Corriere 6.9.17
Stalin vinse con il sorriso
La socievolezza lo aiutò a prevalere sull’alterigia del suo nemico Trotsky
di Paolo Mieli
Come
riuscì Stalin ad impadronirsi, dopo la morte di Lenin (21 gennaio
1924), del Partito comunista dell’Unione Sovietica a dispetto della
diffidenza manifestatagli negli ultimi mesi di vita dal leader stesso
della Rivoluzione d’ottobre? È uno dei temi meglio approfonditi da
Stephen A. Smith in La rivoluzione russa. Un impero in crisi 1890-1928 ,
che Carocci si accinge a dare alle stampe in occasione dei cento anni
dall’evento che cambiò la storia d’Europa e del mondo. La scena in cui
si svolge la lotta per la successione a Lenin è quella nota dei
conflitti interni alla Russia successivi alla fine della Prima guerra
mondiale. Conflitti che si svilupparono in un contesto di crisi
economica da brividi: la produttività lavorativa scese al 18 per cento
dei valori prebellici; il tasso di furti e omicidi aumentò di dieci o
quindici volte rispetto a quello di prima della guerra; la popolazione
di Pietrogrado passò da 2,4 milioni a 722 mila abitanti (i mancanti
erano fuggiti in campagna pensando di trovare qualcosa di cui nutrirsi;
ma fu un’illusione). L’Ucraina si sottrasse al potere bolscevico e con
essa venne meno il 35 per cento della produzione cerealicola. Le ventuno
regioni consumatrici di grano restarono tutte in mano ai comunisti, che
però — sul versante opposto — ne controllavano solo cinque delle
ventiquattro esportatrici.
Il degrado delle linee ferroviarie era
all’epoca inimmaginabile: nel 1920 dei 1.605 milioni di chili di patate
trasportate dagli Urali, solo 81,9 giungono a destinazione, alla
popolazione urbana. Il resto viene rubato o lasciato marcire. Insieme a
quella civile si proclama la guerra alla «borghesia rurale», ai kulaki ,
piccoli possidenti sospettati di nascondere il grano anche per
trasformarlo in liquore. È tempo di carestia. Grigorij Zinov’ev proclama
che alla borghesia può essere lasciata «una quantità di pane appena
sufficiente per non dimenticarne il profumo».
Trotsky ha un ruolo
di primo piano in questa stagione. «L’obbligo e la coercizione sono
condizioni essenziali per il rovesciamento dell’anarchia borghese»,
scrive in Terrorismo e comunismo . Si sviluppa il fenomeno dei
«disertori del lavoro»: nei primi nove mesi del 1920 il 90 per cento dei
38.514 operai mobilitati per lavorare nelle trentacinque fabbriche di
armamenti, abbandona il proprio posto. Quelli che sono riacciuffati,
vengono rinchiusi in campi di concentramento predisposti alla bisogna.
La carestia (assieme a febbre tifoidea, colera, peste bubbonica e
vaiolo) uccide cinque milioni di persone. Il commissariato per
l’Istruzione riceve rapporti significativi (ancorché poco verosimili)
secondo i quali le madri «legavano i propri figli ad angoli opposti
delle abitazioni per paura che si mangiassero l’un l’altro». Colpa di
avversità direttamente riconducibili ai bolscevichi? Sì. Per portare
soccorso alle popolazioni intervennero l’American Relief Administration e
la Croce Rossa internazionale, i cui operatori umanitari — provenienti
da tutto il mondo — scrissero che i funzionari del partito nelle aree
colpite dalla carestia erano «persone terribili, suscettibili, che
diventavano violente alla minima provocazione». Ma perché? «La posizione
di questi funzionari era così poco salda», misero per iscritto i
tecnici stranieri nei suddetti rapporti, «che anche gli atti più
innocenti suscitavano il loro sospetto».
Dei nobili non si salvò
nessuno, venivano definiti, come più o meno ogni superstite dell’antico
regime, «ex persone». Si sottrasse a un destino tragico solo il rampollo
di una famiglia georgiana, Michail G. Gelovani, che, grazie alla
somiglianza con Stalin, fu chiamato a interpretarne la figura in
numerosi film del regista anch’egli georgiano Michail Ediserovic
Ciaureli. La persecuzione contro la Chiesa fu spietata: sui manifesti i
sacerdoti apparivano come etilisti e crapuloni, frati e monache come
«corvi neri». Le stime degli ecclesiastici uccisi sono ancora oggi
incerte.
Il malcontento operaio cominciò a manifestarsi alle
acciaierie Sormovi, nei pressi di Nižnij Novgorod, dove furono messi in
minoranza i bolscevichi. Questi reagirono sciogliendo i soviet dove ciò
era avvenuto. Il 10 marzo 1919 gli operai delle officine Putilov
approvarono una risoluzione dei socialisti rivoluzionari di sinistra
nella quale veniva denunciato «il giogo schiavistico dei lavoratori
nelle fabbriche» e si chiedeva l’abolizione della «commissariocrazia».
Si unirono nella denuncia gli operai della fabbrica di scarpe di
Skorokhod e quelli delle officine ferroviarie di Aleksandrovskie. Il
dirigente bolscevico Lunacharskij, che andò ad arringare i lavoratori
del deposito tranviario di Roždestvenskij, fu accolto dalle urla: «Sei
un damerino!», «Levati di dosso quella pelliccia!». A ristabilire
l’ordine le autorità fecero intervenire i marinai di Kronstadt, base
navale sull’isola di Kotlin nel golfo di Finlandia a una trentina di
chilometri da Pietrogrado. Ziniov’ev definì quei lavoratori «arretrati».
Tuchacevskij avvertì Lenin che quegli operai andavano considerati
«inaffidabili». Intanto i Bianchi sono riusciti a «liberare» un milione e
mezzo di chilometri quadrati. Nel corso dell’anno si sviluppano oltre
cinquanta insurrezioni contadine in regioni tra loro distanti come
l’Ucraina, la Bielorussia, il Caucaso settentrionale, la Carelia. La
rivoluzione scricchiola. La reazione bolscevica, scrive Smith, è di una
«spietatezza scioccante persino a paragone dei terribili standard di una
guerra civile».
A fine febbraio del 1921 si ribellano i soldati e
i marinai di Kronstadt, che chiedono la cancellazione di «tutti i
privilegi dei comunisti» e lo smantellamento della dittatura di un
partito unico. Lenin definì la rivolta un «complotto delle Guardie
Bianche» (ma non fu mai trovato alcun riscontro a questa accusa) e
ordinò a quarantacinquemila soldati di stroncarla. Ciò che avvenne
all’alba del 17 marzo. Successivamente Lenin disse, in termini più
ambigui, che la rivolta di Kronstadt era stata «un lampo che aveva
illuminato la realtà come meglio non sarebbe stato possibile».
Il
1921 è l’anno più importante per l’assestamento della rivoluzione. In
maggio Gavrijl Mjasnikov, un operaio delle officine Motovilica che è
membro del partito da un quindicennio, scrive un articolo per chiedere
la libertà d’espressione per operai e contadini, «dagli anarchici ai
monarchici». Tutti. Lenin chiede che sia sanzionato, il partito esegue. I
suoi compagni, però, sono solidali con lui: «a parte le bugie, la
diffamazione e gli insulti, il comitato provinciale», si lamentano, «non
conosce altra maniera di trattare con coloro che la pensano
diversamente che ricorrere alla repressione». Niente da fare: Mjasnikov
viene espulso. Le epurazioni che iniziarono nel gennaio del 1921, annota
Smith, rimossero dal partito diverse centinaia di migliaia di «elementi
ostili ed estranei», ma, «nonostante il linguaggio dell’infiltrazione e
della cospirazione, la maggior parte venne espulsa per passività,
carrierismo o ubriachezza». Nella seconda metà dell’anno le condizioni
di salute del leader della rivoluzione si aggravano. Di qui al gennaio
del 1924, quando morirà, conoscerà un costante peggioramento. Ma
l’errore, se così lo si può definire, Lenin lo aveva commesso già nel
1920 quando, per bilanciare l’influenza di Trotsky aveva attribuito
grande potere alla troika costituita da Zinov’ev, Stalin e Kamenev.
La
scalata di Stalin era iniziata molti anni prima, tant’è che nell’aprile
del 1922 il leader georgiano si trovò a essere l’unico bolscevico ad
aver trovato collocazione contemporaneamente e a pieno diritto nel
Politburo, nella Segreteria e nell’Ufficio organizzativo. Aveva
percepito che Lenin da tempo non si fidava più di lui, ma aveva altresì
intuito che — come sarebbe emerso dal suo testamento politico scritto
nel dicembre del 1922 — il capo rivoluzionario nutriva sentimenti di
diffidenza anche nei confronti di Trotsky. Lenin aveva elogiato Trotsky
per le sue eccezionali capacità, ma gli rimproverava l’eccessiva
sicurezza di sé e «l’ossessione per le questioni amministrative». Del
resto Trotsky, scrive Smith, «era di gran lunga il più dotato e
carismatico dei luogotenenti di Lenin», era assai popolare, ma il gruppo
dirigente del partito lo «detestava» e «questa fu una delle ragioni per
le quali esitò a proporsi come successore». Timoroso di apparire
frazionista «si lasciò sfuggire numerose opportunità di consolidare la
propria posizione declinando addirittura, nell’aprile 1923, l’invito a
redigere il rapporto politico per il XII Congresso del partito».
S
talin colse al volo queste esitazioni del suo antagonista. E ne
approfittò. Lenin giudicava Stalin un lavoratore che non aveva eguali.
