a pelo lacero e ogni tanto lanciava ordini incomprensibili. Ho parlato con alcuni degli organizzatori della manifestazione, mi hanno detto che volevano andare al centro congressi alle 16.30. Gli ho spiegato che ci ero appena stato e che c’era poca gente. Se le porte aprono alle quattro, ho detto, dopo mezz’ora saranno già tutti dentro. sono tornato al centro congressi e ho avuto conferma della mia ipotesi. alle elezioni presidenziali Trump ha conquistato l’Arizona con un margine ridotto, e il sondaggio più recente indicava che il 52 per cento degli abitanti dell’Arizona non era soddisfatto del suo operato. C’era la possibilità che il calo di popolarità di Trump e il caldo insopportabile – ormai eravamo a 42 gradi – soffocassero qualsiasi desiderio che le persone potessero ancora avere di vedere Donald Trump salire su un palco e dire tutto quello che gli passava per la testa. all’ingresso del centro c’erano le stesse persone che avevo visto alle due. le porte erano ancora chiuse. sono passato davanti a loro e ho proseguito su second street. la ila arrivava alla fine dell’isolato. C’erano coppie di anziani bianchi, gruppi di uomini di mezza età con le magliette Trump-pence. Uomini e donne che indossavano polo rosa uguali. Una donna su una sedia a rotelle. Un uomo con un cartello che diceva “vecchio messicano per Trump”. Ho girato l’angolo e la ila continuava. Scendeva giù per Washington street per un isolato. alle spalle del centro congressi c’era una fila di camion della spazzatura arancioni, presumibilmente messi lì per proteggere le persone in coda da un possibile attacco con un’automobile. ho camminato lungo la coda fino a dove pensavo finisse, ma in realtà era solo interrotta dall’incrocio, e subito dopo continuava fino all’altro lato di Washington street. poi scendeva lungo una strada laterale e risaliva. ho cercato la fine della ila per mezz’ora, senza trovarla. Continuavano ad arrivare persone, che sembravano più tranquille di quelle – apparentemente più appassionate – arrivate ore prima. non portavano cartelli né altri oggetti. non avrebbero potuto. su Washington street c’era uno schermo con l’elenco delle cose che non si potevano portare nel centro congressi: aerosol, munizioni, animali che non fossero cani guida, zaini, borse e cartelli, biciclette, palloni, borse frigo, droni e altri oggetti volanti, esplosivi, armi da fuoco, contenitori di vetro e metallo, puntatori laser, spray al peperoncino, pacchi, bastoni da selfie, strutture, supporti per cartelli, pistole giocattolo, armi di ogni tipo, qualsiasi altro oggetto potesse costituire un potenziale pericolo. Tutti questi divieti davano un netto vantaggio ai contestatori di Trump, che si erano radunati sulla scalinata tra Third street e Washington street per affrontare i sostenitori del presidente. Avevano cartelli, megafoni, tamburi e costumi. C’era una donna con un cartello che diceva “forza Mueller!” (Robert Mueller è il procuratore speciale che sta indagando sui rapporti tra i funzionari russi e il comitato elettorale di Trump) e un uomo con una maglietta con la scritta “Bernie fucking Sanders”. Un altro era vestito da suora e aveva un cartello che diceva: “mi avevano detto che ci sarebbe stata una festa… accidenti. È la festa sbagliata”. In altre zone della città, la polizia aveva fatto un ottimo lavoro, garantendo che gli americani per Trump restassero lontani dagli americani contro Trump. nella maggior parte dei casi le fazioni erano piazzate ai due lati di grandi strade protette da barriere, ma in quell’angolo non c’erano barriere né poliziotti e i due gruppi potevano entrare in contatto. Questo rendeva ancora più surreale e tragico assistere ai loro scambi geniali e quasi imbarazzati. la posizione della scalinata e il modo in cui si era formata la fila rendevano quasi teatrale la comparsa dei sostenitori di Trump davanti ai manifestanti dello schieramento opposto. mentre i primi scendevano da Washington street verso Third street, un muro li nascondeva agli occhi dei contestatori e nascondeva i contestatori ai loro. poi, superato quel muro, i sostenitori di Trump – con le loro magliette rosse e i pantaloncini bianchi, i berretti dei reduci dalle guerre all’estero e le sedie a rotelle – si trovavano improvvisamente davanti l’immagine di una folla di altri americani che sventolavano cartelli e gridavano slogan e in cui li accusavano di essere nazisti e fascisti. I sostenitori di Trump guardavano quella folla apparsa all’improvviso e, se riuscivano a superare la sorpresa, sorridevano e tiravano fuori i telefoni per fotografarla. e i manifestanti, quando vedevano che i loro avversari erano quasi tutti disarmati e inoffensivi, che non avevano cartelli né armi né niente, rimanevano senza parole. era una cosa strana. In quell’incontro ravvicinato tra i due gruppi stava succedendo qualcosa. Un riconoscimento. avevano l’imbarazzante consapevolezza di essere per molti aspetti simili. I trumpiani non avevano la schiuma alla bocca e non dicevano cose razziste. erano madri, padri e adolescenti, famiglie che per qualche motivo tolleravano il comportamento miserabile del loro presidente. I contestatori di Trump erano sconcertati. sembrava strano urlare “nazisti” a due anziani con le magliette gialle o a tre boyscout. Così, pur avendo i sostenitori di Trump a pochi centimetri di distanza, non dicevano quasi mai niente. poi è successo qualcosa di particolarmente strano: un ragazzo che era tra i contestatori ha cominciato a gridare “Usa! Usa!”. non è uno slogan comune tra quelli che manifestano contro Trump, visto che in genere è associato ai giovani bianchi ubriachi, perciò pochissimi di quelli che erano con lui si sono uniti al coro. I sostenitori di Trump che erano in fila all’inizio erano confusi, ma poi hanno cominciato anche loro a scandire “Usa! Usa!”. È probabile che i due gruppi avessero idee diverse sul significato di quella sigla, ma è stato comunque un momento di relativa armonia in una giornata cupa. Gli stati Uniti sono l’unico paese industrializzato che consente ai civili di portare armi da fuoco a una manifestazione di protesta. È evidente che questo costituisce un pericolo per tutti i presenti, poliziotti compresi. L’Arizona non pone limiti al possesso di armi, quindi la polizia non può vietare a nessun essere umano, purché abbia un porto d’armi valido, di arrivare a una manifestazione come quella di Phoenix con un’arma e munizioni sufficienti per uccidere altri cento esseri umani. Il fatto che quel giorno le persone più armate fossero anarchici della classe operaia bianca sottolinea la follia della vita in America nell’era di Trump. Intorno alle cinque ho notato, dall’altra parte del centro congressi, gruppetti di ragazzi e ragazze con vestiti color verde militare e giubbotti antiproiettile. sul petto portavano la scritta “John Brown gun club”. sembrava che avessero armi semiautomatiche. mi sono avvicinato a uno di loro, un uomo alto con la barba color ruggine, e gli ho chiesto come si chiamava. ha detto di chiamarsi John Brown. “È vero?”, gli ho chiesto indicando quello che sembrava un ar-15, un fucile leggero d’assalto. lo portava a tracolla e teneva l’indice sul grilletto. Infilati nella cintura aveva altri due caricatori. “sissignore”, ha detto. “In Arizona è consentito portare armi in luoghi pubblici, e quindi anche a Phoenix”. sudava copiosamente e, anche se cercava di apparire molto sicuro di sé, sembrava nervoso e parlava a scatti. “la nostra è un’organizzazione che difende la comunità”, ha detto. “Siamo antirazzisti. siamo contro i nazionalisti bianchi”. appartenevano a un’associazione chiamata redneck revolt, che ha sezioni in tutto il paese. Sul suo sito, il gruppo dice di opporsi “allo stato-nazione e alle sue forze armate che proteggono i ricchi e potenti”. I suoi iscritti vanno sempre più spesso alle manifestazioni dei nazionalisti bianchi, e sono l’immagine speculare dei bianchi delusi che hanno determinato la vittoria di Trump in Pennsylvania, Michigan e Ohio. “la partecipazione dei lavoratori bianchi a organizzazioni statali e paramilitari e a formazioni come il ku klux klan, i minutemen, l’esercito degli stati Uniti e il Council of conservative citizens danneggia la lotta per la libertà di tutti”, si legge sul loro manifesto. “Tenendo conto di questo conflitto speriamo di incoraggiare un movimento dei lavoratori bianchi che vada verso la totale liberazione di tutti i lavoratori, indipendentemente da fattori come il colore della pelle, la religione, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o qualsiasi altro elemento di divisione usato dai padroni e dai politici per dividere i movimenti che lottano per la libertà sociale, politica ed economica”. a pochi passi da John Brown, due agenti cercavano di creare una distanza di sicurezza tra un muro di manifestanti e un uomo con il megafono che agitava un cartello con la scritta “Tutti i veri musulmani sono jihadisti”. era lo stesso tizio che sosteneva che le donne con la gonna meritano di essere stuprate. ha parlato tutto il giorno senza riscuotere consensi. ho chiesto all’uomo che diceva di chiamarsi John Brown come stava reagendo la polizia alla presenza di miliziani armati al centro di Phoenix. “senza dubbio ci stanno tenendo d’occhio”, ha detto. Un discorso sconnesso per tutto il giorno la polizia si era comportata in modo tranquillo e professionale. la maggior parte degli agenti indossava l’uniforme d’ordinanza e si muoveva tra la gente senza dare mai la sensazione di voler reagire in modo eccessivo. sorvegliavano la folla dai tetti e da un parcheggio aperto all’angolo tra la second street e monroe street. sembrava che, nonostante la presenza di militanti armati e il sole cocente di agosto, la chimica di quella particolare giornata favorisse rapporti relativamente tranquilli e amichevoli. non c’erano neonazisti o almeno non in gran numero. In realtà in giro non si vedeva nessuno di destra armato. Inaspettatamente, quelli che sembravano cercare lo scontro erano soprattutto gli oppositori di Trump. ho visto solo una scritta vagamente minacciosa portata da un sostenitore del presidente, che è rimasto seduto quasi tutto il giorno in un bar all’aperto davanti al centro congressi con il suo cartellone appoggiato al tavolo che diceva: “se non fate casino, non faremo casino”. Quasi tutti i manifestanti erano lì per sfidare gli uomini, le donne e i bambini arrivati per assistere al comizio. alle cinque del pomeriggio cinquemila persone erano schierate davanti al centro congressi. poi i sostenitori di Trump che erano rimasti in ila nonostante il caldo sono finalmente arrivati all’angolo tra second street e monroe street, dove c’era un posto di controllo. subito dopo essere stati perquisiti sono stati incanalati come bestiame diretto al macello, e si sono trovati davanti cinquemila manifestanti che gli urlavano contro dall’altra parte della strada. “siete nazisti o no?”, gridavano. Un gruppo di ragazzi ha cominciato a prenderli di mira uno per uno, criticando il loro aspetto fisico e il modo in cui erano vestiti. “Devi fare un po’ di ginnastica, amico”, hanno gridato a un uomo sovrappeso con una maglietta di Trump che non riusciva a coprirgli tutta la pancia. per tutta risposta i trumpiani sorridevano e scattavano foto ai contestatori – tutti facevano fotografie, e faceva un strano effetto – e ogni tanto mostravano il dito medio. poi sparivano dentro il centro congressi. Trump ha cominciato