domenica 15 ottobre 2017

La Stampa 15.10.17
Se gli studenti non sanno più chi è un operaio
di Dario Di Vico

«Siamo studenti, non siamo operai». Uno slogan risuonato durante le manifestazioni studentesche di venerdì scorso ha animato il sabato della Rete. La trovata non è piaciuta nemmeno un po’ al segretario generale della Fim-Cisl Marco Bentivogli, che ha il pregio di non mandarle a dire ma di esporsi in prima persona.
Ecco il suo tweet: «Piccoli snob radical-chic monopolizzano i movimenti degli studenti contro il loro futuro. Chiedano scusa agli operai che a differenza loro sanno quanto paghiamo gli anni di ritardo sull’alternanza studio-lavoro». Il tweet ha generato risposte secche e insulti ma fin qui niente di nuovo. È interessante, invece, alla vigilia delle celebrazioni dell’anniversario del ‘68, ragionare sugli slittamenti culturali che riguardano la figura dell’operaio. Alla fine degli anni 70 il metalmeccanico era un mito. Lo studente in corteo cercava di seguirne l’esempio, si recava davanti alla fabbrica per condividere il momento magico del picchetto, ne riconosceva e invocava la funzione di «guida». Al punto che diversi vollero provare l’esperienza di lavoro alla catena di montaggio per conoscere da vicino il funzionamento del capitalismo, e far propria la «condizione operaia». Ai giorni nostri, con la Grande crisi alle spalle e i mille dilemmi sulla globalizzazione che avanza o che arretra, per gli studenti — almeno per la minoranza che ha manifestato — l’operaio non è più quel punto di riferimento d’antan. È cambiato quasi tutto e di classi operaie non ce n’è più una, indossando la stessa tuta si può essere tecnici del 4.0, addetti alle linee di montaggio oppure facchini della logistica. Tre lavori assai diversi tra loro. L’impressione è però che di questo mutamento i giovani sappiano poco/niente e la figura dell’operaio sia assimilata tout court al lavoro manuale o allo «sfruttamento». E da qui partono gli equivoci della via italiana all’alternanza studio-lavoro, che riassumerei così: come raccontare male ai giovani cos’è oggi il mondo della produzione e come volendoli attrarre siamo riusciti ad allontanarli.

il manifesto 15.10.17
Hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato Pd
Democrack. Sul palco del teatro Eliseo di Roma un decennale tragico, pieno di omissis e di assenti, alla ricerca disperata del «voto utile». Renzi agita lo spauracchio di Arcore: «Il nostro avversario è la destra di Salvini e Berlusconi». Appunti per dopo il voto: «l’Italia non può più conoscere maggioranze spurie», giura Veltroni
di Andrea Colombo

ROMA Oddio che mestizia! Più che la gagliarda celebrazione della nascita di un partitone, giusto 10 anni fa, questa festicciola all’Eliseo sembra la triste festa di provincia, andata male e finita peggio, cantata da Guccini in una delle sue più deprimenti canzoni.
I maestri di cerimonia, Walter il Fondatore, Matteo l’Erede, Paolo il Reggente, ci provano a mimare entusiasmo e vitalità, ma il risultato è increscioso. L’unico che rialza un po’ il morale è proprio Gentiloni, che almeno ha il dono di non prendersi troppo sul serio.
«IL PD È IL PD», esordisce lapalissiano per poi prendersi subito in giro da solo: «Che frase storica». Prosegue con un prudente: «Il progetto, bene o male, è riuscito» e si abbandona poi a un «Il Pd è vivo e lotta insieme a noi» che evoca ogni sorta di scongiuri, essendo appunto lo slogan che si urlava nei cortei quando qualcuno trapassava.
Forse i toni giusti sarebbero stati proprio questi: l’ammissione, sia pure tra le righe, che in questi dieci anni qualcosa non ha funzionato e il massimo sforzo di generosità possibile è proprio dire che «Bene o male il Pd c’è». Perché altrimenti non ci sarebbe bisogno di dissertazioni per smentire gli applausi che Veltroni e Renzi tributano a se stessi. Basta questa platea, con le sue innumerevoli assenze.
«Sembra una veglia funebre»
Arturo Parisi (non invitato)
DEI FONDATORI DEL PD c’è solo Walter, con alle spalle una sfilza di sconfitte, sue e dei successori, che consiglierebbe come minimo accenti più pacati.
L’OSANNATO PRODI neppure è stato invitato: avrebbe rovinato la lieta occasione col suo vagone di critiche. Di Enrico Letta nemmeno a parlarne. Parisi ha disertato, non senza dispensare prima un commento al cianuro: «Sembra casomai una veglia funebre». Giorgio Napolitano, furibondo, dirà la sua nell’aula del senato tra una decina di giorni, e picchierà durissimo. Bersani e D’Alema sono finiti nella lista nera dei traditori, odiati da una platea folta solo di fedelissimi, molti forti di un bel ministero, qualcuno, ma nemmeno tanti, solo della fede renziana.
Per colmo di sfregio, hanno scelto di svignarsela anche i leader della minoranza, come il ministro Orlando, il governatore Emiliano e Gianni Cuperlo. Politicamente, la sala dell’Eliseo è un deserto.
Ad ascoltare Walter Veltroni, incaricato di aprire le danze, è inevitabile chiedersi se nel suo animo gentile non alberghi un qualche imbarazzo quando cita a più riprese appunto Prodi, l’indesiderato, e quell’Ulivo che all’Eliseo è invece latitante. Quello di Prodi «è stato il miglior governo nella storia repubblicana», si commuove il nostalgico, che del resto del governo-campione era vicepresidente. Ad abbatterlo, prosegue, sono stati «i due mali storici della sinistra: il massimalismo e le divisioni».
Ricordare che in quelle divisioni l’allora partito di Veltroni e D’Alema non giocò un ruolo secondario o citare il secondo governo Prodi, sgambettato tra i primi proprio dal commosso oratore, sarebbe inopportuno.
«Se non ci fosse stato il Pd, la sinistra italiana sarebbe irrilevante»
Matteo Renzi
MA QUESTI SONO particolari. La voragine che il fondatore del Pd preferisce ignorare è che, per capriccio del caso malizioso, la decima candelina sulla torta nazarena viene spenta proprio mentre il Partito impone una legge elettorale destinata a diventare pietra tombale sul miraggio del «partito a vocazione maggioritaria».
Ma di altri contenuti, a parte le banalità sull’unità che è meglio delle divisioni o sulla libertà che sarebbe d’uopo coniugare con la giustizia, nel Pd veltroniano non ce n’erano.
«L’Italia non può più conoscere maggioranze spurie»
Walter Veltroni
DIECI ANNI DOPO, Veltroni torna al punto di partenza. Si augura che il partito vocato a non allearsi stringa solide alleanze. Queste, insegna, «si fanno prima e ci si presenta ai cittadini».
L’Italia, parola sua, «non può più conoscere maggioranze spurie». Detto in questo momento, quando anche i frequentatori dell’ultimo bar di provincia sanno che in cantiere c’è appunto l’alleanza più spuria, quella con Forza Italia, sembra un’affermazione azzardata.
In realtà è una precisa strategia propagandistica in vista della campagna elettorale.
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Il Condottiero, Matteo Renzi, rileva la palla alzata dal Maestro e rilancia alla grande: «L’avversario si chiama destra. Esistono due tipi di destra, quella populista dell’M5S e quella, più forte e preoccupante, di Berlusconi e Salvini. Abbiamo di fronte un corpo a corpo in tutti i collegi con il centrodestra».
«Nei collegi sarà un corpo a corpo con il centrodestra»
Matteo Renzi
È il piano di battaglia che Renzi ha illustrato più volte a porte chiuse: invocare il voto utile contro Berlusconi, spauracchio resuscitato, salvo poi allearsi, da posizioni forti, con il medesimo babau di Arcore.
FORSE SOLO QUI si realizza davvero l’abbraccio tra il Pd di Renzi e quello di Veltroni, che aveva a sua volta scommesso tutto, nel 2008, sul «voto utile». A Walter, che almeno si considerava davvero alternativo a Berlusconi, andò malissimo. A Matteo, che con il re azzurro invece medita di governare, potrebbe andare molto peggio.

il manifesto 15.10.17
Cofferati: «Il Pd? Una buona idea degenerata nel neoliberismo»
Uno dei fondatori del Pd. L’ex leader Cgil, oggi Mdp: «La rinuncia dei valori fondativi è stata progressiva ma ora è diventata una bussola»
di Massimo Franchi

«Un’idea buona e affascinante che è progressivamente degenerata nel neoliberismo, uccisa da Renzi che ne ha fatto un partito centrista, lasciando ora a noi la grande sfida di ricostruire una sinistra che recuperi l’astensionismo». Sergio Cofferati ha completato «con pazienza» la sua convalescenza e torna alla politica attiva: «Fra qualche giorno andrò a Taranto con Massimo D’Alema: sarà divertente».
Cofferati, torniamo a 10 anni fa. Lei era uno dei 45 saggi che fecero nascere il Pd. Pentito?
No, l’idea alla base della nascita del Pd nel 2007 era buona e molto affascinante. In questi giorni ho letto che l’anniversario viene letto tutto in chiave politicistica, invece prevaleva la componente ideale e culturale: mettere assieme due storie diverse ma convergenti, quella del riformismo socialista e comunista e quella del cattolicesimo unendole con esperienze più recenti come l’ambientalismo e i movimenti. La matrice di sinistra era evidentissima: il riformismo che puntava all’uguaglianza. Fu un tentativo nobile che riproponeva valori antichi.
Lo Statuto del Pd però dava già un imprinting molto verticale: il partito degli elettori, le primarie. E in poco tempo si capì che la fusione fredda Ds-Margherita non poteva funzionare.
Lo Statuto aveva dei limiti inevitabili anche perché la discussione nella commissione fu intensa ma breve perché la contesa elettorale era vicina. Io sostengo che nel primo periodo la nascita del Pd portò dei risultati: la deriva della destra Berlusconiana venne rallentata e poi fermata.
Ma la «vocazione maggioritaria» lanciata da Veltroni non provocò la fine dell’Ulivo? Prodi all’Eliseo non è andato ma è dal Lingotto che iniziò ad allontanarsi dalla sua creatura.
Penso che Walter (Veltroni, ndr) insistette sulla vocazione maggioritaria in positivo. E solo dopo il concetto fu radicalizzato. Di certo invece la nascita del Pd oggettivamente portò ad una ridefinizione dell’Ulivo, ad un dialogo con le forze fuori del Pd basato su basi diverse. Ma non era scritto da nessuna parte che portasse alla sua cancellazione. Dopo qualche anno ha prevalso l’idea del «facciamo da soli».
Veltroni è stato molto applaudito quando ha detto che «il sogno di un elettore di sinistra è 24 ore senza divisioni» e che la storia della sinistra è fatta in sostanza di lotte personali. E’ d’accordo?
Attribuire le divisioni ai comportamenti dei singoli è ridicolo, un sotterfugio per nascondere la verità. In tutta la storia della sinistra le divisioni sono nate su questioni di merito, magari accentuate da comportamenti individuali.
Se il Jobs act lo fa Renzi o lo avesse fatto Pincopalla la sostanza non cambia: è una legge sbagliata perché nega i valori della sinistra, riduce i diritti dei lavoratori, individuali e collettivi. Questa è la ragione delle divisioni di oggi. C’è chi se n’è accorto prima e chi dopo, ma tutti quelli che se ne sono andati dal Pd l’hanno fatto per ragioni politiche.
La degenerazione del Pd è arrivata con Renzi o è stata progressiva?
E’ stata progressiva e Renzi l’ha accelerata. Le leggi Fornero su pensioni e lavoro non le ha fatte e nemmeno votate Renzi. Di fronte alla crisi economica, il Pd ha rinunciato a rappresentare i suoi valori fondativi e ha accettato scelte imposte in parte dall’Europa e in parte della finanza. Quelle rinunce e quegli errori con Renzi sono diventati linea politica: il neoliberismo è diventato la bussola.
All’inizio la matrice di sinistra era evidentissima: il riformismo che puntava all’uguaglianza. Fu un tentativo nobile che riproponeva valori antichi
Sergio Cofferati
Renzi all’Eliseo ha detto: «Se non ci fosse stato il Pd, la sinistra italiana sarebbe irrilevante».
È un’affermazione priva di senso. Quando c’erano Ds e Margherita la sinistra non era irrilevante. Ma soprattutto oggi il Pd non è più di sinistra. Sia dal punto di vista delle politiche che propone – come il Jobs act, la Buona scuola, lo Sblocca Italia – che dal punto di vista dei criteri di gestione: le primarie ormai sono uno strumento che si usa a seconda delle convenienze. Dopo le primarie in Liguria in cui io denunciai brogli e accordi con la destra, fu cambiato il regolamento per Savona e poi non sono più state usate. Oggi se Renzi volesse veramente fare una coalizione per il Rosatellum dovrebbe proporre le primarie di coalizione. Ma non lo farà.
Fra dieci anni come se lo immagina il Pd? Esisterà ancora?
Fare previsioni nella politica italiana è particolarmente complicato. Dopo 10 anni il Pd non è più quello che molti avevano immaginato. E nessuno dei presidenti del Consiglio che lo avevano fatto nascere – Prodi, D’Alema, Letta – ne fa parte. Credo che il Pd finirà col rafforzare il suo profilo centrista: l’alleanza col centro – quella non dichiarata ma praticata perché Alfano e Verdini fanno parte della maggioranza – diventerà la regola.
Questo spostamento apre spazi a sinistra. La lista unica in costruzione sarà capace di coprirli?
E’ la grande sfida che abbiamo davanti. Dopo le Europee del 2014 i voti persi del Pd sono andati in parte al M5s, in piccola parte a sinistra, ma la stragrande maggioranza è finita nell’astensionismo. Dobbiamo dare una speranza a questo mondo vasto e variegato che in questi anni si è impoverito e ha meno tutele. La nostra priorità non è togliere voti al Pd – che li perderà da solo – ma recuperare chi non va più a votare.
Lei continua a definirsi un riformista. Cerchiamo di intenderci: considera riformismo quello proposto da Corbyn? E’ quella la strada per ridare speranza e riportare al voto il popolo di sinistra?
Certo. Corbyn è un riformista che propone un cambiamento radicale e necessario della società. Così come ha fatto – in un altro contesto – Sanders negli Stati Uniti. Il riformismo è avere obiettivi concreti per il cambiamento, radicalità nel prospettarli. Servono politiche per il lavoro e per nuovi diritti collettivi. Questa è la strada per la sinistra.

il manifesto 15.10.17
Pd, un non-partito proiettato alla deriva
Renzi si concede selfie al decennale del Pd all'Eliseo di Roma
di Michele Prospero

A dieci anni dalla nascita, il Pd si conferma non tanto un amalgama mal riuscito quanto un esperimento fallito.
È rimasto in giro un ibrido pericoloso per gli effetti sprigionati dai suoi detriti impazziti.
A confrontare la foto dei fondatori con quella degli attuali capi, viene la stessa impressione suscitata dalle immagini dei grandi protagonisti dell’Ottobre sovietico il cui volto all’improvviso scomparve dalla iconografia ufficiale del regime.
Il cattolicesimo sociale più radicale e con venature di rosso (Rosy Bindi) è fuggita da tempo dall’abbraccio con il cerchio gigliato di Rignano. I cattolici adulti (Prodi, Parisi, Monaco) hanno già allontanato la tenda dall’accampamento di un partito sfigurato. I cattolici dell’ala tecnico-moderata (Letta) sono inorriditi dalle arti magiche vendute all’ingrosso dal populismo di governo.
Tra i cattolici conservatori restano in scuderia gli andreottiani Guerini e Fioroni, l’ultra moderato Lotti, la fanfaniana Boschi che, rimuovendo organiche inclinazioni bancarie con un impeto di egualitarismo, propone di pagare allo stesso modo i calciatori maschi e femmine, il manipolatore delle regole democratiche del voto (Rosato). E si barcamena tra le macerie l’eterno viandante Franceschini che idee non coltiva ma si pone agli ordini di qualsiasi leader, pur di conservare margini di potere.
A resistere, tra quanti vengono dalla sinistra, sono soltanto i piemontesi che giocano a carte con Marchionne e controllano gli enti locali e le fondazioni bancarie (Fassino, Chiamparino), il vecchio capo delle cooperative un tempo rosse e ora affiliate alla confindustria, la signora Finocchiaro, cui è stato affidato il compito ingrato di chiedere la fiducia per una legge elettorale denominata persino da Repubblica come «un colpo di mano», il ministro degli «sbirri» (come lui dice) che soccorre i migranti con i campi di reclusione in Libia.
E poi ricama in teatro le sue sceneggiature Veltroni che però appartiene ormai al mondo del cinema e quindi, se parla di politica, cammina tra i sentieri immateriali del verosimile filmico.
Senza l’antica componente comunista (Reichlin ordinò la fuga votando no al plebiscito di dicembre), con la distanza abissale dalla Cgil, con lo strappo di Bersani, D’Alema, Rossi, Bassolino, Errani che provano a riorganizzare una sinistra autonoma, il Pd si configura come un non-partito del capo che gestisce candidature, tesse legami con potenze economico-finanziarie.
Resiste in quel ginepraio il mite Cuperlo che, all’affannosa ricerca di una mediazione culturale alta, mostra una volontà d’acciaio nel forzare se stesso a credere che una possibilità di influenza ancora rimane a disposizione nell’inferno del Nazareno.
E anche Orlando prima o poi si riconcilierà con il principio di realtà rinunciando a inseguire i mulini a vento di una mitica ricollocazione del Pd in una area culturale di sinistra. Da una casa del tutto inospitale, proseguirà un nuovo esodo.
Con Renzi vengono condotti ad esiti estremi i germi che però insidiavano dall’inizio il corpo del nuovo soggetto. Già Veltroni aveva celebrato il ruolo egemonico dell’impresa, condannato ogni idea di conflitto sociale per i diritti del lavoro.
Esibendo il computer con la mela, Renzi porta ai limiti inusitati questo sradicamento sociale del partito tramutandolo in veicolo di poteri finanziari. La precarietà viene eretta a sistema di vita con il Jobs Act. E con le decontribuzioni, gli sgravi, i sostegni alle banche le risorse assai scarse del pubblico sono indirizzate verso le agenzie del profitto privato.
Fu Veltroni a teorizzare un liquido partito del leader, che vive con un non-congresso e coltiva la sbiadita identità del «ma anche». Il non-partito dei gazebo lo nominò comandante e, con lo scettro appena ricevuto, invece di puntellare il gracile esecutivo dell’Unione concordò con Berlusconi una nuova legge elettorale, poi sventata, e con pratiche irrituali indusse Prodi all’abbandono del governo.
Renzi va oltre. Dal partito del leader che convive con una oligarchia trapassa al partito personale che rottama come macchine inanimate i gruppi dirigenti, le strutture organizzative, recide le radici sociali e i profili ideali.
Abbandonato dal mondo del lavoro, rigettato dalla scuola, graffiato dalla diserzione delle regioni rosse, dal disagio giovanile, dallo spaesamento del popolo di sinistra, il Pd è attraversato da un malessere che ne paralizza il presente e ne distrugge il futuro.
Non solo dopo Renzi il Pd non è recuperabile, ma le sue scelte in materia sociale, istituzionale costituiscono una insidia per la repubblica. Nella storia repubblicana la sinistra politica e sociale è stato l’argine alla deriva della democrazia.
L’artefice di un plebiscito per l’acclamazione del capo non accetta la lezione di dicembre e reitera l’attacco al cuore del parlamentarismo ordinando il voto di fiducia per imporre una legge elettorale concordata con Salvini per penalizzare il M5S e la sinistra. Dopo dieci anni, il Pd ha poco da festeggiare. E la democrazia ha molto da stare in guardia dalle mosse avventate partorite dal Nazareno.
Certe forzature costituzionali sembrano purtroppo evocare un imminente ritorno della destra.

Il Fatto 15.10.17
Al decennale del Pd di Renzi sventola la bandierina Veltroni
A Roma assenti Prodi, Letta e quasi tutti i fondatori, non si presentano neanche Orlando ed Emiliano. Ma il Capo vuol candidare l’ex sindaco contro D’Alema & C
di Wanda Marra

I selfie del Teatro Eliseo, nel decennale del Pd, sono tutti per lui, per Walter Veltroni, il primo segretario del partito. Sua la relazione d’apertura, per lui gli applausi più caldi. “Aridatece Walter”, gli urlano dalla platea, mentre l’ex segretario fa un discorso alto, complesso, nel quale si richiama alle ragioni della nascita dei Democratici e cerca di indirizzarne in parte il futuro. Paolo Gentiloni, il premier che parla subito dopo, quasi sparisce. E il segretario, un Matteo Renzi particolarmente cupo, appare confinato al ruolo del comprimario.
Prima di lui, Veltroni fu l’uomo della comunicazione, dei pullman, dei bagni di folla. Ma pure se lo mette in ombra è l’unico padre nobile che Renzi ha a disposizione. È l’unica “figurina” da offrire al mondo del centrosinistra, la faccia più spendibile nella prossima campagna elettorale da opporre anche a chi dal partito è uscito. Gira voce che per lui sia pronta l’offerta di una candidatura. Veltroni, però, nel discorso di ieri è stato chiaro: “Come sapete la mia vita è, e resterà, diversa dal passato”. E poi, i rapporti col segretario non sono caldissimi: difficile che si presti. Ieri non ha risparmiato nessuno: “Ho cercato di dimostrare, che si può smettere di avere ogni ruolo e ogni responsabilità senza per questo voler male alle persone con le quali condividi cose importanti”. E tutti pensano a Massimo D’Alema, eterno rivale di uòlter.
C’è poco da festeggiare in un Pd che 10 anni dopo non si è allargato, ma si è ristretto. E dove quella “maggioritaria” resta solo una vocazione e per di più lontana dalla realtà, con una legge elettorale – il Rosatellum bis – pronta a consegnare il Paese alle larghe intese. Il fondatore, Romano Prodi, è l’assente numero 1: il Professore sostiene di non essere stato invitato, al Nazareno assicurano che esiste un carteggio con il vicesegretario Maurizio Martina in cui lui avrebbe dichiarato di non voler prendere parte a iniziative politiche.
Comunque sia, Prodi da mesi mantiene le distanze dal Pd di Renzi, verifica la possibilità di altre operazioni politiche. In quest’occasione la sua presenza avrebbe fatto gioco al segretario. Tanto è vero che la kermesse inizia con La canzone popolare di Ivano Fossati, che fu l’inno dell’Ulivo. Ed è per Prodi l’esordio del discorso di Veltroni: “Con l’Ulivo tutta la sinistra governava l’Italia. Quel governo è stato il migliore della storia repubblicana, prima di tutto per l’autorevolezza di chi lo guidava, ma quella esperienza dopo due anni finì, abbattuta dai due mali storici della sinistra, il massimalismo e le divisioni” (sempre D’Alema sul patibolo).
Dei prodiani in platea non c’è nessuno. Non c’è Parisi che ha definito quella di ieri una giornata di “lutto”. Non c’è ovviamente Pier Luigi Bersani, l’ex segretario, che è uscito con la scissione. Non ci sono esponenti di spicco come Rosy Bindi. E mancano persino i due leader delle minoranze interne, Andrea Orlando e Michele Emiliano. In compenso, c’è quasi tutto il governo: Boschi, Madia, Pinotti, Minniti, Delrio, Franceschini, Fedeli, Lotti. Da quando c’è Renzi segretario, in fondo, il Pd non è stato che una succursale dell’esecutivo. Le prime file sono tutte di renziani, più o meno doc: Francesco Bonifazi, Matteo Richetti, Ettore Rosato, Andrea Marcucci. Ci sono pure Fassino, Zanda e una pattuglia di veltroniani, da Valter Verini in giù. C’è Eugenio Scalfari, il fondatore di Repubblica, giornale che vede di buon occhio l’alleanza Pisapia-Pd.
Veltroni sprona: “Paolo e Matteo, mi piacerebbe che questa legislatura si concludesse con l’approvazione dello Ius soli”. Gentiloni si impegna: “Stiamo lavorando per approvarla entro questa legislatura”. Neanche un a parola, invece, da Renzi. Il suo è un discorso che sa un po’ di amarcord (ancora parla di un tempo quando non c’era lo smartphone e ancora rilancia il servizio civile volontario), mentre vuole tracciare le linee della futura politica europea: “Mettere in discussione il Fiscal compact non è solo giusto, è una scelta di linea politica: prima serve il Political compact, il Social compact”.
Poi c’è la Sfida al centrodestra: “Sarà corpo a corpo nei collegi”. La platea non si scalda, sembra svogliato pure lui. Passaggio sulla futura premiership: “Non mi interessa chi sarà il premier, ma cosa farà”. In un’intervista a Repubblica uscita ieri aveva detto: “Con questa legge elettorale, il leader del Pd è per statuto candidato premier del Pd”. Aggiungendo: “Quello che deciderà la coalizione, purtroppo, lo vedremo dopo”. Sarà uno dei tormentoni della campagna elettorale che ora si apre se Renzi effettivamente tornerà a Palazzo Chigi. Lui sa che la sua unica, remota possibilità sta in un grande risultato del Pd. Ma a farsi indietro prima del voto non ci pensa proprio.
Intanto, il decennale scivola via in un’ora e mezza. Sul palco alla fine salgono degli studenti. Davanti c’è Veltroni, Renzi resta dietro. L’atmosfera è quella stanca di una festa comandata poco riuscita: un pranzo di famiglia in una famiglia disfunzionale.

