Repubblica 6.9.17
Trotzkij e Lenin
I due leader insieme nella lunga notte che cambiò la Russia
Il 24 ottobre l’attacco a due giornali bolscevichi scatena la reazione del Soviet
di Ezio Mauro
Il
primo ricordo è del bimbo Lev che si fa la pipì addosso a casa dei
vicini, poi il gioco d’estate a catturare le tarantole con un filo di
pece per metterle in una boccetta di olio di girasole trasformandolo in
medicinale, la domenica con il meccanico Ivan Vasilievic che taglia i
capelli al padrone e ai due figli, il vecchio Timofej Isaevic che va in
giro per i casolari a scrivere lettere e suppliche per i contadini
analfabeti nascondendo nella manica i pagamenti in sale, pepe, zucchero e
tabacco, la sinagoga ebraica solo per le ricorrenze più importanti,
quel primo viaggio con la madre in carrozza a Bobrinez, la scoperta dei
fili del telegrafo e la domanda senza risposta: come riescono a passare
lì dentro i telegrammi?
La prima immagine del potere è quella del
contrammiraglio Zelenoj, prefetto di polizia di cui si vede appena il
pugno che spunta dalla carrozza mentre urla i suoi comandi, i gendarmi
fanno il saluto e gli uomini abbassano il cappello. Poi arrivano le
letture, Oliver Twist, “Potere nelle tenebre”, quindi il teatro, il
giornale di classe a Odessa, un’espulsione a scuola con permesso di
ritorno, gli opuscoli di propaganda sotto il materasso a Nikolaev,
l’incontro con il giardiniere Franz Shvigovskij che riunisce in casa
socialisti, esiliati, studenti e finite le riunioni li ospita a dormire
dopo una zuppa collettiva, ma senza lenzuola e cuscini. Il padre che già
non sopportava di vedere il figlio con gli occhiali, perché gli davano
un’aria da intellettuale sfaccendato, non vuole mantenere un
rivoluzionario. Lev rompe con lui, e quando il vecchio andrà a visitarlo
nell’ufficio di Commissario del Popolo al Cremlino, regolerà quel conto
eternamente sospeso: «Vi ricordate, padre, quando litigavamo al
villaggio, e voi mi dicevate che lo Zar sarebbe durato per secoli?
Eccoci qua». Ma prima, Lev deve pagarsi da solo gli studi, la giacca blu
e il cappello di paglia col bastone nero con cui va alle riunioni della
Lega Operaia, il poligrafo con cui scrive articoli, titoli, manifesti.
Per quelle carte lo arrestano la prima volta a 18 anni perché il disgelo
fa emergere una borsa piena di documenti clandestini nascosta in un
buco scavato sotto un cavolo, e in carcere (dove non ha sapone e non si
cambia per tre mesi, ma fa ogni giorno ostinatamente 1111 passi lungo la
diagonale della cella) incontra per la prima volta il nome di Lenin,
leggendo il suo saggio sugli sviluppi del capitalismo russo.
Quando
torna a Piter da New York Lenin è già il capo del partito, Lev
Davidovic che lo aveva conosciuto a Londra ricorda il giudizio su Ilic
di Plekhanov, il “papa” dei socialisti russi: «è di questa pasta che si
fanno i Robespierre». Lui può raccontare nei comizi quel che ha visto
all’estero, l’eco enorme della rivoluzione negli Usa quando tutti,
giornalisti, intellettuali, politici, si precipitavano nella redazione
americana di Novyj Mir dove lui lavorava, il figlio con la difterite che
balla sul letto quando lui telefona alla moglie le prime notizie da
Pietrogrado, perché sa che rivoluzione vuol dire amnistia, vuol dire
fine dell’esilio, vuol dire ritorno e soprattutto vuol dire Russia.
Oratore appassionato e immaginifico («il governo è nato morto – dirà del
ministero Kerenskij – e con gli occhi aperti attende la sua
sepoltura»), lo invitano dappertutto, anche senza tessera è il beniamino
delle assemblee bolsceviche in cui usa sempre il “noi”, affolla la sera
il Circo Moderno coi suoi discorsi a braccio, con la figlia che lo
guarda in platea, inchioda con la sua furia polemica il Soviet, sempre
con la Browning in tasca. Quando nel tumulto di luglio i marinai di
Kronstadt riuniti davanti a Tauride sequestrano sul sedile posteriore di
un’auto scoperta il ministro dell’Agricoltura Chernov come ostaggio,
insoddisfatti delle sue risposte prudenti sulla terra ai contadini,
tutti si precipitano fuori dal palazzo. Ma è Trotzkij che salta sul
cofano dell’auto e chiede silenzio: «Voi siete la gloria e l’onore della
rivoluzione, la sua avanguardia. Ma perché volete macchiare tutto
questo con una violenza meschina contro una persona isolata? Chi è per
la violenza?». I marinai mugugnano, ma non rispondono. «Cittadino
Chernov, siete libero», dice Trotzkij sollevandolo dal sedile e
accompagnandolo dentro Tauride.
Nella battaglia politica di Lenin
contro Zinovev e Kamenev, che volevano aspettare l’Assemblea Costituente
di novembre per prendere il potere legalmente, Lev Davidovic appoggia
la tesi leninista dell’insurrezione subito. Tra i due c’è una differenza
strategica, anzi politica, perché Trotzkij diventato presidente del
Soviet di Pietrogrado vuole che questo sia lo strumento
dell’insurrezione, mentre Lenin come sempre mette al centro il
partito-guida. Ma adesso, dopo le polemiche del passato, sono alleati,
entrambi vedono la storia a portata di mano, la battaglia è la stessa.
Quando il governo decide l’ordine d’arresto per Lenin, Zinovev e
Kamenev, Lev protesta con una lettera, chiedendo di essere accomunato ai
suoi compagni. Finirà in cella al Kresty per poco più di un mese come
“agente tedesco”, e qui a conferma della sua autorità rivoluzionaria
arriveranno in visita i marinai dell’incrociatore “Aurora” chiedendogli
di aiutarli a sciogliere il dubbio capitale durante la manovra
controrivoluzionaria del generale Kornilov: devono difendere il Palazzo
d’Inverno o assaltarlo? Anche i figli ragazzini andarono a trovarlo
raccontandogli – attraverso la grata – della domenica passata nella
dacia di un colonnello amico di famiglia, dove avevano lanciato una
sedia contro un ospite che aveva chiamato spie Lenin e Trotzkij. Mentre
si salutavano con le mani sulla grata, lui si accorse che la moglie gli
stava passando nei buchi un coltellino.
Adesso, tra la fine di
settembre e l’inizio di ottobre, quando Kerenskij vara il pre-parlamento
come contraltare ai Soviet, è Trotzkij d’accordo con Lenin a chiamar
fuori i bolscevichi: «Questo è un governo di tradimento nazionale, non
faremo da paravento nemmeno un giorno, nemmeno un’ora». Nella confusione
dell’aula, qualcuno urla che il partito bolscevico prepara qualcosa di
oscuro, un grande scandalo, un colpo di mano. «Stupidaggini – provoca
Trotzkij, sfrontatamente –: appena qualche colpo di revolver». Pochi
giorni dopo, nell’assemblea plenaria del Soviet i menscevichi sollevano
la stessa questione, riproponendo la domanda che agita tutta
Pietrogrado: si sta preparando un colpo di Stato? Lev Davidovic si alza
dalla presidenza, va alla tribuna e contrattacca: «Chi è che lo chiede?
Chi vuole saperlo? Kerenskij? Il controspionaggio? L’Okhrana? O qualche
altra organizzazione?». Zinovev e Kamenev sfruttano questa ambiguità in
una riunione della Duma di Vyborg, sostenendo che bisogna rinviare
l’assalto alla città, perché il partito «non dispone di un meccanismo
per l’insurrezione ». Lenin morde il freno, urla che ci sono solo due
alternative, o una dittatura dei generali come Kornilov, o una dittatura
del proletariato. Passa la sua mozione.
In realtà il meccanismo è
pronto, e Trotzkij lo sta caricando come una molla. Col Comitato
Militare Rivoluzionario, in mano a due bolscevichi come Podvolskij e
Antonov-Ovseenko ha lo strumento di battaglia. Ogni caserma sa quante
autoblinde può muovere, quanti camion. Le Guardie rosse contano su
quarantamila baionette, agiranno in gruppi di dieci, quattro gruppi
formano un plotone, tre plotoni una compagnia, tre compagnie un
battaglione di quasi quattrocento uomini. Le operaie creano reparti di
infermiere, fanno i corsi in fabbrica. Sono pronte le divisioni operaie,
i reggimenti contadini, le squadre di ferrovieri rivoluzionari e di
postini bolscevichi, mentre è più difficile penetrare nel telegrafo, in
mano ai cadetti. Tutt’attorno, la Russia ribolle: i sindacati sono ormai
diventati duemila, con più di due milioni di lavoratori iscritti, i
soviet a settembre sono quasi mille, il partito bolscevico supera i
duecentomila tesserati, nel villaggio di Sicevka i contadini sono appena
usciti di notte con fruste e bastoni per demolire la casa del padrone,
l’Unione dei proprietari denuncia che in tre giorni sono stati bruciati
ventiquattro poderi mentre il pane è razionato nelle città, a Mosca non
si va ormai oltre le due libbre a settimana.