a parlare alle sette, e la maggior parte dei contestatori ha aspettato fuori, dietro le barriere. C’erano buone probabilità che il presidente concedesse la grazia ad Arpaio, e in quel caso c’era il rischio che i manifestanti diventassero più aggressivi. ma nel frattempo aspettavano. si rinfrescavano con l’acqua fornita dai frati che erano davanti alla basilica di st. Mary, suonavano i tamburi e controllavano i telefoni per vedere se c’erano notizie di quello che stava succedendo all’interno. Una donna sola sulla sessantina, che non pesava più di cinquanta chili, era ferma sul marciapiede con un cartello che diceva “abbracci gratis”, e faceva ottimi affari. Trump ha tenuto un discorso sconnesso in cui ha lasciato intendere che avrebbe graziato Arpaio e sembrava chiedere l’approvazione della folla (che gliel’ha data ma senza entusiasmo). ha accusato i mezzi d’informazione di mentire e di essere ingiusti nei suoi confronti; ha insultato i due senatori repubblicani dell’Arizona, Jef Flake e John mcCain; ha incoraggiato i suoi sostenitori a chiedere l’arresto di Hillary Clinton; non ha parlato dei dieci marinai statunitensi appena morti in una collisione con una petroliera; non ha parlato dei due agenti morti a Charlottesville; ha detto che a Phoenix c’erano pochi contestatori, ma in realtà erano almeno diecimila; ha riscritto la storia della sua reazione ai fatti di Charlottesville, omettendo proprio le parole che avevano provocato l’indignazione di buona parte del paese e del mondo. Intorno alle otto e un quarto il comizio stava finendo. Polizia fuori controllo C’erano ancora 38 gradi, l’aria era impregnata dell’odore di incenso, sudore e asfalto bollente. Durante tutto il giorno più di cinquanta persone si erano sentite male per il caldo, però su monroe street c’erano ancora duemila manifestanti che aspettavano l’uscita dei sostenitori di Trump per insultarli. ma sarebbero rimasti delusi. “Guardate”, ha detto qualcuno. ero all’angolo tra monroe street e Third street, appoggiato alla barriera davanti al centro congressi. ho alzato gli occhi e ho visto una passerella di vetro che collegava l’edificio a sud con quello a nord. era a una decina di metri di altezza, un corridoio trasparente che attraversava Third street, ed era pieno di persone che uscivano rapidamente dal centro congressi. Dalla nostra posizione li vedevamo, e la delusione di quelli che erano dietro le barriere è stata profonda. ma il resto dei manifestanti, schierati lungo monroe street fino a second street, non poteva vedere quella fuga ordinata. Continuavano ad aspettarli. I poliziotti in assetto antisommossa e armati di scudi erano fermi in mezzo alla strada e guardavano la scena con aria distaccata. per tutto il giorno si erano comportati in modo sensato e professionale. si erano spostati tranquillamente da un gruppo di manifestanti all’altro e, almeno per quanto avevo visto, avevano trattato tutti in modo civile e gioviale. all’improvviso, anche se l’atteggiamento e le dimensioni della folla non erano cambiate, il numero dei poliziotti è aumentato. Dal centro congressi ne sono usciti una ventina in assetto antisommossa, e altri dieci sono arrivati su delle biciclette che hanno piazzato tra loro e i manifestanti. lungo monroe street si vedevano almeno altri settanta agenti, tutti con le maschere antigas. l’atmosfera è cambiata. Vedendo l’atteggiamento sempre più minaccioso della polizia, i manifestanti hanno cominciato a ricordare agli agenti il loro diritto a manifestare. “È una protesta pacifica”, ripetevano. “al servizio di chi siete? Chi state proteggendo?”. Vicino a me un’anziana afroamericana ha cominciato a provocare uno degli agenti in piedi dietro alla sua bicicletta. “ehi tu, piccolino. sei proprio un ometto”, ha detto. “potrei nasconderti sotto la mia gonna. Immagino che porti tutto quell’armamentario per compensare la tua altezza…”. era divertente. È andata avanti così per cinque minuti. e l’agente non ha reagito. nessuno di loro ha reagito. era stata una giornata tranquilla, e lo era ancora. erano stati tutti ragionevoli. per tutto il giorno nessuno aveva fatto stupidaggini, anche se c’erano i presupposti della follia. Intorno alle otto e mezza ho guardato verso second street e ho visto del fumo. non si capiva come fosse cominciato. Quasi subito i venti poliziotti che erano da quella parte dell’isolato sono diventati ombre che si stagliavano su una nebbia bianca. Non sembravano preoccupati per il fumo, e nessuno si muoveva, quindi ho immaginato che fossero stati loro a provocarlo. Indossavano caschi e maschere antigas, e nessuno di loro sembrava allarmato o agitato. poi, dal marciapiede dove c’erano i manifestanti, è partita una bottiglia d’acqua – una sola – che dopo aver percorso un arco tra la nebbia è caduta in mezzo ai poliziotti. Ero a 15 metri di distanza e ho visto chiaramente che non ci sono state altre provocazioni. A quel punto si è scatenato l’inferno. Un agente in tenuta antisommossa è uscito da dietro la barriera, ha puntato una pistola sopra le teste dei manifestanti e ha sparato. È stato come uno scoppio di tuono. la gente ha cominciato a urlare e a correre in tutte le direzioni. lui si è girato e ha sparato in direzione di Third street. Un altro tuono ha squarciato il cielo, forte come un colpo di cannone. mi sono girato verso il ragazzo che era accanto a me. era un bianco con i ricci color sabbia e gli occhi azzurri. “Hai visto qualcosa?”, gli ho chiesto. “niente”, ha detto, e se n’è andato. La polizia non aveva lanciato nessun avvertimento. Nell’aria sono rimbombati almeno altri quattro tuoni. non si capiva cosa fossero quei rumori. Bombe? non circolavano informazioni. si è creata una calca. nel giro di qualche secondo le migliaia di manifestanti che erano sulla monroe sono scappati, ne restavano solo poche decine. poi si è sentito un rumore secco. poteva provenire da un fucile o da un petardo. ancora nessuna informazione dalla polizia. “Oh mio dio, oh mio dio”, gridava una donna. Sulle nostre teste ronzavano gli elicotteri. Mi sono spostato di corsa dietro alle barriere per vedere cosa stava succedendo su monroe street. La strada era avvolta da una nebbia bianca. I poliziotti l’hanno attraversata in ordine sparso, hanno aperto la barriera dalla parte dei contestatori e si sono inoltrati tra quello che restava della folla. Davanti all’herberger theater center, venti agenti disposti a cuneo, tutti in assetto antisommossa e con gli scudi trasparenti, stavano avanzando come soldati spartani verso due manifestanti. Uno era un afroamericano alto e magro, che aveva alzato le mani sopra la testa in segno di resa. accanto a lui c’era una donna dai lunghi capelli scuri, anche lei con le braccia alzate. non si capiva se avessero intenzione di arrestarli. Forse era stato uno di loro a lanciare la bottiglia che aveva scatenato la reazione. a pochi passi di distanza c’era un candelotto da cui usciva un fumo giallo. Il gas si è propagato e ha coperto la scena di un velo giallo pallido. Dato che non c’era stato nessun avvertimento da parte della polizia, e considerando che il fumo bianco precedente, per quanto ne sapevo, si era rivelato innocuo, ho dato per scontato che anche questo fosse inoffensivo. Qualcuno tra la folla ha gridato: “Gas lacrimogeno!”, ma mi sembrava illogico e improbabile. Il gas lacrimogeno contiene un agente chimico che causa problemi di respirazione, attacchi di cuore e aborti. È considerato così pericoloso che la convenzione sulle armi chimiche del 1993 ne ha vietato l’uso in guerra. l’accordo è stato firmato da quasi tutti i paesi, compresi gli stati Uniti. mi sembrava impossibile che la polizia di Phoenix usasse un gas tossico contro cittadini statunitensi che manifestavano, anche se uno di loro aveva lanciato una bottiglia d’acqua. accanto a me c’era una ragazza. abbiamo ignorato il gas giallo e ci siamo avviati verso il nero e la donna con le mani alzate. Un uomo anziano ci è passato accanto correndo e ha detto: “Quel gas vi metterà fuori combattimento. non c’è da scherzarci”. Occhi in fiamme abbiamo continuato ad andare verso l’uomo e la donna minacciati dalla falange di poliziotti. C’era il pericolo che, in quel caos, potessero subire delle violenze. mentre ci avvicinavamo agli agenti che avanzavano, un colpo di vento ha spostato la nuvola gialla e improvvisamente c’eravamo dentro. L’effetto del gas lacrimogeno sugli occhi e i polmoni non è immediato. Ci sono voluti tre secondi prima che i miei occhi cominciassero a bruciare come se si stessero sciogliendo. all’improvviso si sono chiusi e le lacrime mi hanno inondato la faccia, mentre i miei dotti lacrimali cercavano di reagire espellendo il vapore che copriva gli occhi e la pelle. mi sono fermato e piegato in due. Quando il gas mi è arrivato alla gola e ai polmoni, non riuscivo più a respirare. era come inalare plastica fusa con una cannuccia. Davanti a un agente chimico, il corpo lotta e si ribella provocando spasmi. Soffocavo, tossivo, starnutivo. Mi colava il naso e sentivo una stretta al petto. Aprivo e chiudevo gli occhi freneticamente, e mentre incespicavo lungo Third street per allontanarmi dal fumo, vedevo dei flash di quello che mi stava succedendo intorno. Nei giardini dell’herberger center c’erano sculture a grandezza naturale di uomini, donne e bambini che danzavano. Nella nebbia giallastra, quelle figure sembravano vittime dell’eruzione di Pompei rimaste immobili mentre agitavano le braccia. lungo tutta la strada persone reali erano in ginocchio, correvano, soffocavano. Due uomini stavano aiutando una donna anziana che sembrava disorientata e confusa, non riusciva più a camminare. L’hanno fatta sedere sul marciapiede, ma da monroe street arrivava ancora il fumo giallo. l’hanno sollevata di nuovo e si sono avviati verso Van Buren street. Nella nebbia gialla ho intravisto la ragazza che era accanto a me davanti al teatro. Un ragazzo con gli occhiali cerchiati di nero le stava sciacquando gli occhi con una bottiglia d’acqua. lei ha alzato lo sguardo, con il viso bagnato ma l’espressione sollevata. Aveva recuperato la vista. nella bottiglia era rimasto un goccio d’acqua, e il ragazzo ha sciacquato gli occhi anche a me. L’effetto è stato immediato. Il gas mi bruciava ancora la gola e i polmoni, ma almeno vedevo. sono corso giù per Third street e ho raggiunto la donna anziana. ho cercato di offrirle dell’acqua per sciacquarsi gli occhi. non ha capito e mi ha allontanato. Tutto intorno, la gente cercava di pensare, respirare, vedere. si ammassava sulle soglie delle case. sono passate di corsa due ragazze con una maglietta gialla su cui era scritto “osservatore legale”. “Cosa è successo?” ho chiesto. Non ne avevano idea. “ho visto solo una bottiglia d’acqua”, ha detto una di loro. Gli elicotteri ronzavano sulle nostre teste puntando fari potentissimi sulla folla, come luci psichedeliche che proiettavano ombre frastagliate. Un altoparlante invitava le persone che erano ancora in strada a disperdersi. Era la prima comunicazione dalla polizia. non avevano ordinato alla folla di disperdersi prima di lanciare i candelotti di gas lacrimogeno. Non c’era stato nessun avvertimento. ora il gas scendeva rapidamente lungo Third street, avvolgendo l’isolato. Quelli che si erano fermati a sciacquarsi gli occhi e a riprendere fiato hanno ricominciato a correre. si premevano camicie, fazzoletti e asciugamani sulla bocca. Buona parte della strada era ancora aperta al