Repubblica 3.9.17
L’America di Clooney
“Presidente io? Non scherziamo Ma il mio paese si rimetta in piedi”
intervista di Silvia Bizio
VENEZIA.
È la loro prima apparizione pubblica dalla nascita dei gemelli Ella e
Alexander, e il primo ritorno a Venezia dopo il fotografatissimo
matrimonio di tre anni fa: i coniugi George e Amal Clooney sono arrivati
da Londra per la Mostra. Gemelli di tre mesi al seguito. Clooney
presenta la prima mondiale della sua ultima regia,
Suburbicon,
scritto
da lui stesso insieme al socio Grant Heslov, adattato da un copione
scritto 25 anni fa dai fratelli Coen. Il titolo, chiaro riferimento a
Satyricon
di Fellini, era stato scelto proprio dai Coen, e Clooney ha deciso di lasciarlo così.
Suburbicon
(gioco
di parole con “suburb”, i quartieri periferici lower-middle class delle
metropoli americane) uscirà negli Usa il 27 ottobre e in Italia il 14
dicembre. Del cast fanno parte Matt Damon, Julianne Moore e Oscar Isaac.
Matrimonio
e paternità devono aver giovato a Clooney, affascinante in abito
chiaro, sempre generoso sia quando si parla di politica e questioni
umanitarie che quando affronta i temi legati ai suoi film, in questo
caso una tragicomica satira sociale. Lo incontriamo in una saletta
privata dell’Excelsior il giorno prima della première, e la prima cosa
che dice è: «Sentito il temporale ieri sera? I gemelli si sono
spaventati moltissimo, poverini, urlavano come dannati!».
Ci sono voluti 25 anni per fare questo film, dalla prima stesura dei fratelli Coen. Cosa è successo nel frattempo?
«Loro
avevano scritto il copione pensando a una “murder comedy” ambientata
negli anni 80. Cercavo da tempo un altro film da dirigere: ho letto
almeno 80 copioni senza trovare qualcosa di convincente. Poi durante la
campagna presidenziale non si faceva altro che parlare di minoranze e
muri da erigere, frasi che avevamo già ascoltato nel nostro passato,
nulla di nuovo. Gli americani hanno la tendenza a prendersela con le
minoranze, i bianchi temono di perdere il loro posto nella società. Non
volevo fare un documentario, così mi sono ricordato di quel copione e ho
pensato di ambientarlo nel 1957 invece che nell’85. E ho cominciato a
lavorare sull’idea di una famiglia disfunzionale e di una nera
dirimpettaia. E tutti guardano dalla parte sbagliata!».
Nei suoi film, come regista, lei rivolge spesso lo sguardo al passato. Perché?
«Vero.
Tranne che nelle Idi di marzo. Ma non c’è nulla di nuovo. Un paio di
anni fa ci fu il documentario della HBO Nixon on Nixon: beh, ogni volta
che pensiamo che Trump dica qualcosa di nuovo andiamo a risentire come
parlava Nixon, quando diceva che voleva bandire Walter Cronkