venerdì 8 settembre 2017

Repubblica 8.9.17
Gli attivisti di Msf hanno raccolto le testimonianze di chi è sopravvissuto ai carcerieri in Libia: “Lì dentro è durissima”
Stupri, fucili e botte l’inferno disegnato dai ragazzi in gabbia
di Alessandra Ziniti

ROMA. Chi è sopravvissuto all’inferno della Libia spesso non parla. Ma disegna, soprattutto se è ancora un bambino come Mohamed, 10 anni, sudanese arrivato in Italia da solo insieme al fratello dodicenne. C’è un cammello, una palma, un’oasi ma soprattutto c’è un uomo con un kalashnikov puntato su una fila dei bambini. «Ho disegnato noi nel deserto, c’erano persone armate. E questi siamo noi che alziamo le braccia al cielo, ci hanno detto che volevano dei soldi», ha spiegato a Giorgia Linardi, operatrice umanitaria di Msf che, in otto mesi a bordo della nave Aquarius di Sos Mediterranèe, ha raccolto centinaia di atroci testimonianze di chi è passato dalla Libia. Mohamed e suo fratello sono stati venduti al mercato, con la misurazione dei polsi, come si fa per le bestie. Accanto a loro un altro venditore per garantire ad un acquirente l’efficienza di un vecchio kalashnikov lo ha testato uccidendo un migrante. Un’immagine che nessuno cancellerà mai dai loro occhi di bambini cresciuti troppo in fretta.
Samuel, invece, è arrivato dall’Etiopia. Anche lui disegna. «Quello in blu sono io, in ginocchio. Venivo picchiato tutti i giorni. Sulla sinistra ci sono due persone. Sono stato costretto a guardarli mentre avevano rapporti sessuali. Hanno violentato una donna eritrea davanti ai miei occhi». La violenza usata a Suleiman, 17 anni del Gambia, invece è stata quello di costringerlo a usare violenza. «Nel viaggio verso la Libia, lungo il deserto, eravamo tutti uomini e una sola donna - ha raccontato - al primo check point ci hanno costretto tutti a violentarla a turno. E poi abbiamo dovuto continuare anche chiusi in prigione». Impossibile rifiutarsi, ne fa fede la terribile cicatrice causata dai cavi elettrici che Suleiman ha sul torace proprio sopra il cuore. «Mi facevano l’elettroshock».
E Hassan, sudanese, uno scheletro di pelle e ossa, sconvolto dalla fame patita, disegna quello che è il simbolo del cibo nei centri di detenzione, una ciotola di maccheroni secchi. «È durissima lì dentro. Ti danno un solo pasto al giorno, una ciotola di maccheroni che devi dividere in tanti. Quelli siamo noi attorno al piatto ».
Mamhoud, anche lui sudanese, disegna più semplicemente la mappa di quella prigione in cui ha trascorso quattro mesi, venendo torturato due volte al giorno. «Ero in questo edificio. Là sul fondo c’è la porta. Ti assicuro che è la porta dell’inferno. Il capo della prigione era un libico, insieme a un uomo proveniente dal Sudan. Dormiva lì, sul letto di destra. Nella prima stanza, sulla sinistra, c’erano le persone che venivano dalla Nigeria e dalla Somalia. Nella stanza accanto c’eravamo noi, sudanesi, tunisini ed egiziani. Nella stanza di sopra gli ivoriani. Nella prigione di Al Khoms eravamo in totale 300 persone. Venivamo torturati ogni giorno, due volte. Se chiedevamo o avevamo bisogno di qualcosa, qualsiasi cosa, anche di lavarci i denti, loro ci picchiavano. Ci hanno rubato tutto: orologi, telefoni, anelli. La porta era sempre chiusa e non c’erano finestre». Da quel centro, Mamhoud è uscito strisciando letteralmente con una caviglia in frantumi. Alla fine, visto che soldi per pagare la libertà non ne aveva, lo hanno lasciato andare perchè stava così male che non serviva più a nulla.
«Non pensavo che avrei sentito storie come queste - dice Giorgia Linardi di Msf - ma è sufficiente a capire non solo che i rischi della traversata in mare sono niente per questa gente, ma soprattutto che quelli che arrivano sono un manipolo di fortunati, i più muoiono nel deserto o in quelle prigioni».