È a questo punto che
Trotzkij fa la prima mossa. Il 18 ottobre un telegramma a tutti i
reparti militari prescrive di non eseguire più gli ordini dello stato
maggiore salvo che siano vistati dalla sezione militare del Soviet. È il
via all’insubordinazione, primo atto della rivoluzione. E Trotzkij ha
appena firmato di suo pugno l’ordine agli arsenali di consegnare
cinquemila fucili alle guardie rosse. Sabato 21 la guarnigione di
Pietrogrado si schiera, dichiarando che d’ora in poi prenderà ordini
solo dal Soviet, “unico potere”. Lenin è inquieto nel suo rifugio
protetto dal quartiere operaio, non va nemmeno nelle altre stanze della
casa, non esce mai sul balcone, chiede al partito di poter raggiungere
il quartier generale allo Smolnyi. Il Soviet di Vyborg risponde di no,
le strade non sono sicure, la rivoluzione non può rischiare di perderlo.
Allora alla vigilia del giorno fissato per l’insurrezione Lenin convoca
Trotzkij. «Come mai il potere non si muove? C’è il rischio di qualche
trappola? E se sapessero cosa stiamo facendo, e all’ultimo momento
giocassero d’anticipo? ». «Tutto è sotto controllo – risponde Trotzkij
–, tutto avverrà automaticamente».
Una ragnatela d’impotenza
sembra avvolgere le ultime ore del regime repubblicano, imprigionando il
Palazzo d’Inverno come otto mesi prima aveva catturato la reggia di
Zarskoe Selo e la debolezza sovrana dello Zar. Kerenskij dice ai suoi
uomini che organizzerà un Te Deum di ringraziamento se i bolscevichi
attaccano: «Ho più forza di quanta mi serva, li schiaccerò». In realtà,
lui che baciava la terra davanti alle trincee, abbracciava i soldati, si
illude che le truppe lo seguano. Il generale Polkovnikov, comandante
della regione, gli ha appena detto che la guardia di Piter è fedele, ed
eccola schierata con i ribelli, in blocco. Il comandante della fortezza
di Pietro e Paolo, con i suoi centomila fucili, non accetta gli ordini
del Comitato militare rivoluzionario, ma quando arriva Trotzkij a
parlare alla truppa i soldati si schierano con il Soviet all’unanimità.
«Noi – dice in ogni suo comizio Lev Davidovic – daremo tutto quello che
c’è in Russia a chi non ha niente, e ai soldati nelle trincee. Tu hai
due pellicce? Bene, danne una al soldato che sta al freddo. Hai due
stivali ben caldi? Restatene a casa, servono più all’operaio che a te».
Nell’ultima assemblea al Circo Moderno gremito propone un giuramento
collettivo, quasi un atto religioso: «noi difenderemo la causa degli
operai e dei contadini fino all’ultima goccia di sangue. Giuriamo di
sostenere con tutte le forze e qualsiasi sacrificio il Soviet che ha
preso sulle sue spalle la rivoluzione per donare terra, pane e pace».
Una selva di mani alzate sigla la promessa.
Non fidandosi della
città Kerenskij aveva disposto una cintura di sicurezza intorno a Piter,
schierando il Terzo corpo d’armata a ventaglio nei presidi di Zarskoe
Selo, Gatcina, Peterhof, pronto a intervenire al comando del generale
Krasnov e dei suoi cosacchi, mentre sei cannoni da campo compaiono
davanti al Palazzo d’Inverno, sorvegliato dagli allievi delle scuole
ufficiali fuori, e dal battaglione femminile all’interno. Ma lunedì 23,
quando ordina all’incrociatore Aurora che è entrato nella Neva di
allontanarsi in mare, Kerenskij scopre che i marinai non obbediscono
più. La notte chiama a rinforzo un battaglione di ciclisti, che però
riconosce solo il comando del Soviet, non accetta altri ordini, non si
muoverà.
