giovedì 7 settembre 2017

Repubblica 7.9.17
Un mondo di tabù
Esce la raccolta degli articoli con cui Massimo Recalcati ha affrontato su “Repubblica” il senso del limite Tra mitologia e contemporaneità
di Valeria Parrella

Partiamo da noi. L’unico modo per leggere pienamente il libro di Recalcati – o per lo meno il più fruttuoso – è quello di disporsi con animo libero davanti ai brevi capitoli. Ognuno tre pagine, ognuno racconta e celebra – o demistifica – uno dei tabù del mondo. Uno cioè di quegli argomenti, di quelle pulsioni limite per cui – a guardarli davvero – si penzola un poco di qua e un poco di là. È quasi la cifra costituente del tabù, questa: quella di essere l’interfaccia tra il lecito e l’illecito, il possibile e l’impossibile, il desiderato e il ripugnante. Quindi, ci hanno detto i greci, è il segno della hybris: quell’ambito di passaggio
in cui si decide fino a dove si può spingere l’umano e – che è più importante – che tipo di esseri umani siamo o vogliamo essere. Massimo Recalcati è psicoanalista lacaniano e la psicoanalisi – e la psicologia – sono sempre la disciplina del quasi: se ammettessero certezze, fallirebbero immantinente, perché l’unica soluzione è tollerare la mancanza di certezze. All’origine dei tabù che Recalcati ha collezionato settimana per settimana sulle pagine di questo quotidiano (ora raccolti nel saggio pubblicato da Einaudi) c’è spesso il terrore che provoca la mancanza del “certo”. L’avaro non può perdere la cassetta di verghiana memoria, così come il feticista che, terrorizzato dalla possibilità di avere a che fare con un soggetto libero (per esempio di andarsene…), preferisce al suo posto un oggetto. Una parte di quell’Altro, una scarpa, un piede.
Ma i tabù più sorprendenti del racconto di Recalcati sono quelli così tanto contemporanei, e nuovi, e vivi, che non li avremmo certo individuati come tabù. O meglio: nuovi sono i modi di crearne e dunque di infrangerli, infatti il presupposto da cui origina il libro è che l’epoca contemporanea, quella che l’illuminismo liberò dal giogo della superstizione, crolla miseramente in un nuovo giogo, quello della “libertà a ogni costo”, ignorando che se rifiuti ogni limite ti rovesci nel suo contrario. Il tabù della morte, per esempio, che Sofocle fece valicare ad Antigone, qui è valicato dall’anoressica che proprio come Antigone mostra che la vita è fatta d’altro che dell’esistenza, la vita umana è fatta come la capinera di Verga e come il passo di Matteo “non di solo pane vive l’uomo”. Come reclama Simone Weil cercando la possibilità dell’esistenza nella “grazia dell’attenzione”.
Ancora, nessuno può fare a meno dell’Altro ma è quello che tenta di fare Caino, salvo poi scoprire che l’Altro è se stesso, in un inevitabile gioco di doppio che rimanda a Dorian Gray e al signor Hyde (in inglese: nascosto), versione notturna del povero Jekyll (Hegel per primo teorizzò l’opposizione irriducibile tra la legge diurna e universale – quella della città – e quella notturna – del sé e del legame famigliare). E da lì a Narciso il passo è breve, lo specchio da cui Lacan trae il mito della nascita del sé sta là. Narciso in questo senso è “il” tabù ipermoderno, che trasforma l’Io in un idolo pagano. Con la sua forma più nociva che è quella passiva, cioè non dell’altèro che dice “io so- no e valgo più di te”, ma del frustrato, invidioso, nascosto, che odia le vite capaci di realizzarsi in nome dell’umiltà. Pare di scorrere una pagina di Twitter, no?
Il rifiuto dell’Io non più molteplice e teneramente confuso, che ognuno di noi può scorgere in sé, ma piuttosto di un Io di piombo, è quello che Recalcati attribuisce al terrorista, che siccome agisce nella convinzione della verità assoluta non ha nessun senso di colpa. E se il discorso torna alla verità e alla colpa, torna al limite: è quello che ci racconta il più famoso dei miti utilizzati da Freud, Edipo, colui che non accetta di non sapere, che dovrà accecarsi quando avrà visto perché pretende di vedere fino in fondo. “quanta verità può sopportare un uomo?” si chiede Edipo. E secoli dopo Dylan Thomas invocherà: ”oh, make me a mask”.
Di tutto il discorso, però, quello che davvero funziona è quando si salta su dalla sedia perché si è scorto qualcosa che ci appartiene: qualcosa dentro di noi ha risuonato. Quando viene voglia di brandire il libro e farlo leggere al marito, alla sorella, mandarne stralci a un’amica per dire “tu sei così, vedi?” (Edipo quando indaga sulla pestilenza a Tebe esclude se stesso dall’indagine…). In qualche modo il Recalcati saggista non ha saputo rinunziare al Recalcati terapeuta, e ha scelto un espediente narrativo che ci avviluppa in un lungo consolante abbraccio: qualcosa di ciascun tabù siamo, o sappiamo, o abbiamo rischiato di essere, o finalmente ci guarda.
Partiamo da noi: è la frase scelta in esergo che ce lo chiede, in cui Pier Paolo Pasolini ci arringa con la più bella delle persone in cui l’italiano possa esprimersi, quella che rischia maggiormente di perdersi nei tabù: la prima plurale. A lui, che di tutto questo aveva scorto i rischi, a lui è dedicato il libro, alla sua parte corsara.