traffico. le macchine e gli autobus si dirigevano ignari verso monroe street, verso il gas. Un manifestante con una bandana sulla bocca si è piazzato in mezzo alla strada per dire agli automobilisti di tenere i finestrini chiusi e di spegnere l’aria condizionata. “C’è gas lacrimogeno nell’aria!”, gridava. alcune decine di persone si erano riunite davanti a un ristorante hooters, all’angolo tra Third street e Van Buren street. “Avete visto qualcosa?”, chiedevano. Nessuno riusciva a capire cosa avesse spinto la polizia a reagire. Nel ristorante decine di persone, che avevano tutta l’aria di essere oppositori di Trump, guardavano in tv la diretta di quello che stava succedendo. Fuori, in mezzo alla strada, un uomo bianco agitava una bandiera neonazista più grande di lui. Non riusciva a farla aprire e sventolare come voleva, la stoffa continuava ad avvolgerglisi intorno. Un taxi a pedali a tre ruote è emerso dalla nebbia gialla. “Non vedo un cavolo!”, gridava il guidatore. Sotto assedio per tutta l’ora successiva abbiamo visto come sarebbe apparso il centro di Phoenix durante una guerra o se fosse stata proclamata la legge marziale. La calma e la relativa civiltà che avevano regnato fino a poco prima erano sparite. La polizia aveva acceso una scintilla su una miscela potenzialmente esplosiva. a quel punto sembrava che potesse succedere di tutto. In giro c’erano venticinque uomini del John Brown gun club, tutti pesantemente armati, c’erano un po’ di Bikers for Trump, c’erano gruppi di ragazzi che morivano dalla voglia di menare le mani: ne ho incrociati quattro su Van Buren street, uno dei quali indossava la giacca dei confederati. Qualsiasi fanatico avrebbe potuto cogliere l’occasione per sfogare la sua rabbia con una pistola. o con una macchina. Come a Charlottesville, c’erano molti manifestanti che camminavano e correvano sui marciapiedi. per un martire dei suprematisti bianchi era un posto pieno di potenziali bersagli. a quel punto tutte le persone che incrociavamo potevano rappresentare un pericolo. Ci lanciavamo occhiate per cogliere eventuali segnali. nell’oscurità giallastra mi sono passati vicino due ragazzi. Indossavano magliette di Trump a rovescio. Gli elicotteri volavano in cerchio illuminando i gruppi di persone che correvano lungo le strade e i marciapiedi per cercare di arrivare a casa o di nascondersi. nessuno si idava più di nessuno. ormai sembrava che chiunque potesse fare qualsiasi cosa.
La polizia aveva acceso una scintilla su una miscela esplosiva
L’autore
Dave Eggers è uno scrittore statunitense. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Eroi della frontiera (mondadori 2017).

Da sapere
Giorni di tensione
11 agosto 2017 Gruppi di estrema destra si radunano a Charlottesville, in Virginia, per protestare contro la rimozione della statua di Robert E. Lee, generale del sud schiavista durante la guerra civile. Il giorno dopo attivisti di destra e di sinistra si scontrano nelle strade. Un’auto investe un gruppo di antifascisti, uccidendo Heather Heyer, una donna di 32 anni. Il presidente Donald Trump viene criticato per non aver preso le distanze dai gruppi di estrema destra. 22 agosto Trump tiene un comizio in un centro congressi a Phoenix, in Arizona. Fuori migliaia di persone manifestano contro il presidente e i suoi sostenitori. Ci sono anche alcune decine di persone con fucili semiautomatici. nel pomeriggio, senza che ci siano state provocazioni, la polizia carica i contestatori del presidente usando gas lacrimogeni e spray al peperoncino. 8 ottobre Circa cinquanta persone guidate dal suprematista bianco Richard Spencer marciano per le strade di Charlottesville urlando slogan come “non prenderete il nostro posto”.

Internazionale 13.10.2017
Il socio misterioso
Una piccola compagnia aerea cinese è diventata un enorme conglomerato che oggi controlla l’aeroporto di Francoforte e la Deutsche Bank. Ma non è chiaro chi sia il proprietario
di Christoph Giesen, Meike Schreiber e Kai Strittmatter, Suddeutsche Zeitung, Germania


L a compagnia cinese Hainan Air Group (Hna) vola ancora. Anche all’isola tropicale di Hainan, un tempo selvaggio sud del selvaggio oriente, dove, poco più di trent’anni fa, tutto è cominciato. Lì i più temerari potevano fare cose che nel resto del paese avrebbero suscitato allarme. A Pechino ci imbarchiamo su un aereo Hna, atterriamo sull’isola all’aeroporto Hna e lungo la strada verso Haikou, la capitale, superiamo un cantiere dopo l’altro dell’Hna immobiliare. In città ci registriamo in un hotel Hna, mangiamo in un ristorante Hna. E cerchiamo anche di parlare con qualcuno della sede centrale dell’Hna. Dal 31° piano c’è una vista meravigliosa su Eco Pearl: un’isola ecologica in costruzione, che dovrebbe essere autosufficiente e avere anche un porto per gli yacht, su cui l’azienda ha investito un paio di miliardi. La struttura della sede centrale dovrebbe ricordare un budda seduto, ma non gli somiglia molto. Da qui il colosso dei trasporti aerei, del settore immobiliare, della finanza e del turismo amministra un impero economico globale. Il fondatore del gruppo, Chen Feng, 64 anni, dice di essere un buddista convinto. Quando, un paio di anni fa, il Boston Globe gli ha chiesto quali erano gli obiettivi della sua azienda, lui ha risposto: “Per prima cosa la compassione. Poi l’illuminazione e la saggezza, e infine fornire un servizio all’umanità intera”. Chissà se l’umanità è pronta a riceverlo. Le domande sono molte (a chi appartiene l’azienda? Da dove vengono tutti i suoi soldi?) e le risposte languono. Dobbiamo accontentarci di frasi generiche degli addetti stampa, come: “L’Hna si sta impegnando per rendere il mondo un posto migliore per tutti”. Desiderio irrinunciabile L’Hna