martedì 5 settembre 2017

Repubblica 5.9.17
Perché questo non è più un mondo liquido
Mentre si innalzano nuovi muri e la geopolitica ridisegna vecchie zone di influenza, la geniale metafora di Bauman rischia di risultare superata
di Roberto Esposito

Per anni la metafora della liquidità – proposta da Zygmunt Bauman nella sua celebre trilogia “Modernità liquida”, “Paura liquida” e “Vita liquida” (tutti Laterza) – ha marcato il nostro tempo. Essa subentrava alla nozione, troppo ottimistica, di “postmodernità”, che aveva caratterizzato la belle époque tra gli anni Settanta e la fine del secolo scorso. Già all’esordio del Duemila il crollo apocalittico delle Torri Gemelle metteva fine a ogni entusiasmo, mostrando il lato oscuro della globalizzazione. L’immagine di un mondo levigato e omogeneo, aperto alla libertà delle merci e delle idee, propagandato dal guru giapponese Kenichi Ohmae in Il mondo senza confini (Il Sole 24Ore) era ormai abbondantemente alle spalle. La società liquida di Bauman interpretava la contemporaneità in modo ben più problematico. Essa registrava la disgregazione delle strutture solide della prima modernità – corpi, istituzioni, regole – nel magma di una stagione instabile e incerta. Caratterizzato dai processi di privatizzazione e deregolamentazione, il mondo liquido che abbiamo abitato per qualche decennio mostrava un profilo ambivalente: da un lato rischioso e insicuro, dall’altro capace di potenzialità illimitate.
Oggi, tuttavia, anche questa geniale metafora comincia a mostrare i segni del tempo, come sostiene Carlo Bordoni, già amico e collaboratore di Bauman, in Fine del mondo liquido (il Saggiatore). Non solo perché troppo indeterminata, ma perché incapace di dar conto di un ulteriore passaggio, che sembra spingerci del tutto fuori della modernità. Non soltanto da quella convinta di sé e dei propri paradigmi, ma anche da quella fluida e in trasformazione perenne. Il processo che dal solido portava al liquido, sostituendo la velocità del tempo alla lentezza dello spazio, pare essersi invertito. Non appena la globalizzazione ha registrato i primi insuccessi, generando più problemi di quanti sembrava risolvere, la spazialità torna a rivendicare i propri diritti. Gli Stati sovrani dichiarati anzi tempo finiti rialzano la testa, mentre la geopolitica ridisegna vecchie e nuove zone di influenza. Nel linguaggio dell’inclusione torna a lavorare la macchina dell’esclusione. I confini che sembravano dissolti riprendono a suddividere quanto si era immaginato di unire. Non solo, ma fuori da ogni metafora liquida, si solidificano in muri di cemento, in barriere di filo spinato, in blocchi stradali. Un mondo terribilmente solido, striato da frontiere materiali, subentra a quello, liscio, promesso dai teorici dell’età globale.
Le prime barriere a comparire, in età Schengen, sono state quelle che separano le città spagnole di Melilla e Ceuta dal resto del territorio marocchino. A esse seguono, a ritmo incalzante, i muri e i fili spinati alle frontiere greche, ungheresi, bulgare, fino al Brennero – per non parlare dell’America autocentrata di Trump. Come racconta la sociologa Saskia Sassen in Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale (il Mulino), ciò che emerge dalla risacca della società liquida, non è una fila di ponti, ma il profilo sinistro dei muri. Non basta. Se la paura delle migrazioni di massa eleva barriere tra Stati, il terrore del terrorismo jihadista – dei suoi camion delle morte – impone di creare blocchi stradali nelle arterie principali delle nostre città. Magari con l’accortezza di “vestirli” con qualche decoro architettonico. Tutti sanno che la loro utilità reale è molto limitata, ma almeno servono sul piano simbolico a certificare che non abbassiamo la guardia. Naturalmente con un prezzo non indifferente sull’identità del nostro paesaggio urbano.
Ciò – questa nuova solidificazione del mondo liquido – sta a significare un ritorno alle origini del Moderno o a ciò che lo precede? Non è certo così. Si sa che, nella storia, qualsiasi ritorno al passato è illusorio e neanche conveniente. Nonostante tutto, la globalizzazione non è un processo reversibile. Se non altro perché lo sviluppo tecnologico, oltre che gli interessi finanziari, non lo consentirebbe. È non è un male che sia così. Quella in cui ci stiamo addentrando non è né una vecchia modernità né un nuovo medioevo. Ma qualcosa di diverso, per il quale lo stesso Bauman, usando un’espressione di Gramsci ripresa anche da Bordoni, usa il termine “interregno”. Come egli scrive in Cose che abbiamo in comune. 44 lettere dal mondo liquido (Laterza), l’interregno è uno stato di sospensione in cui il vecchio ordine non funziona più, mentre il nuovo ancora non si delinea. Tale concetto rimanda a un istituto del diritto romano arcaico che prevedeva, alla morte del rex, quando non fosse nominato un legittimo successore, di attribuire il potere ai patres del Senato, finché un altro re non fosse subentrato. Esso serviva a ridurre al minimo la vacanza di potere che avrebbe esposto gli uomini al caos e alla violenza.
Opportunamente Daniele Giglioli, in Stato di minorità (Laterza), riconosce nell’interregno anche a una radice teologica. Si tratta di quella fase di anomia – ovvero di assenza di legge – che interrompe la successione dei tempi, aprendo uno iato nella storia. In esso, una volta venuta meno ogni protezione da parte delle istituzioni, gli uomini sono esposti all’irruzione dell’Anticristo, ovvero a un disordine mortale. Eppure nelle stesse scritture teologiche tale fase agonica prelude a una stagione totalmente nuova, segnata dall’avvento di Cristo.
Cosa ricavare, per noi, da tutto ciò? Intanto che la morte del rex – ovvero dell’ordine precedente – non è arginabile dai patres, dal momento che, con l’antico potere, si è dissolta anche l’autorità. Non abbiamo nessun Padre che possa esercitarla. Ma qualcosa, di quel racconto escatologico, resta in piedi. Si tratta della necessità di mutare radicalmente i nostri paradigmi di interpretazione della realtà in vorticoso mutamento. A ogni evento luttuoso che insanguina le nostre strade, si continua a ripetere che non cambieremo il nostro stile di vita. Se si allude ai nostri valori, da difendere fino in fondo, ciò è più che vero – è necessario. Ma questo non toglie che dobbiamo prepararci a qualcosa che non avevamo mai immaginato nel secolo scorso. E cioè che siamo di fronte a una svolta di civiltà. Nella quale altre forze, altri gruppi di uomini, altri continenti reclamano più che protezione, riconoscimento, risorse. Essi chiedono di aprire una nuova epoca storica in cui, prima dei nostri comportamenti, dovremo mutare il nostro linguaggio concettuale per rispondere a domande finora inattese.