Repubblica 4.9.17
Fermo, estate 2016: un profugo nigeriano viene finito a pugni per aver difeso la moglie da un insulto razzista
“Già libero chi uccise Emmanuel ma io resto: l’Italia è il mio Paese”
di Maurizio Crosetti
FERMO.
La fontanella grigia, la fermata della corriera per Porto San Giorgio,
il belvedere sui Monti Sibillini che tremolano nella distanza. Tutto
come quel giorno. Però Chinyere non se la sente di scendere in strada e
tornare qui. «Potrei incontrare quell’uomo e non voglio. Alla mia
domanda, “perché?”, non ha mai risposto e non glielo chiederò più».
Quell’uomo
si chiama Amedeo Mancini. È l’ultrà fascista della Fermana che il 5
luglio 2016, alle tre del pomeriggio, uccise con un pugno Emmanuel Chidi
Namdi, il marito di Chinyere. Mancini l’aveva chiamata «scimmia
africana», Emmanuel aveva reagito, l’ultrà l’aveva colpito e ammazzato.
Adesso è libero dopo avere patteggiato una condanna a quattro anni.
Prima i domiciliari e poi nemmeno quelli. Buona condotta, così ha deciso
la giustizia italiana. C’era la provocazione. E adesso chissà cosa c’è,
dentro questo vuoto. «Non lo odio. Vorrei solo che avesse il coraggio
di guardarmi e dirmi perché, però adesso è tardi».
Lo studio
dell’avvocata Letizia Astorri è in un antico palazzo nel cuore di Fermo,
si sale uno scalone in marmo ed ecco Chinyere. L’ha accompagnata suor
Filomena che ricorda la
suora giovane di Arpino, pare una bimba
con gli occhi accesi. Invece quelli di Chinyere vagano senza pace nella
stanza, sembrano farfalle che non sanno dove posarsi. Suor Filomena la
aiuta con la traduzione, anche se l’inglese della venticinquenne
nigeriana è lineare e pastoso, scolastico quanto basta per lasciarsi
capire.
«Un anno dopo, faccio quello che Emmanuel mi chiedeva
tutte le mattine quando mi diceva “Chini, studia!”. Lo faccio per lui.
Ho deciso di riprendere le lezioni di medicina, poi seguo un corso di
informatica e un altro di cucina. Voglio lavorare e rimanere in Italia,
perché qui sono stata bene e ho trovato gente buona».
Parla così,
senza odio, del luogo che ha ucciso il suo amore. Lei che era fuggita
dalla Nigeria per colpa dei terroristi di Boko Haram. «Fecero saltare in
aria una chiesa uccidendo la nostra bambina, i miei genitori e i miei
suoceri: quella sera, con Emmanuel decidemmo di scappare». La fuga in
Libia, l’incontro con un trafficante di uomini che malmena Chinyere e le
fa perdere il figlio che ha in grembo, la drammatica traversata,
resistere nonostante tutto, raggiungere finalmente l’Italia e sperare di
nuovo in qualcosa. «Quando siamo arrivati qui, io e mio marito ci siamo
detti: la sofferenza è finita».
Il resto è ferocia e destino,
sotto forma dell’incontro con la persona sbagliata. Quel Mancini che si
vantava di tirare le noccioline ai neri. «Emmanuel era analfabeta e non
capiva una parola d’italiano, magari non l’avessi capita neppure io».
Magari Chinyere non avesse compreso il senso di quello “scimmia
africana”. «Emmanuel era più avanti nella salita, con un amico. Io mi
ero fermata per bere alla fontanella ed è stato in quel momento che
l’uomo mi ha insultata. Ho gridato, Emmanuel è tornato indietro, l’altro
lo ha colpito in faccia».
Quando si sposarono in Italia, fu
Chinyere a leggere la formula di rito anche per Emmanuel. Lei era le sue
parole, lui la sua forza. «Diceva che ero come uno zainetto, per questo
mi portava ovunque. Eravamo rifugiati, a volte ci intervistavano. C’è
un video su Youtube dove Emmanuel si presenta e parla, io vado a
rivederlo per sentire ancora la sua voce, anche se poi soffro tanto».
Cercare
una strada e un senso oltre l’umiliazione e la morte, a dispetto di
quella che qualcuno chiama giustizia, con un assassino a piede libero e
una vedova costretta a vivere in un altro posto, non più a Fermo, non si
può dire dove, Chinyere va protetta il più possibile. «Ora sto
abbastanza bene ma non come prima, perché so che sarò per sempre sola.
Ogni mattina mi sveglio, mi guardo attorno e non trovo Emmanuel. Eppure
non ho mai odiato la persona che l’ha ucciso, so che la devo perdonare
perché nella Bibbia ci sono soltanto parole di bontà. Le mie giornate
sono semplici: studio, lavoro, prego per l’anima di Emmanuel e del suo
assassino, e anche per la mia avvocata Titti che ha un lavoro così
difficile. Quando arrivammo in Italia senza documenti, non potevamo
dimostrare di essere sposati, e don Vinicio Albanesi ci legò con una
promessa di matrimonio. Indossavo lo stesso vestito che ho messo al
funerale, quando ho chiesto a Dio di morire anch’io, però adesso non
voglio più, adesso devo vivere per Emmanuel».
Dietro la finestra
c’è un disordinato disegno di rondini, uno zigzag impazzito. Fa
caldissimo. Chinyere s’interrompe per piangere un poco. «Forse era
questa la volontà di Dio. La notte in cui Emmanuel è rimasto in coma non
ho dormito fino a mattina, poi sono crollata e lui mi è apparso in
sogno, ho visto che stava andando via». Chinyere ricorda anche il giorno
dal giudice, quando provò a parlare con Amedeo Mancini. «Era agitato,
tremava tutto, saltellava sulla sedia. E io pensavo a come reagisce una
persona che ha ucciso un altro uomo, a com’è ridotta. Guarda in che
stato è, mi dicevo, però lui non mi guardava, forse non gli importava
niente. Mi sarebbe bastato un saluto, gli avrei chiesto perché lo hai
fatto».
Per quasi un anno Chinyere è andata a trovare Emmanuel al
cimitero di Capodarco, ma questo non le bastava. «Il 4 luglio l’ho
riportato in Nigeria, perché per la tradizione igbo l’anima di chi muore
di morte violenta può riposare solo a casa, e dopo un certo rito. Nella
bara mettiamo una scopa, insieme a un coltello per proteggere il
defunto. Il padre di Emmanuel mi strappò questa promessa: se mio figlio
muore lontano, poi riportalo qui».
Un anno dopo, il dolore ha
trovato forse la sua strada. «Emmanuel era un gentleman, trattava tutti
bene, sorrideva sempre. Qui eravamo felici, anche per questo non scappo.
Non ho paura del futuro. Sono una donna forte perché ho visto morire,
ho perduto tutta la mia famiglia e un figlio non ancora nato, e della
mia bimba non ho neanche più un pezzetto. Però non odio nessuno». La
suora giovane la abbraccia, l’avvocata Titti la accarezza, le rondini
continuano le loro picchiate e nessuna traiettoria si perde. Quello che
resta dopo l’amore, sembra dire Chinyere, è l’amore.