è emersa in pochissimo tempo, come altre multinazionali cinesi che oggi comprano aziende in giro per il mondo. Ma nessun’altra è così aggressiva. Ha mantenuto il suo nome originario anche se ormai ha preso la forma di un conglomerato attivo a livello globale. Un’azienda che fattura quanto la Siemens o la Bmw, ma la cui struttura rimane un mistero. Nel 1993 il volume d’affari dell’Hna era di circa 17 milioni di dollari, oggi è di 90 miliardi. È una società volutamente impenetrabile, che ha investito più di 40 miliardi di dollari all’estero. Possiede una parte della catena di alberghi Hilton, ha acquisito un’azienda statunitense che vende prodotti informatici all’ingrosso e il fornitore svizzero di servizi aeroportuali Swissport. In Germania ha salvato l’aeroporto di Francoforte-Hahn. E all’inizio dell’anno è entrata nel gruppo Deutsche Bank, le cui azioni, nell’autunno del 2016, erano precipitate ai minimi storici. Da maggio del 2017 l’Hna possiede il 9,9 per cento delle azioni della banca tedesca, ed è quindi il suo principale investitore. Ora sta valutando se comprare il gruppo assicurativo Allianz, che in borsa vale 83 miliardi di euro. Chen Feng sembra lontano dall’invito buddista a rinunciare ai desideri, considerati da questa filosofia orientale la fonte di ogni sofferenza. Al forum economico mondiale di Davos del 2014, ha confessato che il suo sogno era vedere l’Hna tra le cinquanta aziende più grandi del mondo. Quest’anno si è classificata tra le prime cento. Finora, però, il 2017 non è stato un buon anno per l’azienda, che si trova improvvisamente in mezzo a diverse bufere, sia in Cina sia all’estero. Un tempo era il simbolo dell’inarrestabile crescita della Cina (George Soros aiutò la compagnia aerea con un finanziamento iniziale), ora sembra più il centro di un romanzo giallo: una multinazionale che va avanti a credito e ha al vertice un fantoccio che nel giro di una notte ha ceduto le sue azioni a una fondazione benefica. Senza contare le accuse di corruzione e di nepotismo e i legami con la politica. Nella trama c’è tutto. All’inizio dell’anno Miles Kwok, un miliardario cinese in esilio a New York, ha accusato il gruppo Hna di essere uno strumento nelle mani di wang Qishan, il braccio destro del presidente xi Jinping e quindi il secondo uomo più potente della Cina. Non c’è nessuna prova a sostegno delle accuse di Kwok, che a sua volta è un personaggio piuttosto ambiguo, ma ora molti negli Stati Uniti cominciano a interessarsi alla struttura opaca dell’Hna: chi si nasconde davvero dietro l’azienda? Finora le banche statali cinesi avrebbero prestato all’Hna 60 miliardi di dollari, molto più di quello che in genere è consentito alle banche di stato, il cui compito è finanziare le politiche del governo. L’Hna ufficialmente è un’impresa privata, ma cosa significa questo nella Cina di xi Jinping, dove le cellule di partito vivono una seconda vita nei consigli d’amministrazione e da lì continuano a decidere le politiche economiche del paese? Si sa che in Cina senza le amicizie giuste nessuno fa strada. La Bank of America ha deciso di non fare più affari con l’Hna. “Ci sono troppe cose che non sappiamo, e non vogliamo correre rischi”, ha scritto il responsabile per l’area asiatica in un’email ai colleghi. A settembre anche la banca d’affari Gold-man Sachs, in genere disponibile a trattare con nuovi clienti, ha seguito la stessa linea: di fronte al possibile ingresso in borsa di un’affiliata cinese dell’Hna, la banca statunitense avrebbe espresso timori per l’assetto proprietario. Inizialmente in Germania l’arrivo dell’Hna era stato accolto con entusiasmo. A due ore da Francoforte si esce dall’autostrada e si prende una strada provinciale piena di curve, si superano colline e paesini con case dai tetti spioventi e si arriva a un certo punto a Hahn, vicino a Hunsrück. Lì c’è un aeroporto che è stato a lungo un cruccio per i politici locali. Finché non è arrivato qualcuno a salvarlo: l’Hna. A inaugurare questa nuova era in un giorno assolato di fine agosto ci ha pensato randolf Stich, il segretario di stato del ministero dell’interno del land renania-Palatinato. Per le celebrazioni si aspettavano il primo aereo cargo in arrivo da xian e il nuovo investitore, l’Hna. Alla fine, però, non sono arrivati né il Boeing 747 proveniente dalla Cina (aveva un ritardo) né il nuovo amministratore dell’aeroporto mandato dall’Hna, wang Hexin (aveva avuto un contrattempo). I dipendenti dell’Hna presenti hanno parlato del rapporto di sostenibilità dell’azienda e Stich ha sottolineato che il gruppo cinese era un partner con “grande esperienza”: il conto (15,1 milioni di euro per assicurarsi l’aeroporto), era stato saldato subito. Da qui al 2020 l’Hna punta a limitare le perdite. Christoph Goetzmann, direttore operativo dell’aeroporto di Francoforte-Hahn, ha detto che chi “fa il proprio dovere” riceverà le informazioni sulla proprietà e sui metodi di finanziamento dell’azienda. Per l’aeroporto questi dati erano comunque “del tutto irrilevanti”. Goetzmann è un uomo dell’Hna. Una storia positiva Anche a Berlino i soldi dell’Hna sono stati accettati volentieri quando a febbraio del 2017 l’azienda è entrata nella Deutsche Bank, che si trovava in una situazione d’emergenza. Le polemiche non sarebbero mancate se per salvare la banca fosse dovuto intervenire lo stato, per di più nell’anno delle elezioni. Felix Hufeld, il capo del Bain, l’autorità federale tedesca per la vigilanza sulle banche, che dipende dal ministero delle finanze, aveva accolto l’investitore cinese parlando di “una storia positiva”, sottolineando che non c’era nessuna “lista nera” degli investitori. A sua volta, in primavera la banca ha dichiarato: “Siamo aperti a ogni