La Stampa 15.10.17
“Aridatece Walter!”
Ovazione per Veltroni di che provoca Matteo
L’ex leader: il governo di Romano fu il migliore
di Fabio Martini

Le 760 poltroncine del Teatro Eliseo alle 10 del mattino sono già piene e nel brusio che precede la festa di «compleanno» del Pd pochi fanno caso all’annuncio, da Fiera del mobile, che precede l’avvio dei lavori: «Preghiamo i gentili ospiti di accomodarsi, fra poco inizierà l’evento». Ma poi, quando viene annunciato il primo degli oratori, Walter Veltroni, accade qualcosa di imprevisto: da tutto il teatro si alza un lungo applauso, riscaldato da urla belluine: «Ritorna!», «bravo!», «aridetece Walter!». Lui, in blu, senza cravatta, i capelli radi e bianchi, si avvicina al microfono e con la sapienza del grande oratore, cattura subito l’uditorio con una frase secca: «Il partito democratico nacque con dieci anni di ritardo».
Dalla platea Matteo Renzi e Paolo Gentiloni guardano di sottecchi Walter, sanno che affidandogli il primo discorso, rischiano di essere oscurati. Andrà esattamente come avevano immaginato: Veltroni sarà il più applaudito (50 secondi di standing ovation, contro i 30 per Renzi e i 20 per Gentiloni), grazie ad un discorso “alto” e inclusivo con i grandi assenti, Romano Prodi e Arturo Parisi. Mai una volta Veltroni citerà invece il cognome Renzi, nel corso di un intervento culturalmente distante dal “renzismo”, soprattutto in un passaggio: «Il Pd deve essere una comunità, nel tempo in cui “io” è la parola più pronunciata, parola che ora ha un suono triste e solitario».
Un discorso interrotto da fragorosi, ripetuti battimani e al termine del quale uno degli amici più intimi dell’ex leader del Pd, confida: «Walter ci sta pensando: se dopo le elezioni ci fosse uno stallo, una figura come la sua può essere un punto di sintesi perfetto, per la guida del partito, ma soprattutto del governo...».
Analisi confidenziale che trova qualche corposa eco dentro il lungo discorso di Veltroni. Che inizia subito, affrontando di petto la questione spinosissima dell’assenza al “compleanno” del Pd di Prodi e Parisi, i due padri fondatori del bipolarismo a sinistra, delle elezioni dirette di parlamentari e sindaci, delle Primarie. Dice Veltroni: «Nel 1996 con l’Ulivo per la prima volta tutta la sinistra governava l’Italia e quel governo fu il migliore della storia repubblicana, anzitutto per l’autorevolezza di chi lo presiedeva, Romano Prodi». Una frase davvero molto forte, visto che in platea c’è un ex premier col carattere di Matteo Renzi e visto che la citazione di Prodi “chiama” subito l’applauso per il Professore. E Renzi? Veltroni, sempre attentissimo nelle citazioni, si rivolge una volta sola a «Paolo e Matteo», raccomandandosi per l’approvazione dello ius soli. Ma allo spirito del tempo, spesso incarnato anche dal leader del Pd, Veltroni dedica parole amare. Per la sinistra invoca «orgoglio e mai spocchia, mai pretesa di aver sempre ragione», «dobbiamo essere un presidio di razionalità in questo tempo isterico». E ancora: «Il mio è il sogno di un Paese diverso, in cui, come diceva Zavattini, un “buongiorno” voglia dire veramente “buongiorno”».
Certo, un passaggio aspro è dedicato a Massimo D’Alema («si può smettere ogni ruolo senza per questo fare male alle persone...»), ma le parole più severe, Veltroni le dedica alla smarrita “vocazione maggioritaria” del Pd: «Non hanno smesso di spaventarmi i rigurgiti proporzionalisti, l’idea che i governi li decidano i partiti e non gli elettori», perché «l’interlocutore di un governo è il popolo, non un segretario di partito che ne decide la sopravvivenza. Le alleanze si fanno prima e poi le si fa giudicare dagli elettori».

Repubblica 15.10.17
Gianni Cuperlo, ex presidente del partito democratico: ero a Milano alla scuola di politica di Recalcati
“Non basta lo statuto per vincere le elezioni”
di Giovanna Casadio

ROMA. «La mia casa è dove vive la sinistra». Per ora Gianni Cuperlo , leader di Sinistra dem, dice che non getterà la spugna nel Pd. Però alla festa dei dieci anni non c’era. «A dirla tutta avrei curato di più il coinvolgimento di tutto il partito, delle sue radici e delle sue diverse anime». Preferiva insomma che fossero invitati Prodi, gli ulivisti e il vertice dem.
Cuperlo, perché non è andato alla festa del Pd?
«Al netto del fatto che lo spirito di questi giorni non mi pare improntato a festa, ero a Milano per un incontro e una lezione alla scuola di politica di Massimo Recalcati».
Dieci anni dopo, davvero più che festa è lutto, come dice Parisi?
«Avrei voluto fosse una giornata di riflessione profonda. Per quanto mi riguarda con la presa d’atto di una svolta necessaria. Senza questo il Pd muta funzione e può alimentare altro disincanto».
Emiliano parla di disfatta del Pd. E lei?
«Io sceglierei le parole con cura anche per evitare una disfatta del vocabolario. Vedo i rischi di una sconfitta se non si ricostruisce il centrosinistra e lavoro perché quel cantiere si riapra. Aggiungo che un partito nato per federare non è riuscito a tenere unito se stesso. Risolvere il tema parlando di tradimento non è la risposta».
Il Pd è sempre casa sua? Cosa ritiene sia indispensabile cambiare?
«Casa mia è sempre stata dove vive la sinistra e continuerà a esserlo. Tento ancora di scommettere su questa forza e di poterla ancorare a quella identità sul terreno sociale e culturale. Con meno sinistra il problema non sarà il destino del singolo ma i voti, la militanza, le passioni che andranno perduti».
Lei non ha partecipato al voto di fiducia sulla legge elettorale, anche se poi ha votato sì al Rosatellum.
«Assieme ad altri ho considerato la fiducia un errore e penso che sarebbe molto grave riprodurlo al Senato. Ho avanzato delle proposte: dal voto disgiunto a rafforzare il profilo delle coalizioni. Se davvero vogliamo riaprire il dialogo con la sinistra fuori da noi bisogna tornare ad ascoltare anche alcune ragioni degli altri. La legge elettorale non è un braccio di ferro e non vorrei che ci si risvegliasse con una cocente delusione» Renzi è, come dice lui, il leader e anche il candidato premier naturale?
«Lo si vedrà. Non basta una norma dello statuto per vincere. Prima serve dar vita a un campo più largo di noi. La forza di una classe dirigente è mettere al primo posto il paese. La sua intelligenza, capire quale sia la soluzione migliore per il governo».
Alleanze a sinistra con Mdp e con Pisapia?
«Spero nell’alleanza più larga, civica, inclusiva. Rinunciare credo sarebbe un danno grave per tutti, lo dico anche ai miei compagni che hanno fatto scelte diverse. So che la strada è in salita ma insisto, parliamoci».
Banco di prova sono Ius soli e manovra economica?
«La legge di bilancio può essere il terreno per allargare i confini del centrosinistra nell’interesse di chi sta peggio. Salario minimo, investimenti, spesa per la salute e il lavoro. E prima lo stesso coraggio delle unioni civili sullo Ius soli. Possiamo vincere assieme ma bisogna volerlo».
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Senza una vera svolta il Pd cambia la sua funzione e alimenta soltanto il disincanto dei cittadini

il manifesto 15.10.17
Rosatellum, la sfiducia nella democrazia
di Massimo Villone

Errare è umano, perseverare è diabolico. La Presidente Boldrini avrebbe dovuto ricordarsene, aprendo alle fiducie sul Rosatellum 2.0, dopo averlo già fatto con l’Italicum. Le ragioni di allora non furono convincenti, e ne scrivemmo su questo giornale (16/4/2015).
Lo stesso può dirsi oggi.
Il quadro costituzionale
L’argomento centrale posto dalla Boldrini è che l’art. 72 Cost. prescrive per la legge elettorale il procedimento «normale» di esame e di approvazione (Commissione più Aula). È una cd «riserva d’assemblea», prevista anche in materia costituzionale, nonché per deleghe, autorizzazioni alla ratifica di trattati internazionali, bilanci e consuntivi. Nel procedimento «normale» – dice la Boldrini – la fiducia è possibile. Dunque, rientrava nelle prerogative del governo porla.
Ma per quale ragione la Costituzione prescrive tassativamente il passaggio in Aula, in cui – va ricordato – è essenziale la fase emendativa? Ovviamente, per assicurare una più approfondita riflessione e una discussione compiuta, aperta, pubblica. È l’essenza di un parlamento rappresentativo.
Ma con la fiducia sul testo approvato in Commissione – come è accaduto con il Rosatellum 2.0 – il ruolo dell’Aula è sostanzialmente azzerato.
Questo impone che nelle materie di «riserva di assemblea» si ricorra a strumenti di compressione del dibattito con parsimonia estrema. Ad esempio, per questioni strettamente strumentali all’indirizzo di governo: tipici casi, una delega, o un bilancio.
Ma nel discorso programmatico lo stesso Gentiloni esplicitamente afferma che la legge elettorale nulla ha a che fare con l’esecutivo. E allora? Rimane il fine di impedire forzosamente il dibattito. Un sostanziale tradimento dell’art. 72 Cost.
Il regolamento Camera
Il regolamento (art. 49) prevede il voto segreto come obbligatorio in alcuni casi, in altri – ed in specie per la legge elettorale – a richiesta di un certo numero di deputati. Dispone inoltre (art. 116) che la fiducia non possa essere posta quando è «prescritto» il voto segreto.
Boldrini assume che il voto segreto possa definirsi «prescritto» solo nel caso sia obbligatorio, e non anche quando sia a richiesta. Per questo, la richiesta di voti segreti sul Rosatellum 2.0 non precludeva la questione di fiducia da parte del governo, con la conseguente decadenza degli emendamenti.
Ma è proprio così?
Sul voto segreto vediamo tre casi: materie in cui è precluso, materie in cui è facoltativo e a richiesta, materie in cui è obbligatorio. Guardiamo a facoltatività e obbligatorietà. Se non vi è richiesta, certo il voto segreto può ritenersi «prescritto» solo per le materie in cui è obbligatorio. Ma qual è la qualificazione appropriata quando il voto segreto sia stato chiesto nelle debite forme? Può la Presidenza negare la richiesta? No.
Ne risulterebbero violati i diritti dei richiedenti. Sopravvenuta la richiesta nelle materie indicate dal regolamento – tra cui la legge elettorale – il voto segreto è «prescritto» non meno di quanto sia «prescritto» quello obbligatorio. È l’ostacolo alla fiducia si pone nello stesso modo.
Precedenti e prassi
Come è stato scritto, in realtà il solo vero precedente lo ha posto la stessa Boldrini con l’Italicum. In ogni caso, le norme, i precedenti, la prassi vanno letti con intelligenza. Dopo Corte cost. 1/2014 la conduzione dei lavori di Aula avrebbe dovuto anzitutto considerare che il Parlamento era stato fulminato nei suoi fondamenti elettorali e quindi nella definizione dei rapporti di forza.
Con la fiducia l’esito ultimo è che la Presidente ha consentito la compressione violenta del dibattito ad iniziativa di una maggioranza che esiste solo per i numeri parlamentari falsati proprio dal meccanismo premiale dichiarato incostituzionale, e di un governo che si regge precariamente su quella maggioranza. È rilevante questo argomento per un presidente di assemblea nel decidere se consentire o strozzare la discussione?
Vedremo ora come si comporterà il Presidente Grasso. Non ha problemi di voto segreto, e i diversi equilibri politici rendono meno probabile che la fiducia sia posta anche al Senato. Ma non dimentichiamo il maxi-canguro: un emendamento anteposto al testo che se approvato fa decadere tutti gli altri emendamenti perché ripete in sintesi i principi posti dagli articoli successivi. Dovrebbe essere dichiarato inammissibile per mancanza di contenuto normativo. È accaduto il contrario, e lo abbiamo visto tradotto nell’art. 1 dell’Italicum.
E pensare che tutto questo accade per un parlamento di nominati. Sapremo ancor prima di votare non chi vincerà, ma chi siederà in parlamento. E sapremo anche a chi gli eletti dovranno obbedienza.

Il Fatto 15.10.17
“Siamo all’apoteosi dei nominati: voti uno e eleggi un altro”
Gianluigi Pellegrino - Il giurista boccia il nuovo sistema: “È l’imbroglio degli imbrogli”
di Luciano Cerasa

È “l’imbroglio degli imbrogli”, un “autentico specchietto per le allodole”, “l’apoteosi dei nominati” anzi “siamo proprio al truffellum”, tanto per adeguarsi all’uso della desinenza del genere neutro latino che mai come nel caso del “Rosatellum” bis fu così distante dalla sostanza: Gianluigi Pellegrino, al telefono, è un fiume in piena. Il giurista salentino, figlio dell’ex presidente della commissione bicamerale d’inchiesta sulle stragi, coi suoi ricorsi anti-furbate ha messo nei guai politici del calibro del governatore della Campania, Vincenzo De Luca ma anche Berlusconi, Alemanno e Renata Polverini. A lui quel famigerato, per molti costituzionalisti, testo votato l’altro ieri alla Camera proprio non va giù.
A quale parte del disegno di legge, tra le tante contestate finora, si riferisce?
A quella in cui si dice che i voti dati e presi a favore del candidato al collegio uninominale si attribuiscono proporzionalmente alle liste a lui collegate.
Dov’è lo scandalo?
La truffa, vuole dire, sta nella ripartizione dei voti di chi non è stato eletto nell’uninominale tra i candidati nella lista bloccata: in pratica l’elettore crede di aver espresso la volontà di eleggere una persona mettendo una crocetta sul suo nome e invece vota qualcun altro. Non accade in nessun paese del mondo.
E se non si mette la crocetta sul partito?
Anche se per paradosso i simboli delle liste bloccate non li contrassegna nessuno la lista verrà comunque votata dagli elettori che hanno espresso la loro preferenza per il candidato nel collegio uninominale a essi collegati.
Per la prima volta nella storia io prendo i voti ma viene eletto qualcun altro, indicato dai partiti, giusto?
Il paradosso e l’inganno è proprio questo, la caratteristica dei sistemi elettorali basati sui collegi uninominali è il rapporto diretto tra elettore e candidato, i partiti cercano dei volti che abbiano un forte appeal sull’opinione pubblica per aumentare i consensi, ma con il Rosatellum il viso del votato si sfila dopo le elezioni e ne compare un altro: è l’apoteosi dei nominati.
Quale sarebbe la conseguenza dell’applicazione di questo sistema nei futuri collegi?
Le prossime elezioni saranno con ogni probabilità una gara tra minoranze: il 25-30% dei voti basterà a far eleggere il primo arrivato, il restante 75% non servirà a mandare in Parlamento i candidati che lo hanno raccolto ma a far scattare il seggio per i nomi della lista collegata; in questo modo gran parte degli elettori saranno derubati del loro voto e solo una piccola parte andrà a eleggere il vincitore.
Un’altra norma destinata a essere bocciata dalla Corte costituzionale?
È molto probabile. La volontà espressa dall’elettore non può essere così clamorosamente smentita, ci sono sistemi che implicano elezioni a catena, come per i sindaci, ma che io voto uno e si elegge l’altro è inaccettabile.
Si doveva allora andare a votare con il patchwork che ci hanno lasciato le pronunce della Consulta?
Si poteva applicare quanto ha stabilito la Corte costituzionale e il Consiglio d’Europa, che ci permette di mettere mano alle leggi elettorali anche a meno di un anno dalle elezioni, a patto che non si sconvolga l’impianto di fondo. L’ultima legge votata era stata l’Italicum che prevedeva un sistema maggioritario e il ballottaggio sul quale la Consulta non ha eccepito; la bocciatura ha riguardato invece la mancata fissazione di una soglia di partecipazione degli elettori al ballottaggio, sotto la quale non scatta il premio di maggioranza, bastava applicare quel sistema ed estenderlo all’altra Camera per evitare l’imbroglio degli imbrogli.

La Stampa 15.10.17
“È un orco, mi ha mangiata
La cosa più sconvolgente?
I tanti attacchi dalle donne”
L’attrice replica alle accuse e rivela: gli stupri di Weinstein furono due “Perché non ho denunciato prima? Tenevo troppo alla mia carriera”
intervista di Gianmaria Tammaro

«La cosa più sconvolgente sono le accuse delle donne italiane, la criminalizzazione delle vittime delle violenze». La voce è rotta dall’emozione ma ferma, sicura. Sceglie le parole con cura, una per una. Ogni tanto trema per la rabbia e la frustrazione. Asia Argento è appena tornata in Italia. Dopo la pubblicazione dell’inchiesta del New Yorker in cui ha denunciato di essere stata violentata da Harvey Weinstein, uno dei più potenti produttori di Hollywood, aveva deciso di rimanere in silenzio. Ma le polemiche che l’hanno travolta, mettendo in dubbio la veridicità della sua testimonianza e la sincerità dei suoi sentimenti, l’hanno convinta a tornare a parlare. Per questo motivo ora racconta e si racconta, non risparmiandosi sui dettagli di uno degli scandali sessuali più gravi che hanno mai colpito il mondo dello spettacolo. «Cercare di ricostruire quello che è successo vent’anni fa è stato difficilissimo, credetemi. Mi sono messa in gioco in prima persona e ho fatto in modo che anche altre donne potessero parlare».
Perché ha deciso di rivelare questa storia a distanza di tanti anni?
«Non sono l’unica che ha deciso di parlare adesso. Hanno parlato tutte ora. “Perché non avete parlato prima?”, ci chiedono. Perché Harvey Weinstein era il terzo uomo più potente di Hollywood. Ora è diventato il duecentesimo e il suo potere e la sua influenza si sono sensibilmente ridotti».
Non pensa che parlare prima avrebbe evitato che altre donne subissero come lei?
«Prima non c’erano stati scandali sessuali come quello di Bill Cosby. E se avessimo parlato allora, noi donne non saremmo state credute. Saremmo state trattate come delle prostitute. Come, tra l’altro, sta succedendo qui in Italia: una cosa di cui mi dispiace tremendamente».
Che cosa l’ha ferita maggiormente?
«Non ho ricevuto nessuna critica per il mio comportamento in nessun altro Paese. Ci sono amici che mi mandano articoli usciti in tutto il mondo, in cui nessuno si permette di fare “victim blaming”, di colpevolizzare le vittime. Nessuno all’estero. Guardi invece che cosa stanno facendo in Italia contro noi vittime».
E lei come reagisce?
«Oggi sono in grado di sopportarlo. Se avessi detto vent’anni fa quello che ho detto oggi, probabilmente non mi sarei più ripresa. Sarei caduta in depressione. E sarebbe stato addirittura peggio di quello che poi mi è successo. Mi creda: dopo quel giorno, non sono più stata la stessa persona».
Come ha vissuto questi anni di silenzio?
«Avevo ventuno anni quando è successo. Sa quanto tempo mi ci è voluto prima di capire? Anche se ne parlavo con amici e con amiche, con i fidanzati, questa è una cosa che tenevo seppellita. Una vergogna incredibile, mi creda. Mi ci sono voluti anni per capire che ero una vittima. E per tutto il tempo mi sono sentita colpevole di non essere scappata via, di non aver avuto la forza di dire no».
Si sente ancora in colpa per questo?
«Io mi sono opposta dieci, cento, mille volte a Harvey Weinstein. Mi ha mangiata. Un orco in mezzo alle gambe è un trauma. Io ero una ragazzina. Questa è una cosa che ricordo ancora oggi. Una visione che mi perseguita. Non c’è bisogno di legare le donne, come dice qualcuno, perché ci sia violenza».
Che cosa temeva che le potesse accadere, in caso di denuncia all’epoca dei fatti?
«La violenza che io ho subito risale al 1997. In Italia, solo un anno prima lo stupro era diventato crimine contro la persona e non solo contro la morale. Pensi se avessi parlato allora. Come avrei potuto? E poi sì, era per la mia carriera! Un tempo io ci tenevo tantissimo alla mia carriera. Ero giovane e anche io avevo i miei sogni. Non volevo niente da Weinstein, ma non volevo nemmeno che mi distruggesse».
Fabrizio Lombardo, ex capo di Miramax Italia, nega di averla portata da Harvey Weinstein, come lei invece sostiene.
«Lombardo è un bugiardo. Ci sono tantissime prove e tantissimi testimoni che ribadiscono che quello che ho detto io è vero. La sua è una bugia: chi gli crede? Ho i suoi messaggi ed erano intimidatori: come può sostenere che me li ha mandati per sbaglio? Voleva dirmi che sono una pazza e una prostituta. Con quei messaggi voleva mettermi paura e farmi credere che nessuno mi avrebbe presa sul serio».
Dopo il primo incontro in un hotel in Costa Azzurra, lei iniziò una relazione con Weinstein?
«Questa è un’assurda falsità. Una bugia orrenda. Io non ci sono stata insieme cinque anni dopo quella violenza, come insinua qualcuno».
Weinstein cercò di contattarla ancora?
«Alcuni mesi dopo quella violenza, quando ancora doveva uscire “B. Monkey”, Weinstein continuava a contattarmi, sì. Continuava a scrivermi e a cercarmi. Mi offriva pellicce e appartamenti. Ricordo che venne a Roma e mi propose di incontrarci per discutere delle strategie per pubblicizzare il film».
Lei accettò?
«Lo incontrai nella camera di un albergo, nel salottino. Con lui c’era una sua assistente. Ricordo che vedendola mi sentii sollevata. Dopo un po’, però, l’assistente se ne andò e successe di nuovo la stessa cosa. Weinstein mi fu di nuovo addosso. Allora mi sentii doppiamente in colpa. Perché mi ero fidata una volta di troppo. Io non volevo. Non mi piaceva. Quando lui iniziò a toccarmi, era come se potessi vedere dall’esterno quello che succedeva. Come se quella ragazza non fossi io».
Qual era l’atteggiamento di Weinstein nei suoi confronti?
«Se sente la registrazione pubblicata dal New Yorker, il modo in cui parlava alle donne, scoprirà che cambiava costantemente tono: passava dall’essere un bambino frignone a imporre con violenza quello che voleva. Aveva mille personalità. Mille. E cercava quella che funzionava di più con te. Weinstein era un predatore seriale. L’ha fatto con centinaia di donne. Se lo scandalo non è uscito prima, è perché lui insabbiava tutto. Ha pagato non solo donne, ma anche giornali e giornalisti».
Come cambiò il suo comportamento, nei confronti di Weinstein?
«L’unico mio potere, dopo quella violenza, era non accettare nessun regalo. Era non andare a nessun provino che mi veniva offerto. Io sognavo di diventare la più grande attrice e di vincere il premio Oscar. Erano i sogni di una ragazzina, l’ho detto. “Che bello – pensavo dopo aver girato il film “B. Monkey” – adesso potrò lavorare all’estero”. Allora amavo il mio lavoro e ci tenevo. E prima di avere figli era tutto quello in cui credevo. Dopo Weinstein non ho più creduto in niente che riguardasse il mio lavoro».
Quindi vi incontraste altre volte?
«Prima di risponderle, mi permetta di ribadirlo ancora una volta: la nostra non era una relazione. Non scherziamo. Non pensiamola nemmeno per un istante questa cosa. Tantissime volte sono riuscita a scappare e a evitarlo. Ero con amiche e lui riusciva a entrare negli alberghi e a trovarmi. Una notte, ricordo, venne a bussare alla porta della mia stanza e io ebbi paura. Al Festival di Toronto volle vedermi a tutti i costi; io lo incontrai insieme a una mia amica e lui si mise a piangere. Come un bambino».
In una scena del suo primo film da regista, “Scarlet Diva”, il personaggio che lei interpreta subisce delle avances. le viene chiesto di fare un massaggio. Era un modo per raccontare la sua storia?
«Quando nel 2002 uscì negli Stati Uniti “Scarlet Diva”, Weinstein lo vide e mi contattò. Prima mi fece i complimenti e si comportò come un amico, poi mi disse: “Ho visto il tuo film! Che ridere!”. Aveva paura che dicessi pubblicamente che in quella scena, quella in cui mi viene chiesto un massaggio, era a lui che mi riferivo. Ma non l’avrei detto».
Perché?
«In quel momento, era impensabile fare un film del genere in cui denunciavo non solo quello ma anche altri abusi che avevo subito. Avevo solo 23 anni. Parlarne apertamente mi faceva paura: non volevo sentirmi dire che ero stata debole, che ero stata incapace di difendermi. Io volevo credere in ogni modo di essere una persona diversa».
Nessuno le chiese mai se quella scena si riferisse a una sua vera esperienza di vita?
«Mi è successo varie volte. E io ogni volta rispondevo di sì. Ma nessuno poi l’ha riportato. L’ho raccontato ad amici attori, produttori, giornalisti; l’ho detto anche ad amici che non lavoravano in questo ambiente. Ma nessuno ha fatto niente. Per me, certo, ma anche per tutte le altre donne».
Poi però ha deciso di farsi avanti in prima persona: come mai?
«Quando mi ha chiamato Ronan Farrow del New Yorker, ho iniziato a raccontargli la mia storia ma solo in via confidenziale e anonima. Sono stata la prima a farlo. Non ce la facevo più. Mi sono consultata con il mio fidanzato e con altre persone a me vicine. Tutti mi hanno incoraggiato. Dopo aver raccontato la mia storia, ho detto a Ronan di dirlo anche alle altre attrici e modelle, e di specificare che avevo deciso di acconsentire alla pubblicazione del mio nome».
Che cosa è successo a quel punto?
«Il giorno dopo Farrow mi ha richiamato dicendomi che anche altre donne, spinte dal mio racconto, avevano deciso di farsi avanti. E questo mi sembra importante. Prima non ci era stata data nessuna possibilità. C’era un’omertà assoluta su quest’uomo. Appena ho potuto, appena ci è stata data l’opportunità, tutte noi abbiamo denunciato».
In Italia non tutti la pensano così. Non tutti le credono. Non tutti stanno dalla sua parte.
«La cosa più sconvolgente è che ci sono anche donne tra queste persone. Donne che stanno scrivendo contro di me. Donne che mi stanno denigrando. E questo è grave. Perché sono sicura che anche tante tra queste donne hanno vissuto o anche solo visto cose del genere. E ora fanno finta di niente. Mi accusano di esserci stata».
La accusano anche di aver firmato la petizione a favore di Roman Polanski, indagato per pedofilia.
«Roman Polanski fu arrestato in Svizzera. Io non conoscevo la faccenda fino in fondo. Ammetto la mia ignoranza. Fui contattata dal Festival di Cannes. Mi dissero che c’era una petizione e che tutti stavano firmando perché quello che aveva fatto questo giudice a Polanski era contro i diritti di ogni individuo. Io firmai e solo dopo mi sono informata. Ammetto la mia colpa».
Si è pentita?
«Mi ero fidata e mi sono sbagliata. C’erano tantissimi colleghi coinvolti e che avevano firmato. Io non avevo letto bene il caso. E poi Polanski era uno dei miei registi preferiti. Lo ripeto: mi fidai, sbagliando. E di questo mi sono profondamente vergognata. E ora mi vergogno ancora di più. Nessuno mi costrinse, voglio precisarlo. Ma mi fidai. E oggi dico pubblicamente che vorrei non averlo mai fatto».
Dopo essersi fatta avanti insieme alle altre donne e aver raccontato quello che le è successo, cosa spera che accada?
«L’unica cosa in cui ora spero, anche dopo aver rivissuto questa terribile esperienza ed essere stata insultata nel mio Paese - e solo nel mio Paese! - è che ci sia un risveglio tra quelle di noi che hanno subito. Che sempre più donne dicano basta. Ora questi uomini, questi mostri, dovranno avere paura così come noi, ogni volta che li abbiamo incontrati, che siamo rimaste da sole con loro, ne abbiamo avuta».

il manifesto 15.10.17
Da due prigionieri intimi del Führer, tutto quel che Stalin voleva sapere
di Andrea Colombo

L’ossessione di Stalin per Adolf Hitler è ormai certificata dagli storici. Il Führer, dal canto suo, non nascondeva una sorta di rispetto per il capo dell’Unione sovietica: «Churchill è uno sciacallo, Stalin una tigre». Sulle ragioni dell’interesse quasi morboso di Stalin per il nemico, in particolare per la sua vita privata, si possono solo azzardare ipotesi. In una prima fase il georgiano sospettava che Hitler fosse vivo e fuggiasco. Però, anche quando si convinse del contrario, conservò una curiosità estrema per l’uomo che era riuscito a ingannarlo e coglierlo di sorpresa, nonostante la proverbiale astuzia.
Nel 1945, subito dopo la presa del bunker, Stalin ordinò al Commissariato del popolo per gli affari interni (Nkvd) un’inchiesta sugli ultimi giorni di Hitler, per verificare se il suicidio fosse reale o solo una messa in scena. L’ «Operazione Mito», così definita in codice, si allargò poi sino a tutta la fase del nazismo al potere.
Le fonti a disposizione degli apparati sovietici erano i prigionieri catturati a Berlino: in particolare due uomini che particolarmente vicini al Führer, che conoscevano quei dettagli sulla sua vita privata a cui Stalin teneva soprattutto. Uno, Heinz Linge, era stato cameriere personale di Hitler e poi capo dei servizi addetti alla sua persona. L’altro, Otto Gunsche, era l’ex aiutante di campo personale del Führer. Erano gli uomini di fiducia a cui Hitler aveva ordinato di bruciare il suo corpo e quello della moglie, Eva Braun.
Il risultato della dettagliata inchiesta del Nkvd fu un voluminoso fascicolo consegnato a Stalin nel dicembre 1949. Riposto nel suo archivio personale si trova ancora tra le carte riservate del presidente della Russia: non è mai stato e ancora non è consultabile nella versione originale. Dieci anni dopo Chruscev ne fece però fare una copia esatta, a propria volta secretata e conservata tra i documenti del segretario del Comitato centrale.
Dimenticato anche dopo l’apertura degli archivi sovietici nel 1991, il rapporto è stato riportato alla luce oltre dieci anni fa da due studiosi tedeschi, Henrik Eberle e Matthias Uhl, e arriva ora anche in Italia con il titolo Il Dossier Hitler (traduzione di Andrea Casalegno e Domenico Carosso, Utet, pp. 610, euro 20.00).
È un documento prezioso ma da prendere con le molle, non solo per le numerose imprecisioni puntualmente segnalate dai curatori. Il materiale è senza dubbio di prima mano, frutto degli interrogatori estenuanti subìti da due testimoni diretti che avevano accesso sia alla dimensione pubblica che a quella privata di Hitler: i retroscena dei vertici internazionali come quello di Monaco ma anche le cene, gli scherzi grossolani, gli incontri con Eva Braun.
La voce è però quella di due prigionieri sempre a rischio di esecuzione, consapevoli quindi di dover pesare le parole. I verbali degli interrogatori venivano inoltre filtrati dagli agenti del Nkvd, ancor più coscienti del rischio che correvano qualora fossero emerse cose sgradite al «piccolo padre».
Pur con tutti i suoi limiti, l’immagine di Hitler che emerge da queste carte è forse la più viva e vera tra quelle tratteggiate in innumerevoli biografie. È il ritratto di un dittatore convinto della propria missione segnata dal destino, ma anche di un politico che aveva coscientemente fatto dell’azzardo e del bluff la cifra della propria azione e la chiave dei propri successi. Al contrario del freddo e calcolatore Stalin, tanto affascinato dal nemico che, con l’attacco a sorpresa del giugno 1941, era quasi a distruggerlo.16 e 28 ottobre: torna il Fascismo

Il Fatto 15.10.17
16 e 28 ottobre: torna il Fascismo
di Furio Colombo

Sono comparsi all’improvviso sui muri di Roma (e si sono aperti gazebi) con questa scritta: “Contro l’invasione degli immigrati corteo per il lavoro italiano, Roma, 14 ottobre”. Pochi giorni fa è stata annunciata una adunata per celebrare il 28 ottobre, la Marcia su Roma. Fate caso alle date. Siamo a pochi giorni dal 16 ottobre, anniversario di quella notte del 1943 in cui 1.017 ebrei romani furono stati strappati dalle loro abitazioni (non un numero a caso, ma tutti coloro che sono stati trovati, compresi i neonati, i disabili, i malati) per mandarli a morire ad Auschwitz. La ragione? Erano ebrei, e Roma era nazista e fascista, che vuol dire razzista. Le leggi che consentivano, anzi comandavano, di portare a morire tutti gli ebrei che si potevano catturare in quanto “pericolo per la nostra gente”, si chiamavano “Difesa della razza”. La razza era quella italiana.
Sto dicendo che sta ritornando il fascismo (non l’insulto, non il richiamo per scherzo ma il fatto vero) con la sua maschera più odiosa, il furore razziale, che si può placare solo con l’eliminazione (in un modo o nell’altro) della razza sbagliata. Qualcuno obietterà che sembrano più folcloristiche che minacciose le folle di milioni di polacchi inginocchiati alle frontiere del loro Paese, in difesa della loro patria e della loro fede da salvare contro l’invasione islamica, brandendo il rosario, in questo strano rito incoraggiato dai vescovi. Credenti e vescovi polacchi stanno negando le parole del Papa sull’accoglienza agli immigrati e sfidando la sua guida in questa seconda Shoah. Intanto le motovedette arabe noleggiate dai governi europei speronano e affondano altre navi di profughi, con altre vittime. Bisognerà ricordare che tutti i governi degli ex Paesi dell’Est sottomessi per decenni alla Russia (detta allora Unione Sovietica) sono concitati protagonisti della nuova Shoah. In Ungheria governano un partito e un leader (Orban) molto vicini a ciò che è stato il nazismo. A Berlino cento deputati nazisti sono entrati in Parlamento dopo le ultime elezioni. Abbiamo dunque tutto ciò che nazismo e fascismo richiedono: le frontiere chiuse, il nemico da odiare, le inflessibili misure da usare (quando necessario speronare barche di profughi in mare). Bisogna accettare l’evidenza. Torna il fascismo. Ed è il fascismo che genera il razzismo, non il contrario.
Altrimenti non si spiega il rovesciamento di posizioni: più si allarga il fascismo, più si ripudia l’accoglienza. Come torna il fascismo? In parte lo rivelano i casi appena citati. Usano alcuni espedienti, molto diversi, tutti, a quanto pare, efficaci. Il primo è di essere fascisti in modo aperto, con deliberata esibizione, rivendicazione e orgoglio. Questa è la posizione dei due gruppi italiani Forza Nuova e Casa Pound, che contano su una più o meno esplicita intimidazione. Un altro espediente, che si è rivelato efficace nelle ultime elezioni tedesche, è quello di “reclamare il proprio passato”, ovvero la liberazione dal giudizio della storia. Rivogliono la rispettabilità del governo, l’onore dei soldati, la gloria della guerra. Cento deputati nazisti intendono occupare il futuro sciolti da ogni condanna, liberi di rifare il già fatto. Il nuovo nazismo tedesco viene con il furore nazionalista che ha ottenuto vaste maggioranze in Ungheria e in Polonia, e forti spinte nazionalistiche sia nell’Est post sovietico che nell’Ovest post-americano (la vendetta dei bianchi sui neri). Sostengono che sia la risposta giusta alla minaccia islamica, di volta in volta definita scontro di civiltà, guerra di religione o invasione dei migranti. Il pretesto funziona ma imbroglia. Come spiegare altrimenti che, nella campagna elettorale francese del 2007 i manifesti lepenisti difendevano il lavoro francese dall’invasione dell’idraulico polacco? Il fascismo viene mandato avanti perché è l’unica forza che può liquidare l’Europa, la possibilità che le regole europee diventino difesa permanente dei diritti individuai e civili, che il controllo delle banche renda impossibile il riformarsi di grandi mafie locali di potere e l’arbitrio di capi con radici oscure.
Il fascismo appare per ora una serie di episodi limitati e destinati a sorprendere sul momento. Negli Stati Uniti, accanto a Trump, ha dimostrato di avere ben altra forza e coerenza, anche se l’immensa natura democratica del Paese ha rallentato per ora la corsa pazza del nuovo fascismo dentro il palazzo. Caccia ai neri, cure mediche da eliminare, aborto da proibire, vaccini da liquidare, scienza da screditare, confini, muri, armi, minaccia permanente di guerra, sono tante postazioni da presidiare per logorare la normalità democratica, negare l’autonomia della cultura, ridurre la religione a fanatica superstizione nazionalista.
Questo è l’acido che in Europa dovrebbe corrodere fino a spezzare i vincoli dell’Unione, e in Usa ridurre a simbolo da museo la Costituzione. Il ritorno del fascismo non è folklore. Naturalmente occorre una grande e confusa debolezza intorno. A loro sembra il momento giusto.

il manifesto 15.10.17
«Rohani guarda all’Europa per isolare Trump»
Iran/Usa. Parla Ali Hashem, esperto di politica iraniana. «Tehran si muove con cautela per proteggere l'accordo sul nucleare che ha messo fine ad anni di sanzioni economiche. Conta sull'Unione europea per respingere l'attacco di Trump che ha ridato fiato ai conservatori in Iran»
di Michele Giorgio

Hassan Rohani punta su un «ruolo costruttivo» dell’Europa per accrescere l’isolamento di Donald Trump. «Spero che tutti i Paesi membri dell’Ue giochino un ruolo costruttivo per il mantenimento dell’accordo e approfittino delle opportunità di collaborazione», ha detto ieri il presidente iraniano tornando a commentare le parole di Donald Trump che non ha certificato l’accordo sul programma nucleare iraniano.
Rompere l’intesa «equivale a mettere a repentaglio la sicurezza e la stabilità della regione e del mondo. Auspichiamo che l’Unione Europea impedisca mosse errate che pregiudichino la pace e la cooperazione internazionale», ha spiegato il presidente iraniano.
Tehran è in allarme. Il passo americano non ha raccolto appoggi nel Vecchio Continente ma Rohani sa che Trump ha aperto una breccia nella corazza dell’accordo e che le nuove sanzioni contro l’Iran decise da Washington presto potrebbero moltiplicarsi.
Non è da escludere inoltre l’adesione di altri Paesi a una politica più rigida nei confronti della produzione militare convenzionale dell’Iran, missili balistici in testa. Ne sono consapevoli Israele e Arabia saudita che, al contrario dell’Europa, hanno accolto con grande favore la mossa anti-Iran dell’Amministrazione Usa. «È stata una decisione coraggiosa di cui mi congratulo con il presidente Trump», ha commentato venerdì sera Benyamin Netanyahu. La Casa Bianca, dice il premier israeliano, ha creato un’opportunità vera per aggiustare un «accordo cattivo». Gioisce anche l’Arabia Saudita che ha offerto pieno appoggio a Trump di cui ha detto di apprezzare la «visione chiara» e l’impegno a cooperare con gli alleati nella regione.
Sui riflessi per la popolarità di Rohani della mancata certificazione dell’accordo da parte degli Usa e sulle contromosse diplomatiche di Tehran, abbiamo intervistato Ali Hashem, esperto di Iran per la stazione tv al Mayadeen e collaboratore del portale di informazione al Monitor.
L’Iran sceglie la prudenza dopo la decisione di Donald Trump di non certificare l’accordo del 2015.
Tehran si muove con cautela perché vuole proteggere un accordo costato negoziati estenuanti e che ha permesso la fine delle sanzioni internazionali e la ripresa delle relazioni economiche e politiche tra l’Iran e il mondo. Rohani e il suo entourage sanno che rispondere con il pugno di ferro al passo fatto da Trump significherebbe fare il gioco dell’avversario e condannare a morte l’accordo. Per questo il presidente iraniano ha ribadito la volontà del suo Paese di rispettare l’intesa e ha lanciato segnali rassicuranti all’Ue.
Rohani vuole un ruolo costruttivo dell’Ue. Cosa chiede esattamente.
L’intervento immediato a difesa dell’accordo fatto dalla rappresentante della politica estera dell’Ue, Federica Mogherini, è stato molto importante e Tehran l’ha accolto con soddisfazione. I leader iraniani però chiedono qualcosa di più di semplici dichiarazioni. In sostanza si aspettano che i Paesi europei rafforzino le relazioni economiche e politiche con Tehran, che facciamo passi concreti per revocare le rimanenti sanzioni contro l’Iran e che prendano ancora più apertamente le distanze da Trump.
Quanto la decisione di Trump rilancia l’opposizione a Rohani, quella parte dell’establishment che non ha mai creduto agli Stati uniti, neppure quando Barack Obama era al potere.
Trump ha fornito altre munizioni a chi in Iran non ha mai voluto e creduto nell’accordo e la posizione di Rohani, che di quell’intesa è stato uno degli artefici, si è fatta delicata. Le dichiarazioni di Federica Mogherini sono state ossigeno puro per il presidente perché hanno chiarito ai cittadini iraniani che l’Europa non sta tutta dalla parte dell’Amministrazione Usa e che l’Occidente non vuol dire gli Stati uniti. Ciò però non basta a rafforzare il presidente.
La firma nel 2015 dell’accordo aveva alimentato, sull’onda delle promesse di Rohani, parecchio entusiasmo tra gli iraniani. La fine delle sanzioni internazionali era stata presentata come l’inizio di una ripresa economica vertiginosa. I programmi di sviluppo però sono stati realizzati solo in parte e gli investimenti internazionali se da un lato sono stati significativi dall’altro sono rimasti sotto le aspettative. E ora l’accordo viene attaccato e gli Usa impongono nuove sanzioni.
Il siluro sganciato da Trump non avrà affondato Rohani ma l’ha messo una posizione decisamente più precaria, più difficile. E quando, come si prevede nei prossimi mesi, gli Usa approveranno altre sanzioni e misure punitive contro l’Iran, diventerà fondamentale il giudizio della Guida Suprema Ali Khamenei. Il suo sostegno alla linea morbida di Rohani potrebbe non essere più così scontato.