I nervi della città sovreccitata, confusa e tuttavia
impaziente avvertono nella tensione collettiva quel che sta per
accadere. Le strade si riempiono al mattino, si svuotano la sera quando
scende presto il buio, e le voci senza controllo affollano la notte
spaventata parlando di saccheggi, furti, rapine per strada, passanti a
cui sono stati rubati anche i vestiti. Solo Lenin non riesce a vedere,
non può ascoltare, vorrebbe capire. Isolato nel suo nascondiglio, vicino
ma assente, ancora alla vigilia scarica la sua inquietudine nell’ultimo
telegramma al Comitato centrale: «Non dobbiamo aspettare, potremmo
perdere tutto. Rimandare la sommossa significa morte certa». Ma Trotzkij
non rimanda, sta aspettando l’occasione, il pretesto simbolico, il
passo falso di Kerenskij: che arriva alle 6 del mattino di martedì, due
ore prima dell’alba di Pietrogrado, quando un drappello di junker
assalta i due giornali bolscevichi, Soldat e
Rabocij Put (che ha
sostituito la Pravda fuorilegge), frantuma le matrici, spezza i cliché,
getta le carte per strada, sbarra le porte con i sigilli del governo.
Parte
un fonogramma dallo Smolnyi per tutti i reggimenti: «Il nemico del
popolo è all’attacco, il Soviet assume la difesa dell’ordine
rivoluzionario, prepariamoci all’azione». Il reparto bolscevico del
Genio va sul posto, spezza i sigilli davanti alla folla, riapre le due
redazioni. Poi i telefoni diventano muti. Il governo ha isolato il
palazzo tagliando le linee, bisogna usare le staffette. È il momento in
cui Lenin, non sentendo più nulla, decide di lasciare il rifugio. Chiama
il compagno Rahjia che aveva organizzato la fuga in Finlandia, scende
nel Prospekt Bolshoj Sampsonievskij, si ferma sul portone stordito poi
lascia la clandestinità e si immerge nella febbre di Pietrogrado per
raggiungere l’ora x dell’insurrezione.
Lo Smolnyi infine lo
inghiotte, gigantesca cattedrale della rivoluzione, alveare bolscevico
dove ogni stanza ospita una cellula della sommossa, dietro le targhe del
vecchio collegio femminile della nobiltà zarista, “Aula III”, “Signori
professori”, “Sala assistenti”, dove adesso sono appoggiati i fucili dei
delegati di ogni reparto militare. La notte sarà lunga e prima
dell’alba Vladimir Ilic vedrà Trotzkij che chiede una sigaretta a
Kamenev, poi sviene sul divano per stanchezza, per sonno, per fame.
L’indomani si riunisce il congresso panrusso dei Soviet, e si aprirà con
la notizia che la rivoluzione è ormai per le strade della città. Nella
fattoria di Janovka, nella scuola di Odessa, nel carcere dello Zar, sul
bastimento che lo esiliava in America, Lev Davidovic non poteva nemmeno
immaginare che sarebbe finita così: come in quel momento non immaginava
che il terrore di Stalin sarebbe riuscito a divorare entro pochi anni
anche lui, l’architetto della rivoluzione.
Ma adesso tutto sta per
compiersi, è il momento. Quando la sala è già piena di delegati venuti
da tutto il Paese, lui e Lenin si coricheranno stremati su una coperta
nella stanza in fondo a destra, piena di sedie ammucchiate oggi come
cent’anni fa: vado a vederla, identica, silenziosa, immagino il
frastuono del Soviet oltre la parete bianca, il giorno della
rivoluzione. Qui i due vorrebbero dormire un’ora, ma Lenin è tormentato:
«E il Palazzo d’Inverno? Perché non si sa niente? Non possiamo
fermarci».
Nessuno può più fermare la corsa cieca del secolo. La
sorella di Ilic viene a chiamarli, è l’ora, il congresso si alza in
piedi quando entra Trotzkij, poi vede spuntare accanto a lui questo
strano Lenin senza il pizzo e senza i baffi, che si siede in prima fila:
chi è? È lui? C’è Ilic, è tornato, è libero, dunque è finita la fuga, è
cessata la paura e la nuova epoca forse può davvero cominciare. I
menscevichi non lo credono, dicono che l’insurrezione abortirà, perché è
una congiura, l’unica salvezza è un governo di coalizione. Lenin e
Trotzkij si guardano, Lev Davidovic va alla tribuna: «Noi stiamo
vincendo e voi ci proponete di rinunciare alla vittoria per venire a
patti. Ma siete figure miserabili, siete dei falliti, la vostra parte è
finita, potete andare solo nel posto che vi compete da oggi in poi:
nella spazzatura della storia».
Dall’altro angolo della storia,
prigioniero dei suoi guardiani e del suo fallimento, l’ex Zar in quelle
ore sembra scrivere il diario notturno con l’inchiostro di un altro
mondo. «È stata una giornata di sole con quindici gradi sotto zero. Sono
giorni che non arriva nessun giornale, come pure nessun telegramma.
Probabilmente in città non accadono fatti degni di nota. Siamo andati a
messa: buio fitto».