martedì 5 settembre 2017

Repubblica 5.9.17
Psicosi.
Vedersi così brutti da sentirsi male
Un disturbo raro. Che colpisce allo stesso modo uomini e donne Spesso sin dall’adolescenza
Nel loro saggio Dismorfofobia, gli psichiatri Eva Gebhardt e Luca Giorgini, Donatella De Lisi e Andrea Raballo descrivono la patologia e raccontano le vicende di chi non è in pace col proprio corpo
Sono ossessionati da difetti fisici spesso inesistenti. Sempre amplificati. Che li
portano dal chirurgo o dal medico estetico. E devastano la loro vita sociale. I medici la chiamano dismorfofobia. Va sempre in coppia con depressione o disagio. Ma la soluzione c’è: la psicoterapia
di Paola Emilia Cicerone

Bellezza e malessere
Durante la preistoria l’idea di bellezza era legata alla fecondità, e i corpi femminili apprezzati per le loro forme opulente.
Nell’antica Grecia invece era intesa come armonia delle proporzioni, le si attribuiva un valore etico che equiparava bello e buono; nel Medioevo l’immagine femminile più apprezzata aveva un corpo sottile e un aspetto adolescenziale, mentre nel 700 nasce la passione per il vitino di vespa. Nel saggio Dismorfofobia Quando vedersi brutti è patologia
(L’asino d’oro 2017 pagg. 119 euro 14) gli autori Donatella De Lisi, Eva Gebhardt, Luca Giorgini e Andrea Raballo, psichiatri e psicoterapeuti uniti dall’esperienza dell’analisi collettiva di Massimo Fagioli, propongono una carrellata dell’idea di bellezza in tempi e luoghi diversi. Per raccontare un malessere che c’entra poco con l’oggettiva sgradevolezza delle forme, e molto col fatto di non essere “visti”, di non sentirsi amati e accettati.
C’è una paziente che tormenta il parrucchiere per cercare il rimedio a un’immaginaria calvizie, e c’è chi non si toglie mai gli occhiali da sole per nascondere i propri occhi «troppo brutti e incavati» o non riesce ad accettare la naturale asimmetria del viso arrivando a vedersi deforme.
Circa la metà dei dismorfofobici alla ricerca di un’immagine ideale si affida a medici estetici, dermatologi e soprattutto ai chirurghi plastici. Con i quali sarebbe importante riuscire a collaborare, osservano gli autori, per individuare chi non ha un difetto da correggere ma bisogno di aiuto per imparare ad accettarsi.

A VOLTE VEDERSI brutti può diventare una malattia. Non parliamo di una temporanea insoddisfazione per il proprio aspetto, ma di una vera e propria ossessione che compromette i rapporti sociali e può indurre al suicidio. E che non colpisce chi deve davvero fare i conti con deformità o problemi estetici gravi. «La maggior parte delle persone che soffre di dismorfofobia ha un aspetto normalissimo, spesso addirittura gradevole», spiegano Luca Giorgini ed Eva Gebhardt, psichiatri e psicoterapeuti che hanno dedicato un saggio a questo problema. Che oggi molti psichiatri definiscono “disturbo da dismorfismo corporeo”.
La dismorfofobia però non è una malattia a se stante, ma può essere collegata a vari disturbi, dalle psicosi alla depressione. «Spesso è associata al disturbo ossessivo compulsivo - osserva Gebhardt - tanto che potremmo definirla come una forma di ossessione che riguarda l’aspetto fisico, o meglio un qualche suo tratto su cui si concentrano le preoccupazioni del paziente». E se prestare attenzione al proprio corpo è qualcosa che tutti fanno, «che viene a mancare soltanto in condizioni di serie malattie fisiche e psichiche », sottolinea Gebhardt, per chi soffre di dismorfofobia il pensiero diventa una vera ossessione che occupa gran parte del tempo, creando angoscia e interferendo con le normali attività, il lavoro e la vita sociale.
Un disturbo raro ma non rarissimo, che colpisce allo stesso modo sia uomini sia donne e spesso compare durante l’adolescenza, «una fase della vita in cui il corpo si trasforma in modo radicale - osserva Giorgini - il problema è che se non s’interviene tempestivamente, tende a durare a lungo, a volte per tutta la vita». Secondo le statistiche, a soffrirne sarebbe circa il 12% delle persone che si rivolge a uno psichiatra: «Ma dati come questi fotografano la punta dell’iceberg - spiega Gebhardt- molti pazienti si vergognano, e spesso tendono a non parlare con gli psichiatri, e a rivolgersi semmai ai chirurghi estetici». Che fanno fatica a identificare chi, tra quanti si rivolgono a loro, soffre del disturbo. E quindi è destinato a essere insoddisfatto dei risultati ottenuti .
«Il dismorfofobico proietta sulla realtà fisica un “difetto”, un’assenza che riguarda la psiche », spiega Giorgini. Non riesce a entrare in contatto con se stesso, a vedersi, e quindi cerca all’esterno l’immagine perduta, «ispirandosi spesso a un modello ideale, un’attrice o un personaggio famoso di cui spera di ottenere le caratteristiche fisiche grazie a una specie di copia e incolla chirurgico». Le preoccupazioni dei malati tendono a concentrarsi sul volto e sulla pelle, «due parti del corpo particolarmente importanti nei primi anni di vita, quando sono alla base delle prime relazioni con l’altro - spiega Gebhardt - e infatti le radici della dismorfofobia stanno proprio nella relazione del bambino con la madre, o con chi si occupa di lui». Anche se il disturbo può rimanere a lungo silente, per poi riemergere in situazioni di stress.
Si tratta, infatti, di un’esperienza soggettiva, in cui le pressioni di una società ossessionata dall’aspetto contano poco: «Comportamenti come questi - spiegano i due psicoterapeuti - sono espressione di una perdita di contatto con la propria realtà psichica, che porta a fissarsi su quella fisica. La società può contribuire a plasmare la forma del disturbo, ma non ne è la radice ».
Spesso però il problema passa inosservato, e non solo perché la vergogna spinge i pazienti a nascondere le proprie angosce. «Alcuni comportamenti rituali poi, come la tendenza a evitare gli specchi o in alternativa a controllarsi ossessivamente, si manifestano solo in una fase avanzata del disturbo - spiega Giorgini - un campanello di allarme può essere semmai la tendenza a isolarsi ed evitare i rapporti sociali, soprattutto in età infantile e adolescenziale». E in questa fase intervenire è importante, perché la dismorfofobia si può curare, soprattutto con la psicoterapia, l’unica in grado di risolvere veramente il problema.
«La malattia infatti - spiega Giorgini - non ha una componente organica, i farmaci possono servire semmai come appoggio, in presenza di sintomi particolarmente invalidanti come ansia o insonnia». Le terapie più studiate sono quelle di tipo cognitivo comportamentale, di cui però non sono stati valutati gli effetti a lungo termine «mentre una psicoterapia psicodinamica, come la Teoria della nascita di Massimo Fagioli che noi utilizziamo - aggiungono i due esperti - non si limita a intervenire sul sintomo, con il rischio di vederlo riemergere sotto altra forma, ma va alle radici del problema». E nei casi più gravi, quando il rischio di suicidio è reale, è consigliato il ricovero. Anche se ancora oggi in Italia il problema è poco conosciuto e non esistono strutture dedicate.