Repubblica 7.9.17
Un mondo di tabù
Esce la raccolta degli
articoli con cui Massimo Recalcati ha affrontato su “Repubblica” il
senso del limite Tra mitologia e contemporaneità
di Valeria Parrella
Partiamo
da noi. L’unico modo per leggere pienamente il libro di Recalcati – o
per lo meno il più fruttuoso – è quello di disporsi con animo libero
davanti ai brevi capitoli. Ognuno tre pagine, ognuno racconta e celebra –
o demistifica – uno dei tabù del mondo. Uno cioè di quegli argomenti,
di quelle pulsioni limite per cui – a guardarli davvero – si penzola un
poco di qua e un poco di là. È quasi la cifra costituente del tabù,
questa: quella di essere l’interfaccia tra il lecito e l’illecito, il
possibile e l’impossibile, il desiderato e il ripugnante. Quindi, ci
hanno detto i greci, è il segno della hybris: quell’ambito di passaggio
in
cui si decide fino a dove si può spingere l’umano e – che è più
importante – che tipo di esseri umani siamo o vogliamo essere. Massimo
Recalcati è psicoanalista lacaniano e la psicoanalisi – e la psicologia –
sono sempre la disciplina del quasi: se ammettessero certezze,
fallirebbero immantinente, perché l’unica soluzione è tollerare la
mancanza di certezze. All’origine dei tabù che Recalcati ha collezionato
settimana per settimana sulle pagine di questo quotidiano (ora raccolti
nel saggio pubblicato da Einaudi) c’è spesso il terrore che provoca la
mancanza del “certo”. L’avaro non può perdere la cassetta di verghiana
memoria, così come il feticista che, terrorizzato dalla possibilità di
avere a che fare con un soggetto libero (per esempio di andarsene…),
preferisce al suo posto un oggetto. Una parte di quell’Altro, una
scarpa, un piede.
Ma i tabù più sorprendenti del racconto di
Recalcati sono quelli così tanto contemporanei, e nuovi, e vivi, che non
li avremmo certo individuati come tabù. O meglio: nuovi sono i modi di
crearne e dunque di infrangerli, infatti il presupposto da cui origina
il libro è che l’epoca contemporanea, quella che l’illuminismo liberò
dal giogo della superstizione, crolla miseramente in un nuovo giogo,
quello della “libertà a ogni costo”, ignorando che se rifiuti ogni
limite ti rovesci nel suo contrario. Il tabù della morte, per esempio,
che Sofocle fece valicare ad Antigone, qui è valicato dall’anoressica
che proprio come Antigone mostra che la vita è fatta d’altro che
dell’esistenza, la vita umana è fatta come la capinera di Verga e come
il passo di Matteo “non di solo pane vive l’uomo”. Come reclama Simone
Weil cercando la possibilità dell’esistenza nella “grazia
dell’attenzione”.
Ancora, nessuno può fare a meno dell’Altro ma è
quello che tenta di fare Caino, salvo poi scoprire che l’Altro è se
stesso, in un inevitabile gioco di doppio che rimanda a Dorian Gray e al
signor Hyde (in inglese: nascosto), versione notturna del povero Jekyll
(Hegel per primo teorizzò l’opposizione irriducibile tra la legge
diurna e universale – quella della città – e quella notturna – del sé e
del legame famigliare). E da lì a Narciso il passo è breve, lo specchio
da cui Lacan trae il mito della nascita del sé sta là. Narciso in questo
senso è “il” tabù ipermoderno, che trasforma l’Io in un idolo pagano.
Con la sua forma più nociva che è quella passiva, cioè non dell’altèro
che dice “io so- no e valgo più di te”, ma del frustrato, invidioso,
nascosto, che odia le vite capaci di realizzarsi in nome dell’umiltà.
Pare di scorrere una pagina di Twitter, no?
Il rifiuto dell’Io non
più molteplice e teneramente confuso, che ognuno di noi può scorgere in
sé, ma piuttosto di un Io di piombo, è quello che Recalcati attribuisce
al terrorista, che siccome agisce nella convinzione della verità
assoluta non ha nessun senso di colpa. E se il discorso torna alla
verità e alla colpa, torna al limite: è quello che ci racconta il più
famoso dei miti utilizzati da Freud, Edipo, colui che non accetta di non
sapere, che dovrà accecarsi quando avrà visto perché pretende di vedere
fino in fondo. “quanta verità può sopportare un uomo?” si chiede Edipo.
E secoli dopo Dylan Thomas invocherà: ”oh, make me a mask”.
Di
tutto il discorso, però, quello che davvero funziona è quando si salta
su dalla sedia perché si è scorto qualcosa che ci appartiene: qualcosa
dentro di noi ha risuonato. Quando viene voglia di brandire il libro e
farlo leggere al marito, alla sorella, mandarne stralci a un’amica per
dire “tu sei così, vedi?” (Edipo quando indaga sulla pestilenza a Tebe
esclude se stesso dall’indagine…). In qualche modo il Recalcati saggista
non ha saputo rinunziare al Recalcati terapeuta, e ha scelto un
espediente narrativo che ci avviluppa in un lungo consolante abbraccio:
qualcosa di ciascun tabù siamo, o sappiamo, o abbiamo rischiato di
essere, o finalmente ci guarda.
Partiamo da noi: è la frase scelta
in esergo che ce lo chiede, in cui Pier Paolo Pasolini ci arringa con
la più bella delle persone in cui l’italiano possa esprimersi, quella
che rischia maggiormente di perdersi nei tabù: la prima plurale. A lui,
che di tutto questo aveva scorto i rischi, a lui è dedicato il libro,
alla sua parte corsara.