soggetto interessato a investimenti di lungo periodo”. Prima del suo ingresso nella Deutsche Bank, Hufeld e l’ispettore bancario Raimund Röseler si erano fatti un’idea dell’Hna andando a incontrare Cheng Feng in Cina. Ora però c’è preoccupazione. È difficile capire cosa vogliano i cinesi dalla Deutsche Bank: buone opportunità di mercato e cambi favorevoli, o anche accesso al potere, ai finanziamenti, alle informazioni? Il fatto che le azioni della banca tedesca si siano minacciosamente riavvicinate ai valori del 2016 potrebbe spiegarsi in vari modi. Ma molti nella sede centrale dell’istituto di credito, a Francoforte, collegano questa nuova debolezza all’ingresso nella banca del grande azionista. Ci sono poi quelli che danno battaglia, come Jan Bayer. Ci ha dato appuntamento in un bar poco distante dalla torre della Deutsche Bank, proprio davanti agli uffici degli storici avvocati della banca. Anche Bayer è un avvocato, indossa una giacca a vento e un maglione scuro. Da anni è ai ferri corti con la Deutsche Bank ed è stato tra i primi a capire che la faccenda Hna poteva essere usata per fare pressioni sulla banca: da allora ci si è aggrappato con i denti e legge ogni testo o articolo sul gruppo cinese. Insieme ad altri avvocati e azionisti ha fatto causa alla Deustche Bank. Per la banca tedesca non è la prima causa, ma questa volta è diverso: in più di cento pagine Bayer cerca di convincere i giudici che i cinesi hanno interessi comuni con i secondi maggiori azionisti, sceicchi del Qatar. La legge lo proibisce e se l’accusa riesce a provarlo, gli investitori rischiano la revoca del diritto di voto al consiglio d’amministrazione. “Non si sa chi controlli di fatto l’Hna”, dice Bayer. tutto farebbe pensare “a un sistema piramidale per il riciclaggio di capitali dalla Cina. Il castello di carte dovrebbe crollare appena una banca si ritira”. Ma ci sono anche i supervisori della Banca centrale europea (Bce), che al momento non sanno che pesci prendere. Da settimane la Bce sta provando a sottoporre l’Hna e gli investitori del Qatar a una procedura di controllo sugli azionisti. L’obiettivo è stabilire se gli investitori della Deutsche Bank sono affidabili e soprattutto da dove arrivano i loro capitali. La cosa certa è che Chen Feng si definisce il presidente del gruppo e che si è dimostrato sempre creativo quando si è trattato di trovare nuovi finanziamenti, una qualità decisiva nella giungla del capitalismo cinese. Il serpente e l’elefante Figlio di funzionari pubblici, Chen Feng è nato nella provincia dello Shanxi, la provincia del carbone, ma è cresciuto a Pechino. All’inizio della rivoluzione culturale fu costretto a lasciare la scuola e si arruolò nell’aeronautica. Nell’isola di Hainan atterrò nel 1989, dopo il massacro di Tiananmen, per lavorare nella sede della Banca mondiale a Haikou. Quell’anno aiutò anche l’amministrazione della provincia a fondare una compagnia aerea: la Hainan Airlines. Le autorità stanziarono 1,4 milioni dollari, il resto riuscì a metterlo insieme Chen Feng: 37 milioni di dollari con cui furono comprati due boeing, così è nata la prima linea aerea cinese a maggioranza privata. Nel 1995 Chen Feng volò a New York e convinse George Soros a investire 25 milioni di dollari. Era solo l’inizio. “Molte imprese cinesi crescono rapidamente, a un ritmo sconosciuto in Europa o negli Stati Uniti”, dice Victor Shih, docente di economia politica a San Diego. “È difficile trovare un’azienda più aggressiva dell’Hna”. Quasi tutte le aziende e le quote che il gruppo cinese acquisisce sono subito usate come garanzia per aprire nuove linee di credito. E non una volta sola. “Se ha per le mani un miliardo di dollari, l’Hna va da cinque banche diverse e cerca di ottenere un miliardo da ognuna. Se le cose vanno bene può portarsi a casa cinque miliardi”. È una moltiplicazione di fondi straordinaria, che può riuscire solo in un paese come la Cina, a un’azienda con la necessaria copertura politica. È così che, come dicono in Cina, “un serpente può ingoiare un elefante”. Non si tratta di un rischio troppo grande per le banche? “No”, dice Shih, “perché spesso gli istituti di credito non finanziano direttamente le linee di credito, ma fanno solo da mediatori”. Tra i loro clienti. Il denaro con cui l’Hna inanzia i suoi round di acquisti proviene da diverse fonti: l’investimento nella Deutsche Bank è stato finanziato dalla banca svizzera Ubs. Fino a qualche mese fa, le banche statali cinesi erano state di manica larga, ora però questa generosità è finita. Con i guanti bianchi In Cina, dove non c’è uno stato di diritto, nemmeno l’azienda più ricca può sentirsi al sicuro. Gli uomini del presidente xi Jinping temono, a ragione, che molte aziende cinesi investano all’estero solo per mettere i loro milioni, o miliardi, al sicuro. temendo una fuga di capitali, Pechino ha chiuso i rubinetti per le acquisizioni all’estero. A differenza di altre grandi aziende cinesi come Dalian wanda o Anbang, finora l’Hna era sorprendentemente uscita indenne dalle campagne del governo. E questo anche se raccoglie miliardi nel sistema delle banche ombra, cioè fuori dal mercato regolare. Per esempio, facendo comprare a investitori o correntisti i cosiddetti wealth management products, chiamati anche “armi finanziarie di distruzione di massa” a causa dei gravi rischi che comportano. È così che l’Hna riesce a trovare soldi in fretta e senza limiti. Non è illegale, ma costa caro. Negli ultimi anni l’Hna ha raccolto diversi miliardi dalle banche ombra. “Le strutture opache dell’Hna sono state costruite per nascondere il vero assetto proprietario”, dice Victor Shih. “Non c’è dubbio che qualche politico potente protegga il gruppo”. Questo politico appartiene