Ma lo considerava anche «rozzo, intollerante, incostante»; criticò il
modo con il quale aveva trattato i comunisti georgiani, che si erano
opposti al suo desiderio di annessione della propria terra natia; dopo
che un giorno di marzo del 1923 Stalin insultò «furiosamente e
rozzamente» la moglie di Lenin Nadežda Krupskaja, il fondatore del
bolscevismo tornò a insistere perché l’uomo che lui stesso aveva scelto
per il vertice del partito fosse immediatamente esautorato. Ma era
tardi. Il futuro dittatore lo aveva isolato dal resto del mondo.
Quando
Lenin morì, per far dimenticare le perplessità nei suoi confronti
sollevate dal leader della Rivoluzione d’ottobre, Stalin diede alle
stampe i Fondamenti del leninismo , un’opera abbondantemente plagiata da
un lavoro di Filipp Ksenofontov, nella quale la dottrina del capo
bolscevico, appena defunto, veniva presentata come «l’intoccabile pietra
di paragone della rettitudine ideologica». Nei due anni che
precedettero la morte di Lenin, Stalin aveva saputo sfruttare a proprio
vantaggio il distacco dello stesso Lenin da Trotsky. E lo aveva fatto
con un capillare reclutamento in ogni angolo del partito. Oltreché con
un’intelligente campagna per sfruttare i successi ma soprattutto gli
insuccessi dei bolscevichi. In che senso? Trotsky, come è noto,
proponeva la teoria della «rivoluzione permanente», secondo la quale il
socialismo avrebbe conosciuto la propria realizzazione solo se il moto
insurrezionale si fosse allargato dalla Russia ai Paesi più evoluti
dell’Europa centro-occidentale. Ciò che non avvenne. E a quel punto,
Stalin, teorico del «socialismo in un Paese solo», accusò Trotsky di
aver sostenuto le proprie tesi per mancanza di fiducia nelle
potenzialità della Rivoluzione d’ottobre. Costringendolo alla celebre
autodifesa del XIII Congresso (maggio 1924), quando dovette pronunciare
le parole «so che non si deve avere ragione contro il partito perché il
partito in ultima analisi ha sempre ragione». Ma in quel momento — anche
se alcuni storici hanno sostenuto che ci sarebbero stati ancora margini
per una rimonta degli oppositori — il partito era già sinonimo di
Stalin.
N el corso del 1924 Stalin e Zinov’ev lanciarono una
«campagna di diffamazione» contro l’Opposizione di sinistra spingendosi a
contestare le «credenziali bolsceviche» di Trotsky e riportando alla
luce i molteplici conflitti tra lui e Lenin degli anni che avevano
preceduto la rivoluzione. Nel gennaio del 1925 Trotsky venne rimosso
dalla presidenza del Consiglio militare rivoluzionario. Zinov’ev e Lev
Kamenev attaccarono Bucharin, grande difensore della Nep (la Nuova
politica economica di apertura al mercato) che godeva del sostegno di
Stalin. Il quale consentì a che Trotsky e Zinov’ev restassero nel
Politburo, ma fece entrare anche i «suoi» Molotov, Kalinin e Vorošilov.
Nell’estate del 1926 Zinov’ev e Kamenev formarono con Trotsky
l’Opposizione unita. Ma era tardi: in ottobre Stalin — sempre alleato
con Bucharin — li fece cacciare dal Comitato centrale e nel novembre del
1927 li fece espellere dal partito. Nel gennaio del 1928 Trotsky fu
esiliato ad Alma Ata.
Personaggi come Trotsky (e anche Kamenev) in
principio erano considerati molto superiori a Stalin, lo avevano,
sostiene Smith, «eclissato intellettualmente». Ma lui li sconfisse
facendo leva su un indubbio talento organizzativo e anche su virtù che
in genere gli vengono scarsamente riconosciute: «Socievolezza, senso
dell’umorismo, apparente semplicità». In molti ne hanno ricordato
l’eccellente memoria, la straordinaria capacità di lavoro, la sapienza
tattica, l’inclinazione «caucasica» alla violenza. Pochi invece si sono
soffermati sulle doti di cui parla Smith, contrapponendole all’alterigia
di Trotsky. Alterigia ben descritta da Anatolij Lunacharskij che ne
parlò come di una «tremenda imperiosità», denunciandone nel contempo
«l’incapacità o la riluttanza a mostrarsi minimamente gentile e
premuroso con le persone». Difetti che provocarono attorno a Trotsky un
progressivo isolamento (ancorché fosse circondato da persone che per lui
avrebbero dato la vita). E fu anche a causa di questo isolamento che
nel 1940 si ritrovò inerme di fronte al piccone staliniano che (per mano
di Ramon Mercader) gli avrebbe tolto la vita.