Repubblica 5.9.17
Da Trieste al Mar Giallo
La rotta delle spezie e dei sogni prigioniera del nuovo Impero
di Paolo Rumiz
Fino
a pochi decenni fa nel porto della città giuliana arrivavano carichi di
merci ricche di odori, provenienti dalla Cina. Adesso al loro posto c’è
il nastro trasportatore dei prodotti con cui Pechino invade il nostro
Occidente Ma un modo per tornare alla “Silk Road” è possibile
Scoprii
la mia prima Cina a cinque anni, nell’armadio di un roccioso portuale
triestino alloggiato al piano sopra il mio. Si chiamava Oscar, abitava
una mansarda ottocentesca che spesso frequentavo e dalla quale dominavo
il mondo. Da lì mi affacciavo sul cortile, pieno di ufficiali eleganti,
del comando anglo-americano in città, e lì, in una polverosa soffitta
piena di cianfrusaglie mi trastullavo con un elmetto della Wehrmacht e
un moschetto 91. Era la mia tana. Ascoltavo Radio Praga da una vecchia
radio piena di interferenze, e divoravo da settimanali storie del
conflitto appena finito come fossero cosa di
mille anni prima. Fu
in quel sottotetto che cominciai a masticare di storia e geografia. E fu
quell’armadio a darmi la prima percezione dell’Oriente.
Tè,
caffè, liquirizia. Non era ancora l’epoca dei container e i portuali
tornavano a casa con addosso l’odore delle merci o qualche manata di
roba di straforo. Annusando l’armadio di Oscar, era facile capire quali
navi fossero arrivate in porto. Sentivo l’Africa, le Americhe e
soprattutto l’Oriente. Fu in quell’armadio che trovai il primo curry e
il primo cardamomo, per non parlare dell’uva passa turca di ogni taglia e
colore. L’incontro con la Cina fu segnato dai grani di pepe nero che
zampillarono da una scatola chiusa male e si sparsero a terra come
pallini da caccia. Poi vennero lo zenzero, i chiodi di garofano e la
scatoletta con l’anice stellato del Sichuan. Quel nome, Sichuan, fu il
mio primo invito al viaggio. Lo cercai subito sull’atlante, a da lì
partì la mia personale via della seta, lungo il fiume Oxus, il lago
Aral, il Karakorum e il deserto del Taklamakan.
Quel sogno cinese
si inserì senza fatica nell’immaginario della mia città di frontiera e
nella storia della mia famiglia. Era stato il barone Pasquale Revoltella
a spingere Vienna a puntare sul canale di Suez e a diventare uno dei
primi azionisti dell’impresa. Nelle soffitte dei triestini era ancora
facile trovare diari di bordo di navigazioni a vela o a vapore su
Shanghai e Hong Kong. Lavandaie cinesi avevano lavorato nella città
vecchia fino agli anni Trenta e negli uffici degli spedizionieri trovavi
cinesi triestinizzati da decenni come un certo Luciano Li Kiang.
Antonietto, fratello di mio nonno, era stato commissario di bordo sulle
navi del Lloyd Triestino e ci aveva riempito la casa di cineserie.
Franco, fratello di mia nonna, comandava il transatlantico Vulcania
sulle rotte d’Oriente, e mi lasciò ad assistere a uno dei sui famosi
approdi alla stazione marittima senza l’ausilio di rimorchiatori. Ma per
me bambino quello era un Oriente astratto, fatto di draghi di ceramica,
ninnoli e porcellane. L’Oriente vero, esotico, letterario e
carovaniero, era quello arrivato col profumo delle spezie. Era la
folgorazione olfattiva.
La via della seta di oggi, il nastro
trasportatore delle merci con cui Pechino vorrebbe penetrare
l’Occidente, mi è arrivata, sessant’anni dopo, per strade sensoriali
diverse. È accaduto con uno choc acustico, pochi mesi fa, quando la nave
da crociera Majestic Princess, gigante da 150 mila tonnellate e 4500
passeggeri, appena costruita per il mercato cinese dai cantieri di
Monfalcone, su ordine della Carnival Corporation, è apparsa nel golfo di
Trieste annunciandosi con un potente carillon da guerre stellari,
programmato su un motivo totalmente alieno al mio orecchio e alla mia
cultura. Quella scala armonica che faceva vibrare il Carso fino alle
fondamenta non era la Cina sognata da Occidente, ma la Cina imperiale
temuta, che ci entrava in casa con suoni da film kolossal per declinare
gli accenti della sua potenza. Era finito un mondo. Non eravamo più noi a
cercare l’Oriente, ma l’Oriente a entrarci in casa.
«Cinquant’anni
fa la Cina era assai più presente nel nostro immaginario di quanto non
avvenga oggi nell’era dei container», osserva Claudio Boniciolli, ex
direttore generale dell’Adriatica di navigazione e poi presidente dei
porti di Venezia e Trieste. «Gli uomini di mare, allora, stavano via da
casa anche un anno di seguito. Vivevano i porti molto più intensamente.
Mio padre era ufficiale di macchina sulle navi del Lloyd Triestino, e
per vedermi nascere dovette chiedere un permesso speciale. La nascita
degli altri figli se l’era sempre persa. Quando rientrò, dopo il mio
battesimo, sapevo già camminare... ». Erano i tempi in cui la bandiera
del Lloyd Triestino era di casa nei porti sul Mar Giallo e veniva
riconosciuta e rispettata ovunque. Poi venne la crisi delle
Partecipazioni statali e lo smantellamento della compagnia con lo sbarco
a Trieste dei cinesi di Formosa - società “Evergreen” che, attraverso i
loro emissari in loco, comprarono la società e ne cancellarono il nome.
Oggi
ci si chiede: dopo anni di indiscriminata delocalizzazione industriale
italiana verso la Cina, subiremo o saremo in grado di condizionare la
nuova via della seta, dettandone alcune forme e contenuti in modo da
tutelare i nostri interessi? L’Italia saprà sfruttare la sua posizione
nel Mediterraneo agli effetti del grande gioco? E l’ex porto degli
Imperi centrali, la città dell’Orient Express e dei vapori per
l’Oriente, sarà capace di ritrovare un suo ruolo? Zeno D’Agostino,
presidente del porto di Trieste e di Assoporti, è convinto che dalla
Silk Road gli scali italiani possono afferrare al volo una grande
occasione, a patto di affrontarla con «complessità di pensiero», perché
ai cinesi non interessano i porti in sé, ma tutto ciò che li completa:
le ferrovie, le strade, i punti franchi, le aree logistiche. «Dobbiamo
parlare di valori, non di un banale corridoio di tra- sporto. È lì la
differenza».
In questo momento di stagnazione dell’economia
italiana, siamo di fronte a una scommessa cruciale, che può svegliare le
buone energie del Paese. «I nostri porti possono diventare il luogo di
sintesi di due culture, quella della piccola e media impresa italiana e
quella della grande economia di scala cinese. Ci sono industrie del Sol
levante che vogliono per così dire italianizzarsi, assorbire il nostro
modo di operare. È su questo che dobbiamo lavorare. Sto trattando con
una multinazionale del settore alimentare che vede per esempio nella
triestina Illy un modello vincente sul piano della qualità, e
analogamente all’industria del caffè, punta a importare qui le sue merci
per a trasformarle e raffinarle nello spazio del porto franco, in vista
di una successiva esportazione». Chissà: forse torna il profumo
dell’anice stellato del Sichuan nel porto che fu di Maria Teresa.
Per
decenni il porto è stato il luogo delle rendite e di miserabili masi
chiusi. Uno spazio tenuto al riparo dal mar grande della concorrenza
mondiale. Oggi siamo di fronte a un’apertura e a una rivoluzione. Una
sfida culturale prima che economica. Per rispondere al tuono del
carillon da guerre stellari dobbiamo risvegliare un immaginario
addormentato, percepire la nostra centralità mediterranea con respiro
strategico, vivendola non solo come luogo di sbarco di disperati ma
anche come vantaggio rispetto alle rotte di mare e di terra verso
Oriente. Ho un’affascinante carta dell’antica via della seta che mi fu
regalata a Varsavia, nel 2012, dal grande reporter Ryzsard Kapuscinski.
Le linee di traffico vi sono raffigurate da file di cammelli, i deserti
da chiazze ocra e le grandi montagne da tonalità marrone scuro chiazzate
dal bianco dei ghiacciai. Forse tutto si gioca, ancora, sulla nostra
capacità di sognare.
10. Continua