alla famiglia del secondo uomo più potente della Cina, wang Qishan, come ha affermato il miliardario Miles Kwok dal suo esilio newyorchese? Wang Qishan in Cina è il nemico numero uno della corruzione, è lo sceriffo del presidente xi Jinping. Wang e Chen Feng, il capo dell’Hna, si conoscono dagli anni ottanta, quando sono stati colleghi per un breve periodo. Non c’è nessuna prova a sostegno delle dichiarazioni di Kwok, ma il fuoco incrociato tra lui e l’Hna ha tenuto molti cinesi con il iato sospeso per mesi. L’Hna ha fatto causa a Kwok e la polizia cinese ha passato le indagini all’Interpol. È difficile stabilire chi dice la verità. La cosa certa è che la stessa Hna non fa molto per allontanare i sospetti. Fino a qualche mese fa il suo maggior azionista non era il fondatore Chen Feng ma un uomo di nome Guan Jun: un perfetto sconosciuto. Stando all’indirizzo riportato nei documenti, Guan Jun risiede a sud di Pechino, in una zona di palazzi malridotti. Qui dovrebbe vivere l’uomo che possiede il 30 per cento dell’Hna, circa il doppio delle quote di Chen Feng? L’Hna dev’essersi resa conto che la faccenda era poco credibile. Alla fine di luglio del 2017 il misterioso Guan Jun ha improvvisamente comunicato di aver ceduto la sua quota. Adam tan, amministratore delegato dell’Hna, ha spiegato che Guan Jun non avrebbe mai davvero posseduto le azioni, ma si sarebbe limitato a “tenerle per l’azienda”. L’Hna ha fatto sapere che “Guan Jun non è più azionista della società. Non lavora per il gruppo né rappresenta la società”. recentemente Guan Jun è apparso in un video. Sui 35 anni, con un forte accento pechinese, l’uomo ha negato di essere imparentato o vicino a qualche pezzo grosso cinese. “Io e mio padre ci siamo molto arrabbiati”, ha detto nel video. Sui suoi rapporti con l’Hna o su come fosse diventato un “guanto bianco”, come in Cina si chiamano i prestanome, nemmeno una parola. Un dettaglio non da poco: le azioni di Guan Jun sono andate alla Hainan Cihang charity foundation di New York. L’Hna appartiene dunque in gran parte a una fondazione benefica. Ma a chi fa del bene?
unv

Internazionale 13.10.2017
Forza lavoro
Dal 2014 il fotografo Michele Borzoni indaga sui cambiamenti nel mondo del lavoro in Italia. Dai concorsi dei dipendenti pubblici ai centri logistici delle multinazionali


Il progetto Forza lavoro del fotografo Michele Borzoni racconta il mondo del lavoro in Italia a quasi dieci anni dall’inizio della crisi economica. “Ho cominciato il progetto nel 2014 seguendo i concorsi per dipendenti pubblici e le aste fallimentari. Poi ho continuato con i call center, i centri logistici delle multinazionali (soprattutto nelle province di Piacenza e Pavia), l’industria tessile cinese a Prato e i braccianti che lavorano nei campi di Rosarno, in Calabria. Ma mi interessava anche mostrare fotograficamente la disoccupazione”, spiega Borzoni. Secondo i dati forniti dall’Istat, in Italia il tasso di disoccupazione è passato dal 6,7 per cento di maggio del 2008 all’11,2 per cento di agosto del 2017. La crisi ha pesato in modo significativo sui ragazzi e le ragazze: tra le persone che hanno tra i 15 e i 24 anni oggi il tasso di disoccupazione è del 35,1 per cento. I lavoratori più colpiti sono gli artigiani, gli operai specializzati, gli agricoltori e gli impiegati. L’uso delle nuove tecnologie per svolgere mansioni finora riservate alle persone, i cambiamenti demografici dovuti all’invecchiamento della popolazione e alle migrazioni e la globalizzazione sono tra i principali fattori che hanno modificato la domanda di lavoro. “Ho cercato di affrontare il tema con uno sguardo distaccato, a volte freddo, di catalogazione. Ma al tempo stesso volevo realizzare delle immagini in grado di coinvolgere chi le guarda", dice Borzoni. u Michele Borzoni è nato a Firenze nel 1979. Michele Borzoni è nato a Firenze nel 1979. Fa parte del collettivo fotografico TerraProject. L’organizzazione generale di questo progetto è stata curata da Zona.
Da sapere
 La mostra
La mostra Forza lavoro di Michele Borzoni fa parte della terza edizione di foto/Industria, biennale di fotografia dell’industria e del lavoro, che si svolge a Bologna dal 12 ottobre al 19 novembre. La manifestazione, promossa dalla fondazione Mast e diretta da françois Hébel, espone i lavori di quattordici fotografi.

Nella mostra:
Era di Roma, 2016. Concorso pubblico per l’assunzione di quaranta funzionari dell’arte presso il ministero dei beni e delle attività culturali. I candidati che hanno preso parte alla prova preselettiva erano 1.550.
Un call center del gruppo Call& Call, Pistoia, 2015. Il centro conta 250 dipendenti: l’80 per cento sono donne e l’età media è di 35 anni.
Un full light simulator dell’azienda Leonardo finmeccanica, divisione elicotteri, Vergiate, Varese, 2017. Nel 2016 circa novemila piloti sono stati formati dalla Training academy con tecnologie di realtà aumentata.
L’alfa engineering, Modena, 2017. È una cooperativa fondata nel 2012 da 18 dipendenti che hanno rilevato l’azienda per cui lavoravano quando questa ha dichiarato fallimento.
Una fabbrica occupata a San ferdinando, vicino a Rosarno, 2016. nello stabile vivono 250 braccianti africani durante la stagione di raccolta delle arance.
Una sartoria cinese nel distretto tessile di Macrolotto, Prato, 2016. Il laboratorio è stato messo sotto sequestro dalla polizia municipale di Prato. al centro: materiali messi in vendita dopo il fallimento della filatura Quattro Stelle, Vaiano, Prato, 2015.
Presidio sindacale dei dipendenti della Confederazione nazionale artigianato (Cna), Firenze.
Magazzino di zalando, Stradella, Pavia, 2017. L’azienda è specializzata nella vendita online di scarpe e vestiti in tutta Europa.