Repubblica Salute 12.9.17
Cervello
Dolore, rabbia,
richiesta di aiuto. La nostra specie li esprime con lacrime e urli. Che
hanno origine tra i neuroni. Coinvolgendo sistema simpatico, corde
vocali, fisiologia dell’occhio, ormoni. Gli studiosi spiegano che sono
un potente antistress
Perché siamo gli unici animali che
piangono
Lo scorrere delle gocce sul volto innesca il rilascio di
endorfine. Le molecole che tranquillizzano
di Davide Michielin
NON
IL CANE né il gatto, e nemmeno i nostri parenti più stretti, come
oranghi e scimpanzé, ricorrono alle lacrime nel pianto. Un comportamento
pressoché unico nell’intero regno animale, descritto da una stupefatta
Dian Fossey in una singola ed eccezionale occasione anche in una giovane
gorilla costretta alla cattività. Da Darwin in poi, la natura del
pianto umano ha stregato intere generazioni di ricercatori. La
fisiologica lubrificazione della cornea ha assunto nella nostra specie
una profonda valenza emotiva, sulla cui spiegazione si sono cimentati
antropologi e biologi, ma anche psicologi e psichiatri, studiosi di
anatomia e di fisiologia. Tra loro vi è Carlo Bellieni, neonatologo
dell’Azienda Ospedaliera Universitaria Senese, che da vent’anni studia
il dolore nel bambino e ha pubblicato in New Ideas in Psychology
un’imponente revisione della letteratura di settore.
«Nella lingua
inglese esistono due verbi distinti per l’atto del piangere: crying e
weeping», premette Bellieni. Il primo descrive l’espressione di dolore
acuto o di rabbia, l’urlo che ci sfugge quando cerchiamo di appendere un
quadro al muro e invece finiamo per centrare il dito con il martello.
Diverso è il weeping, il pianto con le lacrime, capace di coinvolgere
empaticamente chi ci è accanto tramite l’attivazione dei neuroni
specchio e di trasmettere un messaggio di richiesta di aiuto
immediatamente decifrabile. Uno stimolo non verbale estremamente
potente, piazzato in quell’organo di senso che non a caso è definito lo
specchio dell’anima. Ma non solo. «Analisi acustiche hanno rivelato che
il pianto nasconde un protolinguaggio; oltre una certa soglia di dolore,
si attiva il sistema simpatico che tende le corde vocali. Il lamento
del neonato diventa costante e acuto, ma soprattutto ritmico: è il
cosiddetto pianto a sirena», prosegue Bellieni. La regolarità del
fenomeno è scandita da alcune centrali neuronali simili a quelle che
regolano la respirazione o la motricità, promuovendo il rilassamento
muscolare.
In altre parole, il proverbiale “pianto liberatorio” è a
tutti gli effetti un meccanismo di autosollievo, e in quanto tale
potrebbe giustificare anche la secrezione delle lacrime, un processo la
cui funzione è tuttora sfuggente. Le teorie fisiologiche a riguardo sono
infatti numerose, nessuna delle quali pienamente convincente. Alcuni
ricercatori suggeriscono che lo schiacciamento del sacco lacrimale sia
una semplice conseguenza della contrazione dei muscoli facciali, altri
sposano l’idea che si tratti di un meccanismo per espellere le sostanze
tossiche, altri ancora lo ritengono fondamentale per umettare le mucose
di naso e faringe. Di certo, «al pari di una seduta di massaggi o di una
doccia calda, lo scorrere delle lacrime sulla cute del volto innesca il
rilascio di endorfine. Il pianto non è una forma di rifugio per i
deboli, ma una forma raffinata di antistress. Ecco perché vi ricorriamo
anche quando siamo soli», prosegue Bellieni. Numerosi studi ne hanno
dimostrato l’efficacia nello stabilizzare l’umore e non a caso teorie
come la psicodinamica ne sostengono i benefici, sconsigliando la
repressione.
Questo approccio potrebbe inoltre contribuire a
spiegare perché l’uomo pianga meno frequentemente della donna. Ormoni e
modelli culturali hanno certamente il loro peso, tuttavia è innegabile
che, sopratutto nel passato, il volto dell’uomo fosse meno sensibile
alle lacrime perché coperto dalla barba e indurito da una maggiore
esposizione solare. «Il ragionamento si può estendere anche ai neonati,
nei quali le lacrime compaiono a partire dal terzo mese di vita:
trascorrendo buona parte del tempo a diretto contatto con la madre o in
posizione orizzontale, esse non avrebbero alcuna utilità nei primi
mesi», riflette Bellieni. È meno chiaro perché la stessa reazione si
accompagni alla risata o a momenti particolarmente felici come la
vittoria di una medaglia o la nascita di un figlio. «Forse perché ogni
gioia contiene un dispiacere, cioè il presagio della fine imminente
dell’evento lieto. Ma al momento si tratta di speculazioni », avverte il
neonatologo.