La Stampa 15.10.17
Medioriente, dai conflitti spunta l’Iran
di Maurizio Molinari

Per comprendere la scelta di Donald Trump di contestare all’Iran la violazione dell’accordo sul nucleare bisogna partire da cosa sta avvenendo in Medio Oriente, dove Teheran si profila come il vincitore della guerra siriana proiettandosi nel ruolo di potenza regionale in rapida ascesa.
A poco più di due anni dall’intervento russo in Siria il regime di Bashar Assad sta per cogliere il successo militare e ciò implica un’affermazione strategica dell’Iran di vasta portata. Il successo di Assad è descritto dal terreno: riconquistate Aleppo e Palmira, eliminati i ribelli nel Qalamun ed isolati alla periferia di Damasco, i reparti del regime combattono a Deir ez-Zour, nell’Est, ciò che resta dello Stato Islamico. La resistenza di almeno 15 mila jihadisti è accanita ma i raid aerei russi e americani non gli lascia scampo: saranno eliminati o fuggiranno entro fine anno, secondo le previsioni prevalenti. Il punto è che la sconfitta dei ribelli sunniti e il declino di Isis implica l’ascesa dell’Iran.
I motivi sono tre. Primo: le forze combattenti più efficaci a fianco di Assad sono state gli Hezbollah libanesi, emanazione di Teheran. Su circa 40 mila effettivi, gli Hezbollah ne schiera in Siria almeno 8000 ed ha subito circa 1800 perdite. Anche a Deir ez-Zour sono gli Hezbollah che guidano l’offensiva, operando con truppe russe e milizie sciite di più Paesi.
Secondo: sul lato iracheno del confine a comandare è Al-Hashd Al-Sha’abi, le Forze di mobilitazione popolari create dagli sciiti iracheni sul modello di Hezbollah grazie ad armi, fondi ed addestratori iraniani. Ciò significa che l’incontro fra le milizie sciite irachene e gli Hezbollah libanesi sulla frontiera disegnata da Sykes-Picot nel 1916 consente all’Iran di avere il controllo su un’area che va da Teheran a Beirut, passando per Baghdad e Damasco, creando quella «Mezzaluna sciita» che nel 2004 il re giordano Abdullah identificò come il maggiore pericolo per gli Stati sunniti. Il premier israeliano Benjamin Netanyahu e l’ex capo della Cia David Petraeus adoperano l’espressione «autostrada sciita» per far comprendere che consentirà a Teheran di avere accesso diretto alle coste del Mediterraneo Orientale, con conseguenze strategiche di rilievo. Dopo l’arrivo di Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno tentato di impedire la nascita di tale «autostrada» spingendo le milizie arabo-curde a insediarsi lungo la sponda orientale dell’Eufrate ma il tentativo, pur portando all’entrata a Raqqa, è fallito perché i russi sono stati più abili nel sostenere l’avanzata concorrente di Assad ed Hezbollah. Di recente reparti curdi, sostenuti dal Pentagono, si sono trovati a breve distanza da unità di Assad affiancate da russi: l’attrito si è risolto con Washington che ha frenato i curdi e Mosca che ha spinto avanti i siriani. Ed è un segno del nuovo equilibrio di forze nella regione, dove ad essere in vantaggio sono i russi. È senza dubbio vero che unità americane sono posizionate ad Al-Tanf, ai confini con la Giordania, e nel Rojava curdo-siriano, ma al momento non sembrano in grado di impedire all’Iran di disporre del corridoio terrestre che ridisegna gli equilibri.
Ma non è tutto perché il terzo e decisivo fattore a favore di Teheran è il comportamento della Russia. Nei negoziati svoltisi ad Amman con Usa e Giordania, i russi hanno respinto le richieste di porre limiti geografici alla presenza iraniana in Siria. Anche Israele ha sostenuto tale necessità con Mosca - nell’ultimo incontro al Cremlino di Netanyahu con Putin - ma senza successo. Ciò significa che oltre due anni di combattimenti hanno forgiato un’alleanza Russia-Iran-Siria-Hezbollah a cui Mosca non intende rinunciare considerando l’asse sciita lo strumento più efficace per strappare il Medio Oriente agli Stati Uniti. La conseguenza è una vittoria strategica iraniana che porta la firma di Qasem Soleimani, l’alto ufficiale dei Guardiani della rivoluzione responsabile delle operazioni all’estero, agli ordini diretti del Leader Supremo dell’Iran, Ali Khamenei. Ad accrescere il prestigio militare, e l’influenza politica, di Soleimani c’è quanto avviene in Yemen dove i ribelli houthi, addestrati ed armati da Teheran, tengono in scacco il contingente pansunnita creato da Riad e riescono a bersagliare il territorio saudita con piogge di razzi, mortai e perfino qualche Scud.
La descrizione di tale scenario fa comprendere che l’Iran è la potenza militare in ascesa in Medio Oriente, giovandosi delle debolezze di un fronte sunnita lacerato dalle divisioni interne come la disputa fra Qatar ed Arabia Saudita evidenzia. E trae autorità dal possesso di un programma nucleare legittimato dalla comunità internazionale con gli accordi di Vienna del 2015. L’unico vero grattacapo per Teheran è la Turchia di Recep Tayyp Erdogan, determinata ad avere sotto il controllo delle sue milizie l’enclave siriana Idlib, proteggendo ciò che resta dell’opposizione sunnita.
Nulla da sorprendersi se Hassan Nasrallah, sceicco di Hezbollah, pronuncia discorsi sulla «vittoria in Siria» così come le indiscrezioni sullo spostamento di sunniti da alcuni quartieri attorno a Damasco lasciano intendere la volontà di consolidare gli sciiti nelle località più strategiche come l’aeroporto internazionale, che Teheran adopera per far arrivare ad Hezbollah in Libano più tipologie di missili. Israele ha condotto dozzine di raid per bloccare tale traffico d’armi ma Hezbollah è comunque riuscito ad ammassare in Libano un arsenale di almeno 150 mila vettori con gittata tale da minacciare l’intero Stato ebraico. Se a ciò aggiungiamo il tentativo di Hezbollah di produrre missili in appositi siti libanesi non è difficile arrivare alla conclusione che una Siria satellite iraniano può innescare un conflitto con Israele destinato a far impallidire il precedente del 2006. Chi più teme tale orizzonte è la Giordania di re Abdallah perché l’«autostrada sciita» la trasforma nell’avamposto sunnita, circondato da reparti filo-iraniani lungo i confini con l’Iraq e la Siria. Amman chiede protezione a Washington così come Gerusalemme fa pressione su Mosca: per impedire che il successo iraniano nella guerra siriana si trasformi nella premessa di una devastante guerra regionale.
È davanti a tale prospettiva che il presidente Trump ha deciso di assumere l’iniziativa puntando a frenare l’avanzata iraniana, aggredendone i pilastri: i Guardiani della rivoluzione, l’arsenale missilistico e il programma nucleare.

Il Fatto 15.10.17
“Fu Franco a infiammare lo spirito catalano”
Paul Preston - Lo storico del regime spagnolo ricostruisce l’origine dell’indipendentismo e il ruolo dell’attuale re
di Andrea Valdambrini

“Quando le truppe franchiste presero Barcellona, la città fu data in mano ai navarresi. Non perché avessero combattuto meglio, ma perché li odiavano di più. Un ufficiale disse a un giornalista portoghese: ‘l’unica soluzione è uccidere tutti i catalani. È solo una questione di tempo’”. Tempo che non passa senza lasciare tracce, secondo Paul Preston, professore di Storia della Spagna contemporanea alla London School of Economics and Political Science e maggior esperto mondiale dell’epoca di Francisco Franco e della Guerra civile (1936-39).
Che peso ha la storia nell’attuale crisi catalana?
Franco diceva che ci sono due Spagne: quella autentica dei vincitori della Guerra Civile e l’anti-Spagna, quella degli sconfitti. Alla sua morte, il 20 novembre 1975, Juan Carlos si è proclamato “re di tutti gli spagnoli”, una frase che poi avrebbe usato come un mantra e che suo figlio ha recentemente tradito. I violenti eventi delle scorse settimane evocano le memorie peggiori della dittatura. E anche le affermazioni del premier Rajoy, a cui il Re ha fatto eco, ci riportano indietro al passato.
Quanto pesa il franchismo nella formazione dell’identità catalana moderna?
Costantemente, negli ultimi 100 anni, l’indipendentismo catalano ha nutrito l’intransigenza centralista di Madrid. Prima ancora di Franco, l’anti-catalanismo del generale Miguel Primo de Rivera (1923-30) portò nel 1931 all’affermazione della Esquerra Republicana de Catalunya e al seguente statuto di autonomia del 1932. Quando poi i militari spagnoli si sollevarono nel 1936, uno dei principali obiettivi fu quello di sradicare l’indipendentismo catalano, come in effetti avrebbe fatto Franco con la repressione durata decenni. È naturale quindi che gli anni della dittatura abbiano reso più forti i sentimenti identitari dei catalani.
Per molti intellettuali e politici il patto costituzionale post-franchista concretizzatosi nella carta del 1978 è divenuto non più attuale.
Non sono un esperto di diritto costituzionale. Mi sembra però sia giunto il momento per attuare una riforma che apra alle autonomie regionali.
Cosa suggerirebbe al governo di Madrid per provare a superare lo stallo?
Idealmente, il ritorno allo Statuto di autonomia della Catalogna proposto nel 2006 e liquidato nel 2010. Dubito tuttavia che Madrid possa accettare un simile consiglio.
Che ruolo gioca la monarchia?
Tanto Juan Carlos prima che Felipe ora sono ansiosi di preservare l’integrità del Regno. Sotto Juan Carlos, la priorità principale è stata quella della democrazia, imponendo se stesso come attore imparziale e rispettato. Al contrario, il discorso pronunciato da Filippo VI ha mostrato profonda mancanza di sensibilità nei confronti delle aspirazioni dei catalani.
Quanto pesa ancora la memoria della guerra civile, evocata dal portavoce del Partito popolare che ha ricordato la fine violenta del primo presidente catalano Lluis Companys.
Il paragone tra Companys e Puigdemont è un’esagerazione totale. Il leader indipendentista catalano degli anni ’30 è stato una vittima di Franco, mentre l’attuale presidente della Generalitat può al massimo essere multato o bandito dalla politica.
Le sembra che Rajoy stia gestendo la crisi nell’interesse della Spagna e di tutti gli spagnoli?
No, sta facendo gli interessi propri. E ha il tornaconto elettorale nel prendere questa posizione così dura.
Gli spagnoli deplorano l’egemonia culturale della lingua catalana nella regione autonoma, i catalani si sentono discriminati dalla cultura spagnola. È possibile rintracciare le origini di ciò?
È come per Brexit: un mare di esagerazioni e di bugie da entrambe le parti, e la cosa sta avvenendo dal 2005. Durante la dittatura il problema non c’era: le bugie venivano solo da una parte.

il manifesto 15.10.17
Ombre nere sulle urne in Austria, l’Spoe spera nel voto utile
di Angela Mayr

VIENNA Nel tendone gremito davanti alla sede dei socialdemocratici (Spoe) nella Loewelstrasse il sindaco di Vienna Michael Haeuplaccende il popolo «rosso»: «Non vogliamo lasciare questo Paese a quelli che in realtà lo vogliono distruggere come hanno già tentato e in parte dimostrato per sei anni».
Il clima è combattivo e fiducioso, niente depressione. La speranza è l’ultima a morire, gli ultimi sondaggi dicono che la distanza tra il favorito assoluto Sebastian Kurz e il cancelliere Christian Kern si stanno accorciando. Yes we Kern, partono i cori, ed eccolo arrivare, più combattivo che mai: «Il nostro Paese è davanti a un bivio. Dobbiamo decidere se prendere la strada degli esperimenti nero- azzurri (destra-destra) o la via austriaca della responsabilità sociale a guida socialdemocratica …non permetteremo l’orbanizzazione dell’Austria».
Oggi 6,4 millioni di austriaci aventi diritto al voto lo decideranno. È prevista un’affluenza alta, un numero altissimo – 889. 000, circa un 17% dell’ elettorato – ha richiesto schede per votare fuori seggio o per posta mentre oltre il 20% degli elettori è ancora incerto.
I governi austriaci fin dal 1970 sono stati a guida socialdemocratica, con l’eccezione dei sei anni di governo di destra sostenuto da Joerg Haider. ll partito popolare (Oevp) da anni è secondo e in calo di consensi, per invertire la rotta si è fatto rivoltare come un guanto da poco più di un ragazzo, l’enfant prodige dagli occhi azzurri, Sebastian Kurz.
Una carriera tutta dentro il partito popolare, iniziata sedicenne, gradino per gradino, fino a diventare il ministro degli Esteri più giovane d’Europa. Oggi ha 31 anni, studi inconclusi, nessuna professione oltre la politica, è riuscito nel paradosso di mettersi in scena come outsider issando la bandiera del cambiamento e della paura dell’ Islam strappata a Strache. Acclamato come una rock star intercetta un clima diffuso, stanco dell’immobilismo della Grosse Koalition. È stabilmente in testa da mesi al 33% nei sondaggi.
Paga il mantra snocciolato in ogni dove: ridurre le tasse, fermare l’immigrazione «non più sostenibile nel nostro sistema sociale». Impassibile nei dibattiti televisivi – ce ne sono stati una cinquantina, un record – liquida ogni critica ai tagli sociali, non dichiarati tali ma impliciti nel suo programma, come dirty campaigning.
Del gioco sporco tra guru dello spin, tra socialdemocratici e popolari ricaduto soprattutto sui primi, si è approfittata l’estrema destra di H.C. Strache, da sempre campione in campagne del fango contro immigrati e avversari politici, presentandosi come la faccia più pulita.
In televisione il leader della Fpoe, partito che discende storicamente dagli ex nazisti, è apparso in una veste nuova, più morbida e dialogante, di chi aspira ad andare al governo. Non più referendum sull’uscita dall’Europa, ma più «nazione», in sintonia con i paesi dell’Est del gruppo Visegrad.
Fairness, equità, la parola più usata sui cartelloni di propaganda. Intesa come niente servizi sociali per chi non ha pagato contributi, quindi solo per gli austriaci e non ai rifugiati «che non se lo sono guadagnati», perciò non sarebbe fair. Nel mirino, la Mindestsicherung, il reddito di cittadinanza, che sarebbe la ragione per cui i migranti arrivano in Austria. Tuttavia i toni duri, apertamente razzisti, sono relegati alle seconde e terze file o alla Rete.
Tre sono i partiti a rischio quorum, stabilito al 4%. Tra questi, incredibilmente, i Verdi, al 12,4% nel 2013. La campagna presidenziale vincente per Alexander van der Bellen ex capogruppo verde, paradossalmente non ha dato loro nessuna spinta in avanti. Anzi, in un anno, consumata ogni risorsa, è sbiadita la loro linea politica. Hanno vissuto una grave crisi, che li ha divisi in tre parti, tra l’espulsione dell’organizzazione giovanile (ora insieme al Partito comunista Kpoe) e la scissione del cofondatore, lo sferzante e spiritoso Peter Pilz che si presenta con una lista che porta il suo nome.
Capolista dei Verdi, è rimasta una candidata di grande esperienza e preparazione ma poco televisiva, la vicepresidente del Parlamento europeo Ulrike Lunacek.
Incerto anche il risultato dei Neos, partito liberal di Matthias Strolz.

il manifesto 15.10.17
«Kurz è un rottamatore ma anti europeista, vicino agli eredi di Haider»
Intervista . Patrick Moreau, uno dei più attenti studiosi dell’estremismo di destra in Austria e Germania spiega origini, profilo e pericolosità del candidato popolare Sebastian Kurz, l'enfat prodige di Vienna, favorito per le elezioni di oggi in Austria, che rischia di spaccare definitivamente l'Europa
di Guido Caldiron

Ricercatore del Cnrs e membro del Laboratoire Dynam dell’Università di Strasburgo, Patrick Moreau è uno dei più attenti studiosi dell’estremismo di destra in Austria e Germania, tema a cui ha dedicato diversi lavori tra cui L’autre Allemagne (Vendémiaire, 2017), e De Jörg Haider à Heinz-Christian Strache (Cerf, 2012).
Il leader dei popolari austriaci, Sebastian Kurz, è in testa in tutti i sondaggi. Se vincerà le elezioni ha già detto che potrebbe governare con l’Fpö, il partito liberal-nazionale che fu portato al successo da Haider. Quale il profilo di questo 31enne che la stampa ha ribattezzato come «Wunderwuzzi», l’«enfant prodige» della politica locale?
Kurz ha certamente bruciato le tappe, è stato Segretario di Stato all’Integrazione a 24 anni, ministro degli Esteri e 27 e ora potrebbe diventare cancelliere. Ma la sua giovane età e il suo stile pacato non devono trarre in inganno, si tratta di un personaggio brillante ma altrettanto ambizioso che aspira da sempre al potere. Ha scalato rapidamente i vertici del partito popolare, l’Övp, comportandosi come un killer: è partito dall’organizzazione giovanile e in 15 anni è arrivato al vertice. A quel punto ha cercato di costruire un movimento tutto centrato sulla sua persona, e che lui cerca di controllare rigidamente, una sorta di «Lista Kurz», più che la Övp di un tempo. Un messaggio che è arrivato all’elettorato. In molti dicono di voler votare per lui non tanto per quello che afferma, visto che il suo programma è piuttosto generico, ma proprio perché è percepito come qualcuno che vuole dare un calcio alla politica tradizionale.
Sul piano politico Kurz ha però impresso una svolta conservatrice e nazionalista al centro-destra, ha rotto la «grande coalizione» con i socialdemocratici, annunciato una stretta su migranti e richiedenti asilo, minacciato di chiudere i centri musulmani. Una linea talmente dura che il leader del Fpö, Heinz-Christian Strache, che spera di diventare vice cancelliere, lo ha accusato di avergli copiato il programma.
Per molti versi si può dire che Kurz è una sorta di versione light di Jörg Haider. Dall’immigrazione alla politica economica le sue idee sono ad esempio in netta rottura con l’Europa. Da leader dei Popolari si è già opposto ad una ripartizione equa dei migranti tra i diversi paesi della Ue, come all’allargamento automatico della zona Euro e ha annunciato di voler ridurre i poteri della Commissione europea e il suo spazio di intervento nella politica dei diversi Stati. Con lui alla guida del paese, l’Austria potrebbe avvicinarsi alla linea euroscettica del gruppo di Visegrad, formato da Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovacchia. E si deve tener conto che nel 2018 sarà proprio Vienna ad assumere la presidenza di turno dell’Unione europea. Per età e spirito di rinnovamento paragonano Kurz a Macron, ma lui è l’esatto contrario, è un anti-europeista convinto.
Lo scorso dicembre, quando fu sul punto di conquistare la presidenza della Repubblica, come nel 2000, quando fu varato il primo esecutivo tra Fpö e Övp, esplose la protesta. Ora invece l’allarme per l’estrema destra tarda a scattare, come mai?
Come tutti i paesi europei, anche l’Austria è toccata da una profonda crisi della democrazia che coinvolge anche il profilo sociale e ideologico dei partiti tradizionali, socialisti e popolari su tutti. In questo contesto lo spazio per la fine della demonizzazione dell’estrema destra si è fatto sempre più forte. E ciò anche perché l’Fpö ha cercato in tutti i modi di sbarazzarsi dell’immagine sinistra di un tempo; come quando, negli anni Ottanta, Haider lodava ancora la politica sociale del Terzo Reich. Il nuovo leader, Heinz-Christian Strache, ha fatto sì che agli occhi di moltissimi austriaci questo risulti ormai come un partito «normale». Anche se si tratta di una formazione anti-sistema, contraria all’Europa, ai migranti e ai musulmani. La variante austriaca di quel fenomeno «nazional-populista» che comprende partiti più recenti come il Front National e la Lega Nord. Solo che in realtà l’Fpö è sulla scena già dall’immediato dopoguerra ed è nato su iniziativa di alcuni ex notabili nazisti.

Corriere 15.10.17
Satelliti e zucche È la grande Cina
di Guido Santevecchi

PECHINO I membri del Partito comunista cinese sono 89 milioni; altrettanti gli iscritti alla Lega giovanile. Non c’è da sorprendersi se per entrare alla «Mostra sul progresso della Cina nei 5 anni sotto la guida del Pcc con Xi Jinping cuore della leadership» ci si deve incolonnare e avere pazienza. Ma ne vale la pena. Alla vigilia del 19esimo Congresso che si apre il 18 ottobre, visitare l’esposizione è un modo per comprendere le nuove ambizioni cinesi. «Sogno cinese» è uno degli slogan preferiti del segretario generale comunista nonché presidente della Repubblica popolare, anche se il significato del sogno non è ancora stato chiarito.
Le file sono ordinate: visitatori singoli, gruppi, militari, ultrasessantenni. Il Palazzo delle esposizioni è in stile sovietico, sormontato da un torrino con stella rossa: fu disegnato da architetti dell’Urss negli Anni 50, quando Pechino era il compagno povero di Mosca. Oggi i rapporti si sono ribaltati: la Cina è la seconda economia del mondo, la Russia può contare su gas, petrolio e forza militare.
Uno striscione all’ingresso spiega: «Strettamente uniti intorno al compagno Xi Jinping, lingdao hexin ! ». L’espressione «lingdao hexin» significa «nucleo centrale e cuore della leadership» del Partito. Un titolo che fu di Mao Zedong e di Deng Xiaoping. Da agosto l’esercito ha cominciato a definire Xi anche «lingxiu», che vuol dire leader ma è appellativo che fu solo di Mao ed evoca una grandezza di comando anche spirituale.
In nove saloni sono esposti gli avanzamenti tecnologici e militari della Repubblica popolare negli ultimi 5 anni: modelli di treni ad alta velocità (la Cina ha la Tav più lunga del pianeta con oltre 22 mila km), satelliti, missili, centrali nucleari, carri armati, portaerei, sottomarini, trattori e anche una zucca (vera questa perché costa meno l’originale di una copia) per dimostrare quanto conti ancora l’agricoltura in un Paese che deve nutrire oltre 1,3 miliardi di persone. Su tutto incombe la figura di Xi, ritratto in gigantografie nelle più svariate occasioni: mentre riceve leader stranieri, saluta re e regine, ispeziona comandi dell’esercito e villaggi sperduti, fabbriche e fattorie. Il messaggio è che grazie alla sua visione la Cina sta riprendendo il posto che le spetta nel mondo, superpotenza dopo le umiliazioni dell’Ottocento e dell’inizio del Novecento.
Sala numero 10: attività della Commissione centrale di disciplina del Partito. I primi 5 anni di Xi sono stati caratterizzati da una spietata campagna anticorruzione, per ripulire il Partito-Stato dai funzionari affamati di tangenti: 1,34 milioni di burocrati puniti. È esposta una carrellata di foto dei dirigenti più famosi condannati all’ergastolo. Xi li chiama Tigri da abbattere e ora sulle pareti sembrano trofei di caccia. Affinché niente manchi al nuovo culto della personalità di Xi, sotto quelle immagini di dignitari umiliati è esibita una ricevuta per un pasto del leader: 160 yuan, 20 euro. E il menu di un buffet durante un’ispezione in provincia: pollo brasato in salsa marrone, ratatouille con maiale, zucca bianca con polpettine, ravioli di maiale con riso.
Quest’uomo di 64 anni, nel pieno delle forze, si presenta al 19esimo Congresso, evento che si svolge una volta ogni 5 anni. Si prevede che nella Costituzione comunista verranno inseriti i suoi insegnamenti sotto il titolo «Il Pensiero di Xi Jinping»: anche questo onore fu riservato solo a Mao e Deng. Si dice che Xi manovri per restare al comando dopo il Congresso del 2022, quando a 69 anni dovrebbe ritirarsi.
Il 19esimo Congresso non è solo un rituale interno. Siccome questo è il Partito-Stato e la Cina reclama il suo rango globale, da mercoledì si discuterà di nuovo ordine mondiale con caratteristiche cinesi. La differenza tra «America First» di Donald Trump e «Rinascimento cinese» sostenuto da Xi è che l’attuale presidente americano minaccia di cancellare alleanze politiche e commerciali e bruciare i ponti della globalizzazione; Xi, cultore della stabilità, offre un altro modello: ha proposto una nuova Via della Seta con investimenti per 900 miliardi di dollari; ha messo a disposizione dell’Onu 8 mila caschi blu. Ma ha anche un sogno geopolitico ed economico che preoccupa. Perché non ha fermato la Nord Corea? Perché ha fatto costruire isole artificiali nel Mar cinese meridionale? Che cosa produrrà il piano «Made in China 2025» che impone alle aziende straniere in Cina di condividere (cedere) la loro alta tecnologia? In ultima analisi: come userà il potere assoluto il compagno Xi Jinping?

il manifesto 15.10.17
Sankara, rivoluzione sotto l’albero
Parole e fatti. A 30 anni dall’assassinio di Thomas Sankara, presidente del Burkina Faso, una sintesi del suo discorso tenuto il 22 aprile 1985 nel quadro della settimana rivoluzionaria del lavoratore forestale

Il luogo dove celebriamo la settimana rivoluzionaria del lavoratore forestale non potrebbe essere più significativo. In tempi antichi lo si sarebbe potuto chiamare bois de Boulogne, talmente gli alberi erano fitti. Oggi, eccoli, pochi e rachitici, e senza un futuro se non ci diamo da fare.
LA LOTTA contro l’avanzata del deserto non può essere separata dalla lotta antimperialista, contro le forme di dominio e balcanizzazione. È una lotta ideologica e politica prima di essere pratica e tecnica. Piantare alberi, evitare di tagliarli, deve essere un cosciente atto politico, se non vogliamo essere noi stessi gli agenti del deserto che ci invade. Con questa lotta gli Stati africani capiranno che l’unità africana è una necessità, non una semplice opzione. Ognuno deve cedere un po’ di sciovinismo, un po’ di sovranità per cancellare quelle cicatrici che sono le frontiere. Esse ci dividono. Occorre rifare la Conferenza di Berlino. Possiamo lottare contro la desertificazione solo facendo dell’Africa un continente unico. Le ricchezze, le abbiamo.
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Campagna antidesertificazione, agosto 1985
IN BURKINA FASO abbiamo deciso di avviare tre lotte, compagni, tre lotte: contro gli incendi nella savana, contro la divagazione degli animali d’allevamento, contro il taglio incontrollato degli alberi per farne legna da ardere. Gli incendi sono d’ora in poi considerati un crimine. I detrattori della rivoluzione diranno che noi reprimiamo, ma sono persone che non hanno mai seminato, coltivato un campo, non sanno che cos’è e che cosa produce un incendio nella savana. I villaggi, e in particolare i locali Comitati per la difesa della rivoluzione, i Cdr, devono sorvegliare il proprio territorio. Ogni anno spendiamo molto denaro e molta energia, facciamo debiti per costruire sistemi anti-erosivi dei quali in passato non c’era bisogno. Bastavano le radici degli alberi e delle piante a mantenere uno spesso strato di humus su un suolo ben solido malgrado la forza del ruscellamento delle acque. Oggi in Burkina Faso l’acqua fugge via. Il nostro impegno nella lotta saprà trattenerla.
LA SECONDA LOTTA è contro le mandrie erranti, che divorano tutto quello che cresce sul suolo, distruggendo la natura e condannando le prossime generazioni. La terza lotta è contro il taglio incontrollato di alberi per farne legna da ardere. D’ora in poi tutta la filiera sarà controllata e per tagliare alberi occorrerà una licenza, con una quota massima annua. Le popolazioni rurali potranno fare legna per l’autoconsumo familiare ma non per la vendita. La legna non sarà più abbondante e ognuno ormai si ingegnerà per economizzarla nelle attività culinarie, ricorrendo a tecniche e tecnologie fino a oggi neglette. Le donne in particolare libereranno – per necessità – il proprio genio creativo. E l’Istituto burkinabè per l’energia (Ibe) diffonderà le invenzioni che per ora dormono nei cassetti e sotto gli alberi, perché nelle nostre città e campagne non se ne è ancora compreso il senso e l’importanza. E forse potremo puntare sull’energia che abbiamo in abbondanza: il sole.
INFINE OGNUNO DI NOI, chi vuole e anche chi non vuole, dovrà ormai piantare alberi. Per avere il diritto all’ombra e all’acqua occorre proteggere la natura. Il rimboschimento è dunque un’esigenza per chiunque viva qui, burkinabè e stranieri. Piantare un albero fa parte delle richieste minime per essere e rimanere in Burkina. Gli alberi saranno piantati dovunque; voi, compagni della Direzione acque e foreste, avrete il compito di sviluppare il progetto, e anche creare vivai popolari a disposizione di tutti.In tutti i villaggi dovranno nascere piccoli boschi, come nell’antica Grecia. Ne avevamo tanti, i nostri padri ce ne parlavano, per spiegare e inquietarsi di fronte alla desertificazione, alla sahelizzazione galoppante. Boschetti dove approfondire la filosofia comunitaria del villaggio, dove educare ogni bambino, dove iniziare tutti al rispetto di regole vitali. La distruzione dei boschetti ha distrutto la filosofia che li accompagnava e i metodi di organizzazione. Così abbiamo consegnato il nostro paese all’invasione del deserto che lo ha ridotto in polvere.
RICREEREMO I BOSCHETTI. Ogni autorità del Burkina Faso – e ciascuno di noi ormai è un’autorità nelle sue peregrinazioni – deve rendere concreto questo principio. Quanto ai forestali rivoluzionari che celebriamo in questi giorni, saranno molto distanti da quelli di ieri, che andavano a far comunella con i bracconieri per degustare le teste di pipistrello e le zampe di rospi della brousse.
LA LOTTA DEL POPOLO burkinabè non si può dissociare da quella degli altri popoli. Anch’essi devono impegnarsi nella costruzione di scudi protettivi contro il deserto che avanza. A che cosa potrebbe mai servire un rimboschimento se i paesi che sono a nord, che sono fra il deserto reale e il semi-deserto attuale (la nostra realtà), non si applicano in uno sforzo analogo ed effettivo? Abbiamo il dovere di esigere che anch’essi rimboschino.
Ma per questo, dobbiamo iniziare da noi stessi.

Il Fatto 15.1.17
Mata Hari: cento anni fa all’alba fucilarono anche la Belle Époque
Il 15 ottobre del 1917 la celebre danzatrice olandese, accusata di essere un’agente segreto al servizio della Germania, veniva fucilata dai francesi nel Castello di Vincennes
di Leonardo Coen

Mi chiamo Mata Hari. In malese vuol dire Occhio dell’aurora. La luce dell’alba, cioè la speranza. Sono morta cent’anni fa, proprio oggi, giustiziata in un fossato del castello di Vincennes, alle 6 e 15 di un mattino freddo e nebbioso, il 15 ottobre 1917. Non era l’alba che avevo sognato. Ma sono morta senza paura: non ho voluto la benda, ho fissato il plotone di esecuzione e non c’è stato bisogno di legarmi. Anzi, sono stata io ad incoraggiare quei poveri ragazzi. Dodici zuavi reduci. Otto di loro hanno sbagliato mira. Uno mi ha centrato al ginocchio, un altro al fianco, un terzo al cuore. Il dodicesimo colpo era a salve: così voleva il regolamento, perché ognuno dei soldati potesse pensare di non aver ucciso. Quando il maresciallo Petay si è avvicinato per il colpo di grazia alla tempia, ero già senza vita. Sparò lo stesso e poi disse: “Mata Hari è morta”. Uno dei soldati svenne per l’orrore.
Sono stata vittima della mia bellezza, e della mia fama di grande seduttrice. Altro che la Bella Otero. Mi hanno accusato d’avere fatto la spia a favore dei tedeschi, ma è falso, ho sempre cercato di fare il doppio gioco, di fingere d’essere dalla parte del Kaiser per carpire informazioni e passarle ai francesi, il capitano Ladoux lo sa bene… al processo, però, si è ben guardato dal confermarlo. Avevano bisogno di montare lo scandalo, il governo francese voleva dimostrare che lo Stato era vigile, che il nemico – qualsiasi esso fosse – non l’avrebbe mai fatta franca, così dissero che ero “la più grande spia del secolo”, addirittura responsabile di aver mandato alla morte più di ventimila soldati nemici. Ero un perfetto capro espiatorio. Specie dopo lo scandalo Dreyfus.
A che cosa servivano le minuziose descrizioni dei miei rapporti intimi pubblicati ogni giorno, durante il processo, sui giornali di tutto il mondo, se non ad alimentare il mito erotico di una che tradiva in amore, dunque anche in guerra? Per questo vennero diffuse, pure in cartolina, le mie foto di scena più piccanti. Il fatto che ballassi nuda, o quasi, sui palcoscenici dei più grandi teatri – anche alla Scala di Milano – contribuirono a fare di me un’avventuriera priva di scrupoli, “felina, bugiarda e artificiosa”, come disse il capitano Bouchardon che aveva istruito il processo. Mi hanno condannata a morte a luglio, sapendo perfettamente che avevo trasmesso informazioni di scarsissima importanza. Trentadue anni dopo lo ammise il procuratore André Mornet, che era stato un mio amante e che rappresentava l’accusa: “In quell’affaire non c’era nulla di valido contro di lei”.
Mi hanno giustiziata perché diventassi sinonimo della donna fatale che metteva insieme sensualità e perdizione, sesso e tradimento. Icona della tentazione, quindi anche dello spionaggio. Poco importavano i fatti.
Semmai, sono colpevole d’essere stata venale e incosciente, di essere entrata in un gioco più grande di me. Sono stata una donna di piccola virtù, non lo nego, ho avuto stuoli di amanti pronti a tutto per me, e costoro erano soprattutto militari, di ogni nazione: russi, tedeschi, francesi, persino un italiano… Certo, in parte la colpa è stata mia. Ho raccontato un sacco di bugie: m’inventai d’essere figlia di un maharaja. Che avevo imparato i segreti della danza di Shiva. Il mio colorito bruno, i capelli scuri, il mio aspetto esotico, mi hanno aiutato. Volevo cancellare la mia vita di donna sposata. E divorziata. Fingevo d’essere nata nelle Indie orientali, mentre invece ero nata in Olanda il 7 agosto del 1876, di buona famiglia, benestante. Il mio vero nome è Margaretha Gertuide Zelle. Mio padre possedeva un mulino, ma poi l’hanno rovinato certe speculazioni sul petrolio e finimmo sul lastrico. Mia madre morì che avevo quindici anni. Ero già molto alta – un metro e 77 – e ben messa. A diciotto anni risposi ad un annuncio di cuori solitari, quattro mesi dopo mi sposai con Rudolph John MacLeod, aveva vent’anni più di me, era stato militare in colonia, beveva sempre e talvolta mi picchiava. Tralascio la storia rovinosa del matrimonio, delle mie pene nelle Indie olandesi: i miei due figli furono avvelenati, per invidia di una nostra lavorante. La bimba sopravvisse, il piccolo no. Tornammo in Olanda, ci lasciammo.
Andai a Parigi: senza un soldo in tasca. E lì cominciò tutto. All’inizio cercai di guadagnarmi da vivere dando lezioni di tedesco, di piano; come dama di compagnia, commessa, e modella per i pittori di Montmartre. Tornai in Olanda. Dormii con uomini per denaro, lo ammetto. Feci la ballerina in spettacoli senza veli. Inventai la danza delle bayadere, dicevo d’essere una principessa di Giava. Un impresario capì che potevo diventare una diva: “Sei l’incarnazione del desiderio d’Oriente”. Tutti i teatri mi contendevano. Passai tra le braccia di baroni e imprenditori, mi ricoprirono di gioielli e di regali, girai il mondo, vissi un anno in un castello. Fui la Belle Époque. Sarajevo rovinò tutto. Ed anche me. Mi sono reincarnata in Greta Garbo. Marlene Dietrich. Sylvia Krystel. Maruschka Detmers. Persino in Carla Fracci. Sono morta un’infinità di volte. Al cinema. A teatro. Nei libri. L’ultimo, forse il più bello, è La spia di Paulo Coelho. Perché inizia con la mia fine: il mito è una parola scelta dalla Storia.

La Stampa 15.10.17
Tristano, troppo Tristano:
Nietzsche prigioniero di Wagner
L’opera in scena in questi giorni a Torino segnò il pensiero del filosofo e lo ossessionò per tutta la vita, anche dopo la rottura con il compositore
di Maurizio Assalto

«Si può immaginare un uomo che sia in grado di ascoltare il terzo atto di Tristano e Isotta […] senza esalare l’ultimo respiro sotto la spasmodica tensione di tutte le ali dell’anima? Un uomo che […] abbia avvicinato l’orecchio per così dire al cuore della volontà universale, che senta riversarsi di qui in tutte le vene del mondo, come fiume tonante o come delicatissimo ruscello polverizzato, la furente brama di esistenza, non si spezzerebbe forse subitamente?». È il 1872, e Friedrich Nietzsche esprime così, nella Nascita della tragedia, l’entusiastica ammirazione per l’opera che in questi giorni proprio a Torino, la città dove si compì il suo dramma esistenziale, inaugura la stagione del Regio.
Il filosofo tedesco (al momento più filologo) ha 28 anni ed è ancora pienamente immerso nella sua fase schopenhaueriana e wagneriana. E le parole di Tristano morente - «Ahimè, che cresce, / pallido e pavido, in me del giorno / il folle assillo; / bugiardo e stridulo / l’astro diurno / mi desta la mente / agli inganni e ai fantasmi» - sono quasi una traduzione in versi delle concezioni di Schopenhauer sul «velo di Maya» alla radice del principium individuationis; così come quelle di Isotta che chiudono l’opera - «Nell’ondeggiante marea, / nell’immenso fragore, / nella palpitante pienezza / del respiro del mondo, / naufragare, / annegare, / inconsapevole, / estrema estasi!» - danno voce all’estremo approdo della sua filosofia, quando la voluntas (di vivere) diventa noluntas.
«Ogni fibra, ogni nervo»
La scoperta di Wagner e della sua opera «capitale», «risanatrice», risale a dieci anni prima, quando il giovane Friedrich - nato in una famiglia di musicisti dilettanti ed egli stesso appassionato melomane, nonché volonteroso compositore fin da bambino (capita ancora, ogni tanto, di ascoltare i suoi Lieder in qualche serata concertistica) - ne aveva ricevuta una riduzione per pianoforte. Il Tristano sarebbe stato rappresentato per la prima volta, al Munich Hofoper, soltanto tre anni dopo, ma è da quel momento, ricorderà Nietzsche in Ecce homo, che «fui wagneriano». Quella musica lo percuoteva nell’intimo del suo essere fisico e spirituale: «Ogni fibra, ogni nervo vibra in me», confidò in una lettera all’amico filologo Erwin Rohde. Quello con Wagner era un incontro fatale che avrebbe segnato tutta la vita del filosofo, un’ossessione di cui rimase prigioniero e che ne avrebbe attraversato l’opera da un capo all’altro, riemergendo di continuo, anche dopo l’insanabile rottura.
I due si erano incontrati la prima volta nel 1868, a Lipsia, ma cominciarono a frequentarsi intensamente soltanto dall’anno successivo: quando Nietzsche, venticinquenne, aveva ottenuto la cattedra di lingua e letteratura greca all’Università di Basilea e di lì aveva agio di recarsi nella vicina villa di Tribschen, sul lago di Lucerna, dove Wagner si era ritirato in fuga dallo scandalo scoppiato a Monaco per la sua relazione adulterina con Cosima, figlia illegittima di Liszt, di 24 anni più giovane. Da quegli incontri - 23 in tre anni, annoterà il filosofo - nacque un’amicizia asimmetrica fatta di scambi intellettuali in cui però era soprattutto Nietzsche a subire l’influenza del più anziano musicista - ma anche la personalità della sua compagna.
Dionisiaco e apollineo
È stando a contatto con il Maestro che il futuro profeta del Superuomo sviluppa le concezioni confluite nella Nascita della tragedia, il cui titolo completo - giova ricordare - è La nascita della tragedia dallo spirito della musica, ovvero Grecità e pessimismo. Il vero senso dell’antica arte drammatica che conobbe il suo fulgore con Eschilo e Sofocle consiste nella fusione dei due impulsi originari che si agitano nello spirito ellenico, il dionisiaco che avverte con sgomento la irriducibile irrazionale caoticità dell’essere, e l’apollineo che, come reazione di difesa, crea il mondo delle belle forme definite. Nella tragedia il dionisiaco è rappresentato dalla musica, l’elemento primario e universale che produce incessantemente le immagini e le parole, mentre l’apollineo è la vicenda dell’eroe cristallizzata nei versi. In altri termini, è il testo che segue la musica, e non viceversa.
Sepolta la tragedia greca - uccisa dal razionalismo ottimistico di Euripide (allievo ideale di Socrate) che relega Dioniso in secondo piano fino ad annullarlo -, Nietzsche ne vede una reviviscenza nelle opere wagneriane, sgorgate «dal fondo dionisiaco del popolo tedesco». Un’illusione destinata a esaurirsi presto. Nel 1873 il compositore inaugura il suo tempio musicale a Bayreuth, e Nietzsche, che ha salutato l’evento come l’alba di una rivoluzione culturale, comincia a nutrire i primi dubbi. Nella corte che circonda il Maestro in questa città, dove lui stesso si reca ripetutamente, si sente a disagio, realizza poco alla volta che «l’uomo che ha dato un linguaggio a tutto ciò che nella natura non aveva ancora voluto parlare» (così in Richard Wagner a Bayreuth) è in realtà «un romantico disperato divenuto marcio» (Umano, troppo umano) che tutto amplifica in una inarrestabile deriva sfociata nell’eccesso retorico pangermanista. Agli appunti di carattere tecnico-musicale si accompagna il progressivo distacco ideologico dal musicista che rivaluta il cristianesimo e si appoggia alla ricca borghesia nazionalista e antisemita, così tradendo la propria missione universalista.
Un fascino pericoloso
Alla fine, nell’agosto del ’76, Nietzsche fugge dall’aria soffocante di Bayreuth, dalle sue «canaglie sfaccendate», dalla sua «arte equivoca, smargiassa e afosa», e nel novembre dello stesso anno, al culmine di una serie di reciproci sgarbi e incomprensioni, arriva la rottura definitiva. A Natale il filosofo scrive ancora una lettera a Cosima: «Ciò che è stato grande è rimasto grande: anzi, lo è veramente soltanto ora». Poi proseguirà sulla sua strada, lontano da Wagner, lontano da Schopenhauer, verso la Volontà di potenza e le danze libere e felici del Principe Vogelfrei e di Zarathustra. Ma anche nella dottrina dell’Eterno ritorno, proclamato da quest’ultimo, come non vedere una lontana reminiscenza delle parole di Tristano momentaneamente riavutosi prima della fine - «Ero / dove da sempre fui, / dove per sempre vado»? Al Maestro di cui era stato devoto ai limiti del fanatismo Nietzsche non smetterà mai di pensare. E in Ecce homo, scritto nell’88, all’estremo limite della propria vita cosciente, tornerà sulla sua ossessione: «Ancora oggi vado in cerca di un’opera che abbia il fascino pericoloso, la dolce e tremenda infinitezza del Tristano. […] Il mondo è povero per chi non è mai stato abbastanza malato da godere di questa voluttà dell’inferno».

Corriere 15.10.17
«Io, depresso a 30 anni guarito da uno psichiatra Era il papà della mia ex»
Il rapper: ai coetanei dico di non avere paura di chiedere aiuto
di Elvira Serra

Il suo sogno?
«Un concerto a San Siro o allo stadio di Avellino, che è la mia città».
Cosa la rende felice?
«Le scarpe».
Non ci credo.
«Ne ho 500 paia».
Peggio di Carrie in «Sex and the City»! Dove le tiene?
«Ognuna nella sua scatola, in una stanza nel mio appartamento in affitto. La chiamo la camera delle bambine...».
Con i soldi spesi sarebbe riuscito a dare l’anticipo per una casa.
«In effetti... Le più preziose sono le Nike numerate per le Olimpiadi di Tokyo 2020: ne esistono solo cento paia nel mondo. Ma non le ho comprate io, me le ha spedite un estimatore anonimo nel mio studio di registrazione».
Quanto calza? Così, per altri estimatori...
«Quarantacinque: il numero americano è 11. Da buon meridionale, se uno me le regala devo dare indietro un euro».
Gianluca Picariello è nato ad Avellino trentacinque anni fa. Mamma Antonietta casalinga, papà Salvatore libero professionista nel campo della telefonia, una sorella più piccola, Serena. I suoi genitori lo volevano avvocato. Lui nel 2008 vince il premio Hip Hop Best New Artist, al Meeting Etichette indipendenti. Nel 2015 diventa Artista Hip Hop dell’anno. Ha appena pubblicato Mezzanotte , il suo quinto album. Chiacchieriamo davanti a un succo di mela in un locale di via Paolo Sarpi, la Chinatown di Milano.
A quale canzone è più legato?
« Magia nera , la terza del nuovo disco».
«Il giorno in cui ho scoperto la normalità fu una rivelazione a base chimica». Cosa intendeva?
«Era una mattina di marzo: per la prima volta dopo mesi mi ero svegliato senza ansia; è successo un anno e mezzo fa».
Ne soffriva da tanto?
«Ho iniziato a stare male a gennaio del 2016. Mi mancava la voglia di fare qualsiasi cosa, anche una telefonata, alzarmi dal letto, cucinare, lavare i piatti. Sentivo solo l’urgenza di dormire, a qualsiasi ora del giorno. Abbassavo le tapparelle già alle quattro del pomeriggio».
Non pensò di chiedere aiuto?
«La mia compagna di allora era figlia di un neuropsichiatra, mi convinse lei ad andare da una psicologa, una seduta a settimana. Ma l’apatia restava. Poi per quindici giorni mi rinchiusi in casa. La terapeuta propose uno specialista: “Vogliamo usare una stampella?”. Dissi di no una volta, due volte, tre volte. Pensavo di essere all’inizio di un processo creativo, di trovarmi, come già era successo, davanti a una montagna in cui bastava trovare una fessura in cui infilarmi. Mai cavolata fu più grande».
Cosa le fece cambiare idea?
«Sempre la mia fidanzata: mi fece incontrare suo padre. Un momento molto frustrante, perché magari lui per la figlia desiderava una persona diversa... Invece fu comprensivo, ma anche diretto. Ero depresso, dovevo prendere dei farmaci».
E lei non voleva.
«Solo l’idea mi sembrava una sconfitta enorme. Mi portavo dietro tutti gli stereotipi sugli antidepressivi: creano sonnolenza, ti addormenti mentre sei in giro. Io non avevo mai preso nulla nella vita, ho sempre pensato che il mio cervello dovesse restare “pulito” per la mia creatività. Comunque cominciai. Nella prima settimana sentii solo gli effetti collaterali...».
Quando ha accettato l’idea della «cura»?
«Quando ne ho parlato con gli amici più stretti. Ho pensato a tutte le volte in cui mi ero sentito negativo o ero stato pesante anche con loro: forse non era solo colpa mia, era la depressione. Realizzarlo è stato un sollievo. Le medicine stavano iniziando a fare effetto, a marzo mi svegliai senza l’ansia».
Non ne ha parlato con i suoi genitori?
«Mia sorella lo sapeva, con papà e con mamma ho preferito aspettare, avrebbero detto che i loro figlio aveva qualcosa che non andava».
Da lì tutto bene?
«No... Nel frattempo la relazione con la mia compagna è entrata in crisi, ma per motivi nostri. E ad agosto, a termine del tour del 2016, mi sono ritrovato all’ospedale per una pericardite. Ho dovuto cambiare farmaci altre due volte. Per i cinque mesi successivi ho vissuto in un appartamento senza gas: facevo la doccia in palestra, mangiavo sempre fuori. Il mio punto fermo era andare ogni giorno in studio a registrare».
Il risultato è il disco appena uscito. Quando si è avvicinato al rap?
«Da piccolo in casa sentivo i cantanti che piacevano a mio padre: Baglioni, Venditti, Dalla. Poi un giorno, quando avevo dodici anni, mio cugino mi fece ascoltare un pezzo degli Articolo 31. Scoprii su Radio Deejay un programma che si intitolava Venerdì Rappa, di Albertino, ma andava in onda troppo tardi e io il sabato andavo a scuola; così lo registravo con una cassetta e la riascoltavo il giorno dopo. È allora che ho cominciato a scrivere. La fortuna del rap è questa: non devi avere per forza una formazione di base, puoi improvvisare su qualunque cosa, anche su questo accendino».
Provi.
« Sono Ghemon un ragazzo di Avellino / posso mettere in orizzontale o verticale questo accendino ».
Perché Ghemon?
«Per Lupin III, il cartone animato. Era il mio personaggio preferito».
Chi le piace dei rapper italiani?
«Nessuno».
Esagerato.
«No, voglio spiegarlo meglio... Rispetto tanto la parte lavorativa di alcuni di loro, ma artisticamente parlando facciamo cose diverse».
E chi rispetta?
«Fabri Fibra, Gué Pequeno, Marracash e Salmo. Hanno trasformato un’idea di rap amatoriale in un’attività lavorativa tutta loro».
Lei a quale genere appartiene?
«Ho un genere tutto mio. Sono ancora un rapper, sono un cantautore a livello di testo, mentre a livello di melodia non ho riferimenti italiani».
Quali sono i suoi?
«Stevie Wonder, Frank Ocean, Kendrick Lamar. Questi ultimi due, in particolare, fanno musica di qualità e vendono tantissimi dischi».
Le piacerebbe andare a Sanremo?
«Sì, sarebbe un bel regalo per i miei nonni: “Vabbé, non si è sposato, però è andato a Sanremo...”».
Per sposarsi c’è ancora tempo.
«La verità è che l’anno scorso proponemmo per il festival Un temporale , che va in radio adesso. Ma dissero che non l’avrebbero nemmeno ascoltata... Ci rimasi male, ne aveva tutto il diritto. Quindi a Sanremo vorrei andare per far sentire un altro tipo di canzoni».
Ha conosciuto qualcuno dei suoi miti?
«Per me uno era Neffa, e ci sono riuscito. Il mio rammarico è non aver mai incontrato Pino Daniele».
È credente?
«Sì. Ora faccio arrabbiare mio padre se lo racconto, ma da un anno e mezzo mi sono avvicinato al buddismo, anche se non mi posso ancora considerare buddista. Sento una grande energia dal pubblico, la trovo dentro di me quando resto solo e mi preparo a uscire sul palco. C’è qualcosa oltre a noi...».
Ultimo libro letto?
«Amo le biografie. L’ultima è quella del musicista George Clinton».
È goloso?
«Di vino bianco! Mi piace mangiare, ma un po’ sto attento. Otto anni fa pesavo 106 chili: quelli che come me dimagriscono tanto si sentono sempre con una ciambella in pancia».
Scusi, ma è calvo o no?
«No, mi sono rasato per espiazione».
Lei è pazzo.
Ride. «Ho deciso di ripartire dai capelli!».
Dalle maniche si intravedono dei tatuaggi. Quanti ne ha?
«Una quindicina. Questo, Me First ( io al primo posto, ndr ) me lo feci fare dopo il ricovero per la pericardite. Qui sulla spalla (e lo mostra, ndr ) ho la mia prima Jordan rossa: di questo modello ne ho 25 paia di colori diversi».
Ma allora la sua è una ossessione!
«Eh sì, sono abbastanza problematico...».
Prende ancora gli antidepressivi?
«Sì, non mi vergogno a dirlo. A fine mese vedrò di nuovo lo specialista e decideremo insieme la sospensione graduale. Ora la mia vita è molto cambiata: da due mesi ho una relazione stabile con Giulia, il mio appartamento è diventato accogliente e sono riuscito a farmi fare l’allaccio del gas! Tanti fan mi scrivono e mi dicono grazie. Sento una responsabilità nei loro confronti: vorrei spiegare che se sei depresso ti devi curare e la cura non ti annienta, riesci comunque a vivere e a essere te stesso».

Corriere 15.10.17
Alla modernità liquida serve una cura e Carrón l’ha trovata: papa Francesco
di Antonio Polito

Il nuovo libro di don Julián Carrón, Dov’è Dio? , un’intervista con Andrea Tornielli, si può leggere in parallelo con L’innominabile attuale di Roberto Calasso. Non stupisca l’accostamento di personalità tanto diverse, un prete e un guru. Perché il soggetto che entrambi studiano è l’ homo saecularis , questo discendente dell’ homo sapiens che oggi domina l’Occidente, che si è un po’ alla volta scrollato di dosso tutti i pesi — tradizione, religione, morale — solo per finire attanagliato da una epocale crisi di panico: «Ha vinto — dice Calasso — ma gli manca qualcosa di essenziale».  Che cos’è quell’essenziale? Che cosa impedisce alla società secolarizzata di provare quantomeno soddisfazione, se non felicità, invece che angoscia e rabbia? È l’incontro con Cristo che le manca, argomenta Carrón, successore di don Giussani nella guida della Fraternità di Comunione e Liberazione. Nella parte più affascinante del libro, risale alle origini della modernità per spiegare la frattura che si è determinata tra società e cristianesimo. E l’origine è Kant, La religione entro i limiti della sola ragione . Quando la riforma protestante ruppe l’unità del mondo cristiano, e mise fine a un’epoca in cui «uomo» e «cristiano» erano sinonimi, l’Illuminismo tentò di salvare dalle guerre di religione i valori essenziali della morale e di basarli sulla sola loro evidenza razionale. Kant riconosceva che «se il Vangelo non avesse insegnato prima le leggi etiche universali nella loro integra purezza, la ragione non le avrebbe riconosciute nella loro compiutezza». E del resto altrove, al di fuori della tradizione giudaico-cristiana, non sempre è avvenuto. Però il filosofo credeva anche che fosse giunto il momento in cui se ne poteva fare a meno: «Dato che ormai quei valori esistono, ognuno può essere convinto della loro giustezza e validità mediante la sola ragione».  Due secoli dopo, si può dire che non è andata così. Valori che prima erano condivisi e riconosciuti da tutti, oggi non lo sono più. Il valore della persona, della vita, della solidarietà, persino quello della democrazia, vengono messi in discussione. Separandoli dalla sorgente cristiana, la modernità non è stata in grado di mantenerli nella loro forza e originale integrità, questo è il grido di Carrón. Ed è questa la ragione per cui ritiene che proprio oggi, proprio al culmine del processo di secolarizzazione, si riapra un grande spazio per il cristianesimo, sollecitato anzi dalla stessa cultura laica, sgomenta di fronte alla crisi dell’umanesimo provocata dalla modernità. Purché i cristiani, avverte l’autore, la smettano di guardare al mondo come un «abisso di perdizione», e lo vedano invece come un «campo di messe», per citare le metafore che don Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, usò nel 1929 in un editoriale su «Azione Fucina».  Di qui derivano conseguenze profonde per il dibattito in corso nel mondo cristiano. Negli Stati Uniti, per esempio, fa discutere il libro di Rod Dreher, l’autore dell’«opzione Benedetto», che paragona la modernità liquida al Diluvio Universale della Bibbia, e invita i cristiani a fare come il Santo da Norcia nel VI secolo, ritirarsi in nuovi conventi: «Costruirci delle arche con le quali sopravvivere, e con l’aiuto di Dio galleggiare fino a quando non vedremo di nuovo la terraferma, e potremo cominciare a ricostruire, ripiantare, rinnovare il mondo».  Carrón indica la via opposta, quella che lui chiama la «cura Francesco», la terapia di Papa Bergoglio: altro che ritirarsi, piuttosto buttarsi nel mondo. Sapendo però che l’unico modo in cui si possa farlo è tornando alle origini del messaggio cristiano: non presentarlo cioè come una dottrina, come un insieme di regole e formule, o una morale, una religione civile, una devozione privata. Ma piuttosto come un evento storico, un avvenimento, l’incontro con Cristo; che si comunica non per proselitismo, ma «per attrazione», scrive Francesco nella Evangelii gaudium . Un po’ come agli albori del cristianesimo, quando la gente guardava quei pazzi che credevano nell’uguaglianza degli uomini, che curavano i malati durante le epidemie, che rispettavano le donne e non le costringevano ad abortire né uccidevano le neonate, e cominciò a imitarli. «Il cristianesimo — dice Carrón — in fondo si comunica per invidia: vedendo che la vita cristiana è più piena, più intensa, più capace di abbracciare il diverso, di amare l’altro, si accende il desiderio di vivere così».  L’opzione Francesco, di cui il leader di Cl costantemente segnala la coerenza col magistero del fondatore, don Giussani, e la continuità con il papato di Benedetto XVI, è una vera scelta di campo per un Movimento che è stato a lungo raccontato come un bastione del conservatorismo, militante sul fronte dei «valori non negoziabili», un pezzo della destra cristiana, da cui non a caso provengono alcuni dei più affilati critici di questo papato. «Devo confessare che mi sfuggono le ragioni di simili posizioni», risponde netto Carrón. «Papa Francesco rappresenta una grazia per la Chiesa nel mondo di oggi. Chi non crede che Francesco sia la cura, non ha capito qual è la malattia ».

Corriere La Lettura 15.10.17
Lo Stato laico rinasce in Asia
In Kirghizistan  nel nuovo modello risuonano l’ateismo marxista-leninista, l’ansia di controllo della sfera religiosa da parte delle autorità e l’utopia di una neutralità egualitaria
di Marco Ventura

Inneggiano all’«islam nello Stato laico» i cartelli per le strade di Bishkek. Sono in verde: il colore dell’islam, la religione dell’80% dei cinque milioni di abitanti del Kirghizistan. Islam, Stato laico: fermiamoci e riprendiamo il filo. C’era una volta lo Stato unito a una religione, lo Stato confessionale. E c’era una volta lo Stato separato dalla religione, lo Stato laico. Nel tempo e nello spazio, lo Stato confessionale e lo Stato laico si sono espressi in forme diverse, ma hanno rappresentato due modelli chiaramente contrapposti; si sono divisi i popoli, gli intellettuali, i leader politici e religiosi su quei modelli.
Dopo le rivoluzioni francese e americana l’ideale della separazione tra Stato e religione è parso il più potente, il più adatto alla corsa della storia verso la modernità secolarizzata: era il non establishment of religion del primo emendamento della Costituzione americana destinato a dominare nel mondo anglofono e a isolare l’eccezione inglese; era la laïcité francese esportata nelle lingue, nelle società e nei diritti di turchi e senegalesi, belgi e svizzeri francofoni, italiani, spagnoli e portoghesi; era il separatismo stalinista o maoista, visceralmente antireligioso.
Lo Stato laico ha perso progressivamente energia con la sconfitta del nazionalismo laico arabo, la vittoria di Khomeini e l’elezione di Giovanni Paolo II, l’omicidio in nome di Dio di Yitzhak Rabin, il nazionalismo indù e il fondamentalismo buddhista. La fine della guerra fredda, la globalizzazione, le Torri gemelle hanno iniziato una nuova storia, ribelle al paradigma della modernità secolarizzata. Nel tempo del jihad globale, religione e politica si sono riavvicinate: lo hanno richiesto il bisogno di riscoprire e difendere le identità culturali e la necessità di alleanze tra governi e organizzazioni religiose. La preferenza dello Stato per una religione non è più parsa la traccia di una pre-modernità da superare ma un’eredità da custodire e da far fruttare. Sicché negli ultimi decenni si è parlato sempre meno di Stato laico, e con crescente imbarazzo.
Ripreso il filo, torniamo a Bishkek, tra il pubblico riunito nella residenza presidenziale il 28 settembre scorso. Il presidente della Repubblica kirghisa Almazbek Atambayev ha preso la parola mentre sullo schermo alle sue spalle si accende in inglese, russo e kirghiso la stessa scritta verde «L’islam nel moderno Stato laico». «Crediamo — ha detto il presidente — nella conoscenza e combattiamo il dogmatismo. I nostri padri si sono convertiti all’islam perché l’islam non metteva in pericolo la nostra cultura e la nostra tradizione». Perché «la religione era nei nostri cuori». Tocca a «noi musulmani», ha proseguito Atambayev, proteggere l’islam dai radicali, dagli estremisti, dagli «islamisti incolti». Per far ciò va adottato «il modello dello Stato laico» che tiene in equilibrio gli interessi, insegna correttamente la religione e rispetta le fedi.
Nel padiglione al centro del parco, il discorso di Atambayev ha trovato orecchie attente: hanno ascoltato, e sono poi intervenuti di rinforzo, autorità degli altri Paesi dell’Asia centrale ex sovietica, un ministro indiano e uno egiziano, i delegati dell’Unione europea e dell’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, esperti nordeuropei e indonesiani, russi e americani. Dopo due giorni, la conferenza si è conclusa con la Dichiarazione di Bishkek: non c’è nulla di incompatibile con l’islam nella laicità, l’islam si trova a suo agio dentro uno Stato laico, e ci sta addirittura meglio che in uno Stato islamico.
Il filo si è di nuovo ingarbugliato. Di laicità e islam parlano di norma gli imam arditi e gli studiosi innovatori; invece sa di vecchio questo Stato laico celebrato dai leader dell’Asia centrale post-sovietica. Risuona l’eco dell’ateismo marxista-leninista, si riaffacciano l’ansia di controllo statalista del religioso e la vecchia utopia di una neutralità egualitaria. Sembra roba fuori dal tempo, inutile o controproducente; tanto più qui, nel cuore dell’Asia, nella terra di un islam a lungo represso e pronto a esplodere, vicino ai talebani afghani e alle popolazioni musulmane perseguitate dal governo cinese, tra la Russia cristiana e l’India indù.
Mentre dal display in sala e dagli striscioni appesi sopra le strade della capitale kirghisa si è salutato lo Stato laico, sembra piuttosto che della laicità a Bishkek si sia celebrato l’inarrestabile declino; che solo in un Paese sperduto si possa ancora credere in un principio sperduto. Il filo sembra dipanato.
Ma non è così. La partita che si gioca in Asia centrale è cruciale. La reinvenzione dello Stato laico è decisiva per i nuovi equilibri politico-religiosi. Per seguire il filo fino in fondo bisogna guardare la realtà che scompiglia le categorie, occorre farsi spiazzare dalla spregiudicatezza di chi conta. Il presidente Atambayev e gli altri attori di Bishkek hanno impastato modelli un tempo ritenuti contrapposti e inconciliabili. All’etichetta di Stato laico corrisponde una sostanza nuova, fatta di ingredienti che uniti disgustano il palato liberal-democratico occidentale. Lo Stato laico centro-asiatico è devoto alla cultura e alla religione della tradizione e della maggioranza, ma è anche impegnato a salvaguardare la dignità e l’eguaglianza delle fedi. Nel suo intervento il vice-ministro degli Esteri di Delhi ha definito così lo Stato laico indiano, «l’unità nella diversità», «la coesistenza delle fedi», «l’eguaglianza delle fedi, pilastro della modernità». L’oratore russo gli ha fatto eco e ha elogiato la Russia quale modello di Stato laico. In entrambe le polarità, quella dello Stato laico protettore della tradizione e della maggioranza, e quella dello Stato laico egualitario difensore delle minoranze, il contromodello è ormai lo Stato ostile alla religione e la funzione pubblica per eccellenza diventa l’alfabetizzazione al religioso.
La Dichiarazione di Bishkek si fonda da un lato sulla presa d’atto che «l’islam ha una crescente influenza nella vita socio-economica degli Stati e nelle relazioni internazionali» e dall’altro sulla necessità di preservare «l’identità culturale dei musulmani»; la costruzione di una nuova cultura religiosa è del resto lo strumento primario del contrasto all’islamismo. Ha citato a più riprese il Corano, il presidente Atambayev, imitato dal ministro della Cultura egiziano e dai responsabili governativi per i culti del Kazakistan, del Tagikistan, dell’Uzbekistan e dell’Azerbaigian.
Seguendo il filo approdiamo a uno Stato laico strano e nuovo. Possiamo snobbarla questa laicità, piena di contraddizioni e furbi equilibrismi, strumentale al disegno di governi non democratici, a rischio di affondare nelle sabbie mobili dell’islam. Oppure possiamo interessarci a essa. Proprio perché è usata e abusata, dunque viva. E perché indicativa di processi lunghi e vasti.
Per gli osservatori è evidente come sia in atto da anni un avvicinamento tra sistemi separatisti e confessionali un tempo lontani, almeno idealmente. A questa conclusione è giunto un seminario tenutosi presso l’Università di Göttingen nello scorso giugno. Dal canto suo il Pew Research Center ha pubblicato la settimana scorsa un Rapporto sugli Stati che favoriscono una religione. Sui 200 Paesi studiati, in 80 il governo si identifica con una religione, è il caso soprattutto in terra d’islam, oppure preferisce una religione, come in molti Paesi cristiani. La maggioranza dei Paesi risulta priva di una preferenza religiosa ma la distanza tra i primi e i secondi è assai relativa. Lo Stato laico di Bishkek non è poi così sperduto. Né lo sono i passaggi chiave della Dichiarazione adottata al termine dei lavori: «Il vantaggio dello Stato laico sta nella sua abilità di creare e mantenere un equilibrio d’interessi tra i rappresentanti delle diverse comunità religiose, nonché tra credenti e non credenti; i valori dell’islam moderno rendono possibile lo sviluppo armonico della religione negli Stati laici, senza opposizione tra i canoni religiosi e la legge del Paese».
Forse il declino della laicità è inarrestabile. O forse l’Asia centrale salverà lo Stato laico, forse l’islam lo salverà. Non ne saranno felici i nemici dello Stato laico novecentesco, e neppure i suoi sostenitori. Perché lo Stato laico scritto in verde avrà dei vecchi sogni solo la parvenza. Sarà qualcosa di profondamente diverso e ci sorprenderà.

Corriere La Lettura 15.10.17
La riunificazione mancata
Germania. Il divario tra Est e Ovest resta enorme
di Maurizio Ferrera

«Nostalgia del passato, dei vecchi problemi, non ne ho. Le due Germanie sono tornate a essere una cosa sola. Soltanto io sono ancora lacerato dentro». Le parole sono di Karl Wolf Biermann, cantautore tedesco classe 1936, vissuto tra Germania Est e Ovest. Ma il 3 ottobre scorso, anniversario della riunificazione, sono state scelte dal presidente della Repubblica federale, Frank-Walter Steinmeier, come esordio del suo tradizionale discorso sull’unità del Paese. La scelta di Steinmeier segnala un paradosso. A distanza di 27 anni dal 1990, la riunificazione è un dato di fatto. Ma il tema dell’unità e della coesione interna è improvvisamente tornato a essere una «ferita», o almeno una «questione aperta».
Per capire il perché bisogna considerare ciò che è successo lo scorso 24 settembre. I risultati elettorali hanno rivoluzionato la composizione del Bundestag. La stampa internazionale è stata concorde nel definire la Germania post-voto un Paese fondamentalmente «diverso». Con le prospettive di un governo di coalizione «a tre» (non era mai successo) e un nuovo partito nazionalista e xenofobo, Alternativa per la Germania (AfD) come terza forza nel Parlamento, il Paese più importante d’Europa si è ritrovato orfano del suo tratto più distintivo: la stabilità politica. Quel che conta ancora di più (anche per capire le parole di Steinmeier) è il fatto che AfD abbia avuto una straordinaria affermazione nelle regioni della ex Germania orientale (Ddr). E che, durante la campagna elettorale, i nazionalisti abbiano spesso usato lo slogan Wir sind das Volk , «il popolo siamo noi». Dietro alla retorica populista, il nuovo partito avanza richieste molto concrete: chiusura delle frontiere, uscita dall’euro e dalla stessa Ue. Ma il profilo politico e la presenza ingombrante di AfD, soprattutto nell’Est, hanno una valenza più generale e delicata, ben colta da Steinmeier. La domanda «chi siamo, noi tedeschi?» è diventata, di nuovo, legittima. Nella storia europea, i dubbi identitari del Volk hanno spesso provocato seri danni.
Per il resto del mondo, chi siano i tedeschi e cosa sia la Germania è piuttosto chiaro. Culturalmente, si tratta della patria del pensiero filosofico europeo, dall’Illuminismo in avanti. Politicamente, è stata il principale protagonista del «secolo breve»: per aver provocato, prima, guerre sanguinose, e essere diventata, poi, l’emblema di un mondo diviso tra capitalismo e socialismo, il più delicato teatro della guerra fredda. A partire dagli anni Novanta, la Germania è stata il motore dell’integrazione europea. La prima generazione Erasmus è quella che si identifica con le immagini del crollo del Muro di Berlino nel novembre 1989. Il 3 ottobre 1990 non nacque soltanto la Germania unita, ma anche una nuova Europa proiettata verso l’unione politica, oltre che monetaria.
Le vecchie ferite non si sono però rimarginate. Al posto della cortina di ferro c’è un lungo e tortuoso tratto verde, ricco di specie rare e protette (ai tempi del filo spinato in quelle zone non c’era nessuno, solo animali). Anche se oggi è fatto d’erba, il confine c’è ancora, quale che sia l’indicatore di riferimento. I cittadini dell’Est vanno in vacanza sul Mar Baltico, quelli dell’Ovest nei Paesi mediterranei. I primi amano la tenda, i secondi il camper. I Wessies (occidentali) si vaccinano molto di più contro l’influenza e posseggono più armi da fuoco. Gli Ossies sono più abituati a mandare i figli all’asilo, le loro fattorie sono gigantesche (il socialismo amava i larghi appezzamenti agricoli) . Persino nei nomi propri e in quelli di fantasia persistono curiose differenze. Fra gli utenti di Facebook le probabilità di entrare in contatto con qualcuno che si chiama «Ronny» sono cinque volte superiore all’Est che all’Ovest.
È tuttavia sul piano economico che il divario è ancora massiccio. Dopo un balzo in avanti nei primi anni, l’allineamento fra le due economie ha prima rallentato per poi ristagnare. La differenza fra reddito pro capite e produttività è incollato a «meno 20 per cento» da quasi un ventennio. I tassi di disoccupazione all’Est sono il doppio di quelli dell’Ovest. Mancano lavoratori con alte qualifiche, quelli che si formano all’Est migrano all’Ovest. La struttura produttiva delle due economie rimane molto diversa. I Länder orientali sono ancora largamente mantenuti da quelli occidentali.
La convergenza fra sistemi socio-economici che partono da condizioni molto distanti è difficile e tortuosa, lo sappiamo bene noi italiani. Ma in quel lontano autunno del 1990 erano in molti a scommettere che la Germania sarebbe riuscita a superare la corsa a ostacoli del catching up (il riallineamento) orientale. Così non è stato, il miracolo non è avvenuto. Come sempre nelle dinamiche storiche, le cause sono molteplici e complesse.
La riunificazione venne effettuata con un big bang, sulla scia dello slogan preferito della Cdu «unificazione subito» (il ministro dell’Interno si chiamava Wolfgang Schäuble). Il marco Ddr venne cambiato alla pari con il marco occidentale già nel luglio del 1990, per salvaguardare salari e risparmi e allineare il loro potere d’acquisto agli standard occidentali. Un faticoso compromesso con i sindacati impedì però l’adeguamento dei costi del lavoro alla produttività. L’agenzia statale Treuhandanstalt gestì in maniera frettolosa la privatizzazione delle grandi aziende dell’Est, che in gran parte fallirono. Dopo qualche fuoco di paglia, iniziò uno dei trasferimenti finanziari interterritoriali più massicci della storia. Oltre ai sussidi diretti da parte del governo federale e di altri Länder , all’Est sono arrivati fondi Ue e soprattutto sussidi previdenziali e assistenziali. Il volume complessivo delle risorse fluite da Ovest a Est è difficile da calcolare. Ma ancora per il 2011 (ultimo anno con i dati completi) le stime parlano di 30 miliardi di euro (in quell’anno). Una cifra enorme, che molto probabilmente non è diminuita né potrà farlo in futuro. La popolazione dell’Est invecchia molto rapidamente, i giovani cervelli migrano a Ovest, depauperando di capitale umano un’economia ancora fragile.
La storia più recente è nota. Dal 2005 in poi la Germania è diventata l’economia modello in Europa, campione di export e occupazione. Ma il successo del Modell Deutschland nasconde i persistenti e massicci differenziali tra Est e Ovest. Le reazioni dei cittadini a questo complessivo fallimento economico e sociale sono ambigue e difficili da interpretare. Secondo i sondaggi, i cittadini dell’Est valutano in maniera relativamente positiva la riunificazione: il 79% ritiene che i vantaggi siano stati maggiori degli svantaggi (a Ovest la pensa così solo il 49%). Si osserva però un paradosso: gli Ossies meno soddisfatti sono i giovani fino ai 29 anni. Quelli che la Ddr non l’hanno mai vista. La gestione rovinosa della crisi dei rifugiati ha sicuramente dato una spinta formidabile ai nuovi nazionalisti di AfD. Allo stesso tempo però, il risultato del 24 settembre scorso ha a che fare proprio con le persistenti disparità sociali ed economiche tra Est e Ovest.
In un altro passaggio centrale del suo discorso, il presidente Steinmeier ha detto che durante la notte delle elezioni è diventato chiaro che esistono «nuovi muri sulla strada di un “noi collettivo”». Muri che separano gli «stili di vita», le «città dalle campagne», l’«online dall’offline», i «ricchi dai poveri», i «giovani dai vecchi». Ma, soprattutto, i Länder orientali da quelli occidentali. Che tipo di Germania vuole l’elettorato dell’Est? Per capirlo, secondo Steinmeier, è necessario mettersi di nuovo all’ascolto. Di cosa? «Delle biografie delle persone (...). È come se le storie dell’Est non fossero mai diventate una parte integrante di quel “noi collettivo” che, fuori dai confini tedeschi, il mondo identifica con la Germania unita». Un’esortazione ragionevole. A patto che da questo ascolto esca una Germania più europea, capace di resistere alle sirene nazionaliste.

Il Sole Domenica 15.10.17
La fede in Cina
Intelligenza tattica delle religioni
di Ermanno Bencivenga

Lo sradicamento di religioni indigene e importate di cui si rese responsabile il regime di Mao, con relative distruzioni di luoghi sacri e persecuzioni di fedeli, fu, date le dimensioni della Cina e del suo popolo, il più ampio e radicale tentativo di imporre tesi e pratiche materialistiche su un intero Paese.
Sfumate le deliranti utopie di quel periodo, che provocarono decine di milioni di morti (oltre a ridicoli entusiasmi collettivi in Occidente), un regime ancora totalitario ha incoraggiato un diverso materialismo, basato sull’onnipotenza del mercato, su una casta di nuovi nababbi e su un consumismo spinto all’estremo. Eppure, spiega Ian Johnson nel suo The Souls of China, ciò non ha comportato l’estinguersi delle religioni in Cina. Tutt’altro: dopo aver disperatamente resistito negli anni tragici del Grande balzo in avanti e della Rivoluzione culturale, esse sono rifiorite sotto i nuovi padroni, complice l’ambigua tolleranza di questi ultimi. Oggi le persone legate a una qualche fede sono circa mezzo miliardo: buddisti e taoisti, certo, ma con una discreta percentuale (60/70 milioni) di cristiani, in grande maggioranza protestanti (i cattolici, che si integrano meno nei costumi locali perché subordinati alla gerarchia vaticana, sono solo una decina di milioni).
Johnson è un giornalista di origine canadese che scrive per il «New York Times», ha vissuto a lungo in Cina, insegna a Pechino e vinse il premio Pulitzer nel 2001 per il suo lavoro di reporter in quella nazione. Il suo libro dimostra insieme un’accurata conoscenza della storia e politica cinese, di cui spesso dà lucidi e istruttivi resoconti, e la quotidiana, intima familiarità con una nutrita serie di protagonisti di questo rinascimento religioso, che affonda le radici nel passato ma è anche animato da irresistibile vitalità. Ci sono i membri delle associazioni per pellegrini, che offrono tè (in servizi di porcellana) e vivande ai milioni di visitatori che ogni anno frequentano le decine di migliaia di templi sparsi ovunque, e lo fanno gratuitamente, investendo dosi massicce del proprio tempo e denaro. Ci sono i gruppi familiari che da generazioni amministrano i funerali: addobbano la bara e l’ambiente, pregano ed eseguono canti rituali, scelgono il posto giusto per la tomba. Ci sono i predicatori calvinisti che si danno da fare per conciliare il calendario cristiano con quello lunare seguito dal loro pubblico e per trasmettere abbastanza dimestichezza con il greco dei vangeli da comprendere il senso di agape.
Ho parlato di ambigua tolleranza da parte del governo. Ufficialmente, la sua ideologia è atea e contraria a ogni forma di trascendenza; ma i leader che si sono succeduti dopo la morte di Mao nel 1976 e soprattutto dopo il massacro di piazza Tienanmen nel 1989 hanno colto e cercato di sfruttare il ruolo che la religione può avere nel favorire pace e coesione sociale. Da un lato hanno avocato a sé la gestione degli affari di fede: con il cosiddetto Documento 19, intitolato «Prospettiva e linea politica fondamentale sulla questione religiosa durante il periodo socialista», lo Stato ha riconosciuto cinque religioni (buddismo, taoismo, islamismo, protestantesimo e cattolicesimo) e le ha strutturate in organizzazioni che gli rispondono direttamente.
Dall’altro, chiude benevolo un occhio sulle frange che si costituiscono in modo spontaneo, fuori da questa camicia di forza: la polizia vigila, ma se non si manifestano opinioni apertamente sovversive non interviene. Ciò ha dato luogo a una complessa strumentalizzazione reciproca: lo Stato è consapevole del potenziale rivoluzionario contenuto nelle credenze religiose e i credenti sono consapevoli del potenziale distruttivo a disposizione dello Stato, ma ciascuno utilizza abilmente i punti deboli dell’altro per promuovere i suoi fini. Al riparo della condiscendenza governativa, le varie chiese continuano a crescere e a difendere ideali contrari a quelli del governo; facendo defluire il generale scontento in cerimonie e prediche tutto sommato inoffensive, il governo consolida la sua sopravvivenza.
Al di là degli equilibrismi e opportunismi della politica spicciola, rimane una considerazione cruciale. Mentre il materialismo comunista ha fatto il suo tempo, quello consumista domina il pianeta, lasciando sul terreno centinaia di milioni di vittime: malati di depressione, drogati d’ogni genere, migranti in fuga dallo sfruttamento selvaggio delle risorse. Nel mezzo di una simile catastrofe epocale, fattori che vengono regolarmente invocati come strumenti di salvezza sono spiritualità e tradizione. Ma il consumismo non è in grado di colmare questo spazio, e neppure interessato a farlo: sa offrirci solo spot tirati a lucido e divi dall’espressione stolta. Siccome la natura aborre il vuoto, c’è da stupirsi se nello spazio così lasciato libero le religioni hanno messo in atto un vigoroso ritorno? Da ateo convinto, non posso che complimentarmi per la loro (perlopiù inconscia) intelligenza tattica.
Ian Johnson, The Souls of China: The Return of Religion after Mao , Pantheon Books, New York, pagg. x+455, $ 30

Il Sole Domenica 15.10.17
Giovanni Bignami (1944 - 2017)
L’origine e la fine di tutto
L’opera postuma del grande astrofisico è impregnata della sua passione per l’Universo e le sue rivoluzioni
di Vincenzo Barone

Con Le rivoluzioni dell’Universo Giovanni Bignami ci ha regalato il suo libro più coinvolgente e personale, ed è doloroso pensarlo come un’opera postuma. Ogni sua pagina è impregnata di quella straordinaria e prorompente passione che Bignami ha riversato in massima misura in tutte le sue attività: la scienza, l’organizzazione della ricerca, la divulgazione scientifica.
Nessuno, più di un astronomo, ha la consapevolezza dell’origine e della fine di tutte le cose, e del divario esistente tra noi piccoli fortunati abitanti del pianeta Terra e l’immensità degli spazi che si aprono al nostro sguardo. Nel corso dei secoli abbiamo imparato a esplorare questi spazi attraverso i tanti messaggeri che l’Universo – come scrive Bignami – «graziosamente accetta di mandarci»: l’intero spettro della radiazione elettromagnetica (dalle onde radio ai raggi gamma, passando per la luce – il primo strumento di osservazione del cielo), le particelle materiali (raggi cosmici e neutrini) e, buone ultime, le onde gravitazionali. Il maestro di Bignami, Giuseppe “Beppo” Occhialini, uno dei più grandi fisici sperimentali del Novecento, era uno specialista dei raggi cosmici, i corpuscoli che piovono continuamente sulla Terra da ogni direzione: nel 1932, mentre lavorava all’Università di Cambridge, trovò in uno sciame le tracce della prima particella di antimateria, il positrone, ma lui e il responsabile del laboratorio, Patrick Blackett, si videro soffiare la scoperta dall’americano Carl Anderson, che arrivò appena prima di loro.
Occhialini fu anche un pioniere dello studio dei raggi gamma celesti, ed è proprio in questo campo che il suo allievo Bignami conseguì negli anni Settanta il risultato che lo ha reso internazionalmente famoso, la scoperta di una misteriosa sorgente gamma nella costellazione dei Gemelli, che non emetteva onde radio come le altre. Una stella (di neutroni) che sembrava non esserci: Geminga la battezzò Bignami, con la G dura, come «Gh’è minga» («Non c’è»), e da allora il dialetto milanese ha fatto la sua comparsa nei trattati di astrofisica. Per lungo tempo Geminga rimase un oggetto indecifrabile, finché lo stesso Bignami – attorno al 1991 – non la osservò ai raggi X, identificandola come il primo esempio di una nuova importante popolazione di astri.
Nel 1987, con la cattura dei primi neutrini astrofisici prodotti nell’esplosione della supernova 1987a, appena al di fuori della nostra galassia, è nata l’astronomia neutrinica, e da poco più di un anno siamo entrati nel vivo dell’astronomia gravitazionale. La frontiera su cui è attualmente attestata la ricerca è l’astronomia multi-messenger, l’osservazione congiunta di messaggeri diversi (onde elettromagnetiche, onde gravitazionali, particelle) provenienti dallo stesso sistema astrofisico (per esempio, da una coppia di stelle di neutroni in collisione). La prospettiva è diventata molto concreta con l’entrata in funzione – lo scorso agosto – del rivelatore gravitazionale italo-francese Virgo, che ha affiancato i due strumenti simili della collaborazione statunitense LIGO, e c’è da attendersi presto qualche strepitosa scoperta.
Le «rivoluzioni dell’Universo» che danno il titolo al libro, e che Bignami ci racconta con lo spirito e la partecipazione di chi le ha vissute da protagonista, sono quattro: tre si sono verificate negli ultimi decenni, una appartiene al prossimo futuro.
La prima è la rivoluzione cosmologica, determinata dallo studio della radiazione cosmica di fondo (i fotoni rilasciati “appena” 380.000 anni dopo il Big Bang, all’epoca della formazione dei primi atomi) e del moto delle galassie lontane. Abbiamo imparato che l’Universo ha una composizione sorprendente: è costituito per circa due terzi da una forma sconosciuta di energia (l’energia oscura), che fa sì che la sua espansione sia accelerata, per un quarto da una forma di materia altrettanto sconosciuta (la materia oscura), che non emette luce, e solo per il 5% dalla materia ordinaria. Non solo, quindi, occupiamo una posizione insignificante nell’Universo, ma anche la sostanza di cui siamo fatti rappresenta un’eccezione su scala cosmica.
La seconda rivoluzione consiste in quella che Bignami chiama «astronomia di contatto». È una conseguenza dell’esplorazione diretta del Sistema Solare, cominciata nel 1959 con le missioni sovietiche Luna e proseguita con decine di sonde spaziali americane, russe ed europee che hanno scrutato e toccato i vicini di casa della Terra, fornendoci un’enorme quantità di informazioni (ricordiamo, tra le tante, le missioni Cassini-Huygens attorno a Saturno e sul suo satellite Titano, e Rosetta sulla cometa Churyumov-Gerasimenko).
La terza rivoluzione è legata all’astronomia dei pianeti extrasolari, il primo dei quali, orbitante attorno alla stella 51 Pegasi (a 40 anni luce da noi), fu individuato nel 1995 dagli astronomi svizzeri Michel Mayor e Didier Queloz. Oggi sono ben 3671 gli esopianeti attualmente censiti sul sito exoplanet.eu (con migliaia di altri candidati), e ce n’è uno anche attorno alla stella più vicina, Proxima Centauri, ad “appena” 4 anni luce dalla Terra.
Poiché, come dice Bignami, una rivoluzione tira l’altra, il prossimo passo sarà la rivoluzione astrobiologica, la ricerca e la scoperta di vita extraterrestre sui corpi celesti direttamente o indirettamente esplorati. Sotto osservazione, in particolare, sono Europa, satellite di Giove, e Encelado, satellite di Saturno. Entrambi nascondono sotto spesse coltri di ghiaccio oceani di acqua liquida, e su Encelado la sonda Cassini ha visto fuoriuscire da spaccature del ghiaccio getti di vapore che potrebbero indicare un’attività idrotermale, simile a quella che alimenta la vita sul fondo dei mari terrestri. Prima o poi qualcuno andrà a controllare. Bisognerà invece accontentarsi di guardare da lontano gli esopianeti e di analizzare spettroscopicamente le loro atmosfere, alla ricerca di indizi chimici della presenza di vita.
L’ultimo capitolo del libro è dedicato al futuro lontano. Che cosa succederà al nostro pianeta, alla nostra stella, all’intero Universo? Tra due miliardi di anni la temperatura sulla superficie terrestre sarà così alta (a causa del progressivo aumento del calore solare) da impedire ogni forma di vita. Altri cinque miliardi di anni e il Sole si trasformerà in una gigante rossa; la Terra, ridotta ormai a un sasso morto, sarà divorata dalla sua vecchia stella o si volatilizzerà nello spazio. La Via Lattea, nel frattempo, si sarà scontrata con la galassia di Andromeda. Quanto all’Universo, il ritmo della sua espansione e il suo destino finale dipendono dalle caratteristiche dell’energia oscura, che per il momento ignoriamo. Paradossalmente, la previsione più difficile è quella che riguarda noi stessi. Ci autodistruggeremo o saremo in grado di sopravvivere per decine di migliaia di anni? Nel secondo caso, osserva Bignami, sicuramente la Terra ci starà stretta ed emigreremo su altri pianeti adattandoci a condizioni di vita diverse da quelle che ci sono oggi familiari.
In una divertente postilla Bignami tranquillizza i lettori che potrebbero essere colti da «angosce cosmiche» di fronte a tutti questi discorsi, suggerendo alcune formule taumaturgiche: «Sono solo teorie», «Tutto molto lontano», «Va bene così» (la soluzione consigliata, «tanto non ci possiamo fare niente»). In realtà, l’unico rischio che si corre leggendo il libro (molto più che un rischio, a dire il vero) è di essere contagiati dall’entusiasmo per la scienza del suo autore – di mettersi a coltivarlo e di trasmetterlo. Sarebbe una bellissima epidemia e il modo migliore per ricordare un grande scienziato e un grande divulgatore.
Giovanni F. Bignami, Le rivoluzioni dell’Universo. Noi umani tra corpi celesti e spazi cosmici , Giunti, Firenze-Milano, 240 pagine, € 20

Il Sole Domenica 15.10.17
Michel Jouvet (1925-2017)
Battaglie da sonno REM
di Piergiorgio e Giovanni Berlucchi

Il 3 ottobre uno dei più grandi studiosi del sonno, Michel Jouvet, ci ha lasciati all’età di 91 anni. Lo avevamo conosciuto a Pisa quando Giuseppe Moruzzi organizzò il primo convegno mondiale della neonata International Brain Research Organization (IBRO) e Jouvet, giovanissimo, era già un autorevole scienziato per i suoi studi sul sonno. Lo abbiamo di nuovo incontrato quando nel 1962 organizzò un convegno mondiale su sonno e sogni a Lione, dove aveva i suoi laboratori di ricerca. Medaglia d’oro del Consiglio Nazionale delle Ricerche francese, membro dell’Accademia di Francia e dell’Academia Europea, Jouvet ha fornito un contributo essenziale a quella fase di sonno caratterizzata da raffiche di movimenti rapidi degli occhi, fase definita REM, acronimo di Rapid Eye Movement.
Recentemente abbiamo assistito a un notevole avanzamento sulla comprensione e sulla terapia di molte patologie che sono legate a disturbi di questa fase di sonno. Vediamo ora come le sue ricerche s’inseriscono nel panorama degli studi su questo aspetto che occupa un terzo della nostra vita. Nel 1949 Giuseppe Moruzzi spese un anno sabbatico a Chicago per collaborare con Horace Magoun. In un classico lavoro, inserito dalla American Physiological Society tra i lavori più significativi nella storia della Fisiologia, avevano dimostrato che la veglia era un fenomeno sostenuto dall’attività di neuroni del sistema reticolare ascendente, una struttura che si trova nel tronco dell’encefalo e che consiste di gruppi di neuroni con caratteristiche funzionali diverse adibite al controllo dei vari aspetti del ciclo sonno-veglia. Senza questa attività subentra la perdita di coscienza o il coma.
Negli anni ’50 Nathaniel Kleitman dell’Università di Chicago con i suoi allievi Eugene Aserinsky e William Dement analizzò l’andamento del sonno in studenti di medicina e scoprì che il sonno consiste di varie fasi. Una di queste, che compare dopo circa venti minuti dall’addormentamento e poi si ripete 4-5 volte per notte, è il sonno REM, cosiddetto perché associato a movimenti oculari rapidi. Risvegliati durante il sonno REM, ma non in altre fasi del sonno, gli studenti dicevano di aver sognato e descrivevano i particolari dei sogni. In alcuni casi i movimenti degli occhi potevano essere attribuiti all’inseguimento con lo sguardo delle immagini oniriche.
Nel 1959 Jouvet scoprì che anche nel gatto il sonno comprendeva una fase con movimenti oculari, e denominò questa fase “paradossale” per il fatto che nel suo corso l’elettroencefalogramma era molto simile a quello della veglia, nonostante che il gatto dormisse profondamente. Inoltre, in accordo con l’ipotesi di Moruzzi che il sonno abbia una genesi attiva e non sia semplicemente il venir meno della veglia, Jouvet vide che la fase paradossale è innescata da attività neuronali di una regione troncoencefalica, il ponte, che si propagano al talamo e alla corteccia visiva, stimolandola dall’interno ed evocando probabilmente le immagini visive dei sogni. Jouvet scoprì anche che la fase REM o paradossale del sonno è associata a una paralisi completa dei muscoli che mantengono la stazione eretta, e fu fra i primi a proporre che il ciclo sonno-veglia sia determinato dalle monoamine presenti in vari gruppi di neuroni troncoencefalici. La paralisi muscolare della fase REM dipende dall’inibizione dei motoneuroni spinali da parte di neuroni della formazione reticolare. Un altro contributo importante di Jouvet fu la dimostrazione che dopo lesioni inflitte a livello del ponte, gli animali durante il sonno presentavano strani movimenti di aggressività verso un ipotetico bersaglio, in altre parole come se un gatto volesse aggredire un topo. Quest’ultimo aspetto fu ripreso negli anni ’80 da Carlos Schenck e collaboratori i quali hanno identificato un gruppo di malattie legate ad alterazioni dei circuiti che sono alla base del controllo muscolare. Infatti, non tutte le persone quando dormono vivono in serena tranquillità. Alcuni si agitano, si alzano dal letto senza rendersene conto, ingaggiano battaglie contro un invisibile nemico umano o animale.
In questo momento 2 la persona sogna atti motori di assalto e di difesa. Alla fine dell’episodio che dura qualche decina di minuti, il soggetto si sveglia e ricorda perfettamente il contenuto del sogno, che di solito riguarda l’essere assalito da animali o altre persone, e ricorda anche i suoi movimenti di difesa o di fuga. Questi comportamenti di natura violenta sono dovuti a una patologia di questa fase di sonno e vengono classificati come RDB, acronimo di “REM sleep Brain Disorder”. L’anomalo comportamento la conseguenza della degenerazione di quei particolari neuroni che sono responsabili della paralisi muscolare. Quando durante la fase di sonno REM i sogni di tipo allucinatorio entrano in gioco, ogni tentativo di movimento del soggetto che dorme si manifesta con le tipiche brevi scosse muscolari che osserviamo facilmente anche negli animali domestici, peraltro già descritti da Lucrezio. Quando invece i detti neuroni sono soppressi dalla malattia, l’attività muscolare non e più adeguatamente frenata e il contenuto del sogno genera un’attività motoria incontrollata che esprime le reazioni alle minacce che si presentano nel sogno. Secondo Antti Revonsuo il sogno avrebbe anche negli animali il significato funzionale di prospettare al cervello situazioni pericolose potenziali e di “allenare” strategie comportamentali atte ad affrontare tali situazioni nella realtà. Questi disturbi vengono oggi trattati con farmaci e con mezzi di contenimento dei movimenti del soggetto. È interessante che allucinazioni di tipo onirico associate con ansia e paura compaiano durante la veglia nella narcolessia, un disturbo primario del sonno che comporta una transizione repentina dall’attività cerebrale tipica della veglia a quella tipica del sonno REM. Jouvet ha attribuito al sonno e al sogno un significato funzionale che va molto al di là degli argomenti qui trattati e investe il problema fondamentale del rapporto fra il cervello e la mente umana. Oltre che nei suoi lavori scientifici, le sue idee originali al riguardo sono esposte nel libro L e sommeil et la rêve pubblicato nel 1992 e tradotto in italiano nel 1993.

Il Sole Domenica 15.10.17
Rinascimento
Gli ideali di Michelangelo
L’artista andò a Roma per la sua fama, ma anche per la vorticosa politica di quei decenni in cui il volto di Firenze e della città eterna cambiò sotto i suoi occhi
di Massimo Firpo

Fiorentino tutto d’un pezzo, come risulta anche dalla lingua in cui scriveva, grande ammiratore di Dante Alighieri, allevato alle arti sotto l’egida di Lorenzo il Magnifico, Michelangelo Buonarroti trascorse larga parte della sua vita a Roma, dove lasciò i suoi massimi capolavori: la Pietà scolpita per il cardinale francese Jean de Bilhères alla fine del Quattrocento, firmata «MICHELANGELVS BONAROTVS FLORENTINVS»; i grandiosi affreschi della volta nella cappella Sistina commissionatigli da Giulio II tra il 1508 e il 1512; il Mosè e i Prigioni per la tomba di quest’ultimo, i cui lavori lo tormentarono per anni; e poi sotto Paolo III il Giudizio universale dipinto ancora nella Sistina tra il 1536 e il ’41, la piazza del Campidoglio, palazzo Farnese, gli affreschi della cappella Paolina, la Pietà Bandini e la Pietà Rondanini, la basilica di San Pietro con il disegno della sua immensa cupola; fino ai progetti per la chiesa di San Giovanni dei fiorentini, per Porta Pia, per la risistemazione di Santa Maria degli angeli sotto Pio IV, prima di morire novantenne nel 1564.
Non v’è dubbio che a condurlo a Roma fu la sua precocissima fama artistica, ma fu anche la vorticosa politica di quei decenni, in cui Firenze e Roma furono al centro della storia europea, tra le «guerre horrende» d’Italia inaugurate dalla calata di Carlo VIII e l’esplosione della Riforma protestante, tra gli splendori del Rinascimento e le origini della Controriforma. Le convulse vicende di quei decenni mutarono profondamente il volto delle due città sotto gli occhi di Michelangelo. Firenze passò dal crollo del regime mediceo all’effimera repubblica savonaroliana, dal gonfalonierato a vita di Pier Soderini alla restaurazione medicea del 1512, quando a governare la città furono Leone X e Clemente VII, al secolo Giovanni e Giulio de’ Medici. E poi ancora la nuova stagione repubblicana seguita al sacco di Roma tra il ’27 e il ’30, il definitivo ritorno dei Medici con Alessandro, investito da Carlo V del titolo ducale, il suo assassinio nel 1537 e la precaria successione di Cosimo, capace tuttavia di estinguere in breve tempo le residue resistenze antimedicee, di costruire un potere assoluto fondato su un’efficiente macchina amministrativa, di conquistare Siena e di ottenere infine da papa Pio V la corona granducale di Toscana. Non meno convulse furono le vicende di Roma, dove la secolarizzazione del potere papale, la corruzione di una curia simoniaca, le sconcezze di papa Alessandro VI, la bellicosa politica di Giulio II, le dilapidazioni festaiole di Leone X furono bruscamente interrotte dalla calata dei lanzi nella primavera del ’27, con un seguito inenarrabile di orrori, violenze, stupri, saccheggi, in un provocatorio inneggiare a Lutero il cui nome fu inciso dalla punta di una spada sugli affreschi di Raffaello nella stanza della Segnatura. Solo vent’anni dopo, tra continue incertezze e aspri scontri interni si sarebbe infine imboccata la strada del concilio di Trento, apertosi nel 1547 e conclusosi nel ’63, l’anno prima della morte di Michelangelo, che in tutti questi eventi fu coinvolto in prima persona.
Di qui l’importanza del tema affrontato in questo denso saggio di Giorgio Spini, che a oltre cinquant’anni dalla sua prima pubblicazione resta ancora fondamentale per capire gli orientamenti e le passioni politiche che animavano Michelangelo. La storia dei Buonarroti fra Tre e Cinquecento delineata in queste pagine aiuta a comprendere il senso di appartenenza al suo casato e alla sua città che animò quel sublime «scalpellino», che amava definirsi «cittadino fiorentino, nobile e figliolo d’omo dabbene» e che tale si sentiva intus et in cute. Ad accentuare l’identità e orgoglio che egli ne traeva contribuiva la stessa decadenza, talora ai limiti della povertà, di una famiglia non più in grado come in passato di accedere alle risorse e al prestigio garantito dall’esercizio delle cariche pubbliche, e quindi dalla capacità di muoversi con sagacia tra regimi sempre instabili e frequenti rivolgimenti.
Quelle forti passioni politiche, del resto, hanno lasciato tracce profonde sulla produzione artistica di Michelangelo. Basti pensare al David posto nel 1504 (in età soderiniana) a guardia dell’antico palazzo comunale, così diverso dalle precedenti raffigurazioni fiorentine di Donatello e Verrocchio, con il giovinetto trionfante sul capo di Golia ai suoi piedi: un gigante che non ha ancora scagliato la sua pietra, ma si accinge a farlo contro chiunque si azzardi a violare la libertà repubblicana. O al tirannicida Bruto commissionato a Michelangelo da Donato Giannotti e destinato al cardinale antimediceo Niccolò Ridolfi. Ancor più significativo è il fatto che, dopo aver lavorato per i papi medicei alle tombe della basilica di San Lorenzo, alla notizia della nuova restaurazione repubblicana dopo il sacco di Roma Michelangelo accorresse nella sua Firenze per dedicarsi anima e corpo alla progettazione delle difese militari. Fu solo la sua ineguagliabile fama artistica a indurre Clemente VII a perdonarlo, per affidargli i lavori della Biblioteca Mediceo-Laurenziana. Ma dopo il ’34, quando ormai Alessandro de’ Medici era stato proclamato duca di Firenze, egli non mise più piede nella sua amatissima patria per lavorare invece per papa Farnese, nemico giurato di Cosimo de’ Medici e pronto ad accogliere a Roma ogni sorta di fuoriusciti fiorentini, ripagato di ugual moneta dal giovane principe mediceo, che non perdeva occasione di sfogare la sua collera contro «quel traditore del papa».
Inutilmente Cosimo sollecitò Michelangelo a lavorare per lui, desideroso di appropriarsi dei suoi talenti e della sua fama, nel quadro di una politica di conciliazione e riassorbimento della tradizione repubblicana. E quando morì ne fece trafugare il corpo a Roma e ne celebrò le solenni esequie in San Lorenzo, per affidare poi il compito di costruirne il monumento funebre in Santa Croce a Giorgio Vasari. Quest’ultimo nelle sue Vite ne fece il culmine dell’arte tosco-romana, presentandolo come il sommo artista che proprio con il David di piazza della Signoria era riuscito a raggiungere e superare la bravura degli antichi. Com’è noto, il pittore aretino si professò sempre ammiratore e amico di Michelangelo, ma quando arte e amicizia confliggevano con la sua vocazione cortigiana, il servile «Giorgetto Vassellario» (così lo definì Benvenuto Cellini) non aveva dubbi da che parte stare. Per questo quando gliene venne l’occasione, in un monocromo all’interno di palazzo Vecchio ormai diventato corte medicea, egli raffigurò quella statua in una scena con l’ingresso di Leone X a Firenze nel 1515. Ma la raffigurò con un basamento tanto alto che la testa (quella di David simbolo della libertà, non quella di Golia!) risultasse tagliata, e per di più con un cane che deposita placidamente i suoi escrementi davanti ad essa. Un insulto triviale, tale tuttavia da dimostrare come anche dopo la morte Michelangelo fosse coinvolto nei conflitti e nelle passioni politiche dell’età sua, sia pure degradato a strumento dell’adulazione vasariana.
Giorgio Spini, Michelangelo politico , prefazione di Tomaso Montanari, presentazione di Valdo Spini, Edizioni Unicopli, Milano, pagg. 148, € 12


Il Sole Domenica 15.10.17
A 100 anni dalla dichiarazione Balfour
Quante anime ha il sionismo
di David Bidussa

«Egregio Lord Rothschild, è mio piacere fornirle, in nome del governo di Sua Maestà, la seguente dichiarazione di simpatia per le aspirazioni dell’ebraismo sionista che è stata presentata, e approvata, dal governo.
Il governo di Sua Maestà vede con favore la costituzione in Palestina di un focolare nazionale per il popolo ebraico, e si adopererà per facilitare il raggiungimento di questo scopo, essendo chiaro che nulla deve essere fatto che pregiudichi i diritti civili e religiosi delle comunità non ebraiche della Palestina, né i diritti e lo status politico degli ebrei nelle altre nazioni.
Le sarò grato se vorrà portare questa dichiarazione a conoscenza della federazione sionista». È il testo della Dichiarazione Balfour, dal nome del ministro degli Esteri dell’Impero britannico che la rilascia: il 2 novembre prossimo saranno 100 anni da quel documento. Un testo che per il movimento sionista certifica la legittimità dell’aspirazione a una terra e che dalle organizzazioni politiche palestinesi è invece percepito come l’inizio di una “discesa agli inferi”.
Un testo, ricorda Arturo Marzano, che nasce dalla percezione che il mondo ebraico sia potente e che dunque convenga ingraziarsi il suo favore se ci si propone, come è nelle intenzioni della Gran Bretagna, di svolgere un ruolo in Medio Oriente all’indomani della dissoluzione dell’impero ottomano.
È il primo tassello di un conflitto politico che ancora cento anni dopo non si scioglie. Se siamo ancora oggi, nel 2017, a discutere di sionismo è perché in quella partita si sovrappongono molte questioni. Per questo vale la pena ancora una volta di ripercorrere questa lunga storia, carica di simboli, appesantita da un confronto identitario tra contendenti che non individuano una situazione di compromesso, laddove, il compromesso, come è tornato a ripetere Amos Oz (Cari fanatici, Feltrinelli, pagg. 96-97) non è da intendersi come umiliazione, bensì come «una scelta di vita» perché il contrario del compromesso non è «schiena dritta», ma «fanatismo, morte».€
Una vicenda in cui tutti i contendenti, consapevolmente o meno, in un tempo lungo hanno giocato una partita che li ha costretti a fare i conti da una parte con le loro proiezioni progettuali, dall’altra con il processo identitario che l’ideologia politica “del riscatto” nazionale proponeva.
In questo senso il titolo che Marzano propone - Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi - allude più che a una storia del movimento, a una ricostruzione delle molte anime che dalle origini caratterizzano il sionismo: esso è prima attento al problema del ritorno fisico; poi con lo sviluppo del movimento laburista e kibbutzistico (all’inizio del ’900) volto a una politica di insediamento e di ritorno a un lavoro manuale e agricolo che nella storia della diaspora ebraica in gran parte caratterizzata da una dimensione terziaria del lavoro, era poco praticato, e che esalta l’ideologia del ritorno alla terra. Successivamente sensibile al tema della costruzione di un assetto delle proprie istituzioni (il che vuol dire strutture scolastiche, sistemi di previdenza e di protezione del lavoro, definizione di un welfare che è costruzione del legame sociale) mentre parallelamente cresce una realtà culturale e politica che rivendica una forte identità nazionalistica, e che vede nella presenza palestinese un problema non risolvibile.
Tutte queste diverse immagini del sionismo che radunano i nomi principali del conflitto ideologico interno tra destra e sinistra, tra ideologia dello sviluppo urbano e convinzione che il riscatto provenga in gran parte dal “ritorno al lavoro agricolo e alla terra”, ciò che si delinea è un confronto che la nascita dello Stato, nel 1948, non spegne.
Arturo Marzano con ragione non ferma la ricostruzione del movimento sionista alla fase costituente, come spesso invece avviene. E dunque non si ferma al 1948. Propone, invece, un’indagine sulle matrici culturali, le componenti ideologiche, le categorie valoriali che va oltre il 1948 e arriva fino all’attuale fase della storia politica di Israele sottolineando le lunghe continuità, ma anche i rovesciamenti di immagine. Essenzialmente in due immagini.
La prima. Il lavoro della terra che prima del 1948 si identificava con il movimento laburista, ora si carica di un valore simbolico e identitario nutrendosi di un immaginario che non è più quello del socialismo della prima metà del Novecento, bensì quello teologico del riscatto o della redenzione, proprio dei radicalismi religiosi che a partire dagli anni 70 hanno avuto cittadinanza culturale e sociale, non solo in Israele, ma in molte realtà politiche, di diversa matrice religiosa.
La seconda. La necessità di prendere in carico il problema della presenza araba, non come un incidente imprevisto, ma come parte di quello scenario politico.
È un tema che nella lunga storia dei sionismi politici, culturali, socialisti, nazionalisti e religiosi, è stato spesso evitato, ma che ha avuto le sue voci profetiche, culturali e politiche: negli anni 20 con il movimento “Brit ve shalom” guidato da Buber e da Scholem; tra il 1946 e il 1948 da Magnes (il fondatore dell’Università ebraica di Gerusalemme), a partire dagli anni 70 da parti consistenti del movimento pacifista “Peace now” e da alcune frange di radicalismo religioso cresciute intorno al filosofo russo–israeliano Leibowitz e al movimento “Oz Shalom” che riprendono le suggestioni di “Brit ve-shalom”.
Tema spesso accantonato. La scena di questi anni di un Paese attraversato dalla necessità di ripensare se stesso, non può più evitare di prenderlo in carico, qualunque sia la sua opzione politica. E tuttavia, proprio nei termini in cui lo farà, sostiene Arturo Marzano, lì si esprimerà la sua natura politica: se in modo aperto, oppure destinato a chiudersi, radicalizzando la sua fisionomia di etnodemocrazia.
Arturo Marzano, Storia dei sionismi. Lo Stato degli ebrei da Herzl a oggi , Carocci, Roma, pagg. 256, € 24


Il Sole Domenica 15.10.17
Politica
Plumbea sinistra d’Europa
I partiti socialdemocratici e laburisti hanno perso ovunque, arroccati su posizioni tradizionali e incapaci di interpretare i cambiamenti in atto
di Valerio Castronovo

In alcuni frangenti avvengono mutazioni di così forte rilevanza ed eccezionale rapidità da determinare grandi discontinuità nel corso della storia, profonde cesure rispetto al passato. E che pongono perciò interrogativi ineludibili su come reagire e su cosa fare per costruire il futuro. È questa, appunto, la stagione che l’Europa si trova a vivere, senza più le certezze d’un tempo e con addosso le angustie dovute al disorientamento prodotto dai radicali cambiamenti man mano sopraggiunti.
Mai infatti, dal secondo dopoguerra a oggi, ci si è trovati dinanzi a una concatenazione così densa e strettamente intrecciata di eventi politici e di mutamenti di scenario come quelli succedutisi negli ultimi anni: dalla comparsa di un universo politico multipolare e instabile, a un ritorno di fiamma di varie forme di protezionismo, dovuto a un’estensione accelerata quanto rigurgitante dei movimenti di merci e capitali, priva per lo più di regole adeguate; da una rivoluzione tecnologica segnata dalle applicazioni del digitale e dell’intelligenza artificiale propagatasi in un’ampia fascia di procedimenti lavorativi, alle conseguenze di una pesante stagnazione economica prolungatasi per più di un lustro; da una massiccia immigrazione da varie contrade dell’Asia e dell’Africa verso il Vecchio Continente; all’irruzione di un terrorismo di matrice islamista su scala globale; a un’impetuosa reviviscenza di macro e micro-nazionalismi […].
In questo contesto nel quale i mutamenti intervenuti nel frattempo e quelli attualmente in corso, caratterizzati da inevitabili ricadute su ogni aspetto della vita quotidiana, hanno suscitato in Europa una vasta ondata di apprensioni sul presente e di insicurezza sull’avvenire, è soprattutto la sinistra riformista a trovarsi in gravi angustie, alle prese con dilemmi che investono il suo codice genetico e statutario. Poiché essa è incline da sempre a ritenere che il parto della Storia consista in una costante e generale evoluzione e non già in una regressione, al di là di alcune battute d’arresto che fino a ieri considerava comunque superabili grazie principalmente all’opera e all’impegno delle forze progressiste per un miglioramento su scala generale di determinate condizioni civili e sociali.
Senonché, ciò che adesso è in questione è la capacità della sinistra europea di rispondere in modo valido e confacente all’impatto delle molteplici metamorfosi (dall’assetto economico all’organizzazione sociale, dalle gerarchie politiche alle dinamiche demografiche, allo scenario culturale) che hanno contrassegnato le vicende e le prospettive emerse nel quadrante mondiale.
Naturalmente, non è che la classe politica liberal-moderata sia esente dal problema di cosa fare dinanzi all’urto e ai risvolti su ampia scala prodotti da una serie di mutamenti di ordine strutturale. Ma è in primo luogo la sinistra, in conformità alla sua intima vocazione ideale e politica, a dover ripensare i propri paradigmi e a indicare quali possano essere le soluzioni praticabili per gestire i cambiamenti in atto affinché non finiscano per incrinare le fondamenta della democrazia e provocare nuovi squilibri geoeconomici e ulteriori diseguaglianze sociali.
Mentre è certamente un bene che la globalizzazione abbia assecondato lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni di vita dei paesi appartenenti un tempo al Terzo Mondo, non si può dire che lo stesso sia avvenuto per quello occidentale, dato che tanto i ceti popolari che una parte crescente della middle class (non più in grado di far conto su occupazioni a vita o su percorsi di sviluppo professionali pianificati) hanno subìto una retrocessione sociale e assistito invece a una dilatazione dei redditi e delle prerogative delle élite più abbienti. Inoltre i governi e gli Stati non sono più in grado di garantire le precedenti forme e dimensioni di protezione sociale.
Si comprende pertanto come si siano intensificate le domande da più parti sull’effettiva capacità, ma anche sulla reale possibilità della sinistra, di elaborare nuove idee e opzioni dinanzi alle complesse incognite dovute alla formazione di un universo circostante caratterizzato, da un lato, da una competizione economica sempre più serrata e dall’incidenza sull’occupazione di tecnologie sempre più pervasive, e segnato dall’altro da un senso crescente di angoscia e insicurezza esistenziale che potrebbe determinare un calo di fiducia nei principi e nei valori della democrazia e una ventata prorompente di conservatorismo autoritario alimentata dal miraggio di “uomini forti” e di soluzioni tanto di facile maneggio quanto illusorie.
Ma se la sinistra europea versa in serie difficoltà, ciò si deve al fatto che essa ha finito non solo per dividersi, ma per arroccarsi su posizioni tradizionali e non è giunta a elaborare direttrici di marcia stimolanti ed efficaci, proprio quando si avrebbe invece estremo bisogno di provvedimenti validi e realistici, non già di panacee rassicuranti o della riverniciatura di vecchi schemi. Del resto, è mancata un’opera perspicace di interpretazione dei cambiamenti in atto, da parte dell’“intellighenzia”, che perciò, non a caso, ha finito col perdere la sua influenza e visibilità d’un tempo.
In un sistema così differente da quello del secolo scorso le diverse componenti della sinistra si trovano alle prese con un universo sempre più fitto di esclusi e marginalizzati, vittime dirette o indifese dei drastici cambiamenti avvenuti a macchia d’olio su più fronti e perciò spinti verso le sponde della protesta, del populismo e dell’antipolitica. Si spiegano quindi i risultati elettorali deludenti, i peggiori dalla fine del secondo dopoguerra, che i partiti di matrice socialdemocratica e laburista hanno registrato negli ultimi tempi pressoché dovunque nei paesi dell’Europa occidentale. Come se essi siano giunti ormai al capolinea.
Questo testo è tratto dal capitolo conclusivo del saggio L’autunno della sinistra in Europa di Valerio Castronovo, edito da Laterza, Roma-Bari, pagg. 168, € 16
In libreria dal 18 ottobre


Il Sole Domenica 15.10.17
Kenneth Minogue (1930-2013)
Libertà è dar valore alla differenza
di Alberto Mingardi

Il conservatore, alla fin fine, è uno scettico. Non rimpiange il passato per il passato: del resto, chi ha nostalgia del bagno sul ballatoio, delle scarpe ortopediche, dell’acqua con l’idrolitina? Sicuramente non l’aveva Kenneth Minogue (1930-2013), che lasciando questa terra, quattro anni fa, fu salutato dal «Wall Street Journal» come «uno dei più eminenti pensatori conservatori al mondo». Conservatore ma conservatore liberale, Minogue all’epoca era presidente della Mont Pelerin Society, il club di studiosi fondato da Friedrich von Hayek nel 1947, e stava lavorando a un saggio sulla natura della libertà. Sarebbe stato un libro importante, ma non potremo mai leggerlo. Il miglior surrogato disponibile è On Liberty and Its Enemies, una raccolta di saggi selezionati da Tim Fuller, professore di teoria politica al Colorado College. Fuller, che era amico di Minogue, come lui intratteneva un intenso dialogo con Michael Oakeshott, forse il maggior pensatore britannico del secolo scorso.
Questi, scavando con le sue dicotomie il torsolo dell’esperienza occidentale, aveva identificato «una propensione a preferire la strada alla locanda, il dialogo per la via alla deliberazione sui mezzi necessari a raggiungere i fini, le regole [informali] della strada alle indicazioni su come raggiungere una destinazione». Di queste attitudini, di questo carattere, scrive Fuller, Minogue era l’esempio perfetto.
Nato in Nuova Zelanda, cresciuto in Australia, interruppe gli studi e prese una nave per l’Inghilterra, lavorando a bordo per pagarsi il viaggio. Qui, dopo una laurea in scienza politica e economia, cominciò a insegnare e fu notato proprio da Oakeshott, che se lo portò alla London School of Economics.
Questi saggi - il primo del 1961, l’ultimo del 2013 - sono una vita di riflessioni sulla libertà e le condizioni che la rendono possibile. Per Minogue la libertà non è «un’aspirazione umana universale», dal momento che «la maggior parte delle persone non ha mai vissuto in una società libera, né ha mai mostrato di desiderare la libertà o di avere la capacità di viverla». Essa è l’esito di una complessa trama di circostanze che hanno prodotto, in Occidente, un modello di civiltà che riesce a contemperare ordine sociale e ambiguità. Herbert Spencer, citando Henry Maine, parlava del passaggio dallo status al contratto: da relazioni sociali nelle quali a ciascuno è stata assegnata una stazione predeterminata, a legami determinati dal libero incontro delle volontà. Le società libere «sono caratterizzate dalla pratica morale dell’individualismo, dal riconoscere che i bisogni e i desideri degli individui non sono elementi che turbano un ordine, ma hanno valore di per se stessi». È «l’idea che la differenza ha di per sé un valore».
Queste società non sono l’esito di un progetto. Gli spazi in cui ciascuno può perseguire i propri progetti essendo relativamente sicuro che un potere arbitrario non interferirà con essi, sorgono «da un insieme immensamente complesso di evenienze sociali e morali e anche il solo tentativo di interrogarsi sulle loro “cause” comporta una infruttuosa semplificazione». Se, come pensa Minogue, la libertà non è una costruzione ma un “fatto” politico, allora non è sorprendente che essa sia il prodotto inintenzionale di azioni che miravano a ben altro. Essa emerge dal conflitto fra poteri, risponde alla delusione dei governi illuminati, s’impone come rispettabile male minore dopo le guerre di religione.
Il fatto che la libertà sia l’esito fortuito di un’evoluzione imprevedibile non la rende meno preziosa. Anzi. Basta uno sguardo distratto per accorgersi che essa non è la norma, né nel mondo né nella storia. Essa è però erosa dall’interno. Secondo Minogue, in un certo senso l’Occidente è vittima del suo successo. Proprio nelle nostre società libere, grazie alla tolleranza per le sensibilità diverse e al gusto per le novità, il progresso tecnologico conosce avanzamenti insperati. Ciò migliora il tenore di vita di tutti e nutre sempre nuove ambizioni. Ma ci illude che, così come cerchiamo di conquistare la natura, lo stesso potremo fare con la realtà sociale. La vita politica, le modalità che regolano il nostro stare assieme, sembrano oggetti molto più semplici dei più complessi ritrovati tecnologici.
Il “perfettismo” sociale è diventato più insidioso. S’innesta sulla «convinzione che stiamo subendo forme occulte di oppressione che potrebbero distruggere la nostra libertà se non venissero smascherate». La storia della civiltà occidentale è stata spesso raccontata come una cavalcata trionfale: della libertà, del progresso, dei “diritti”. Era una narrazione semplicistica, ma lo è ugualmente il racconto di chi ne vede soltanto gli abusi. Ci furono, come negarlo, ma non sono una caratteristica esclusiva di questa parte di mondo. La libertà individuale, invece, lo è. Ma a furia di raccontare questa storia come un vasto esperimento di dominio, e a furia di immaginare la libertà come una “aspirazione universale umana”, una pianta che può attecchire ovunque, ci siamo messi in condizione di farne a meno.
Abbiamo politicizzato la morale e moralizzato la politica, investendola della missione di riparare i torti della storia. I “diritti” non sono più attributi dell’individuo, ma caratteristiche dei gruppi. «La generazione umanitaria», ha scritto non troppo diversamente Alain Finkielkraut, «non ama gli uomini ma ama occuparsi di loro». C’è sempre un qualche noi impegnato a salvare un qualche voi.
Per Minogue, la libertà è responsabilità individuale. Il «diritto alla ricerca della felicità» comprende la possibilità di non trovarla, di sbagliare strada, di confonderla con qualcosa d’altro. La libertà è quel sistema politico nel quale alle persone è concesso di sbagliare. Per questo è fragile. La mette a rischio l’ortopedia sociale, la uccide l’ambizione di far sì che tutte le scelte abbiano per forza gli stessi esiti. La spesa pubblica è la grande sostanza “perfezionatrice”, la livella che pareggia le diseguaglianze. Il problema, per Minogue, è che passando dall’aiuto al bisognoso al “diritto” di avere un certo livello di benessere si svuota l’ambito delle scelte. Non si perde soltanto l’incentivo ad essere più produttivi, per esempio con una tassazione fortemente progressiva. Si smarrisce proprio il senso del personale tentativo di cercare la via della felicità. Senza volerlo, l’Occidente ha inventato l’individuo. Senza volerlo, potrebbe anche ucciderlo.
Kenneth Minogue, On Liberty and Its Enemies: Essays of Kenneth Minogue ,
a cura di Tim Fuller, Encounter Books, New York, pagg. 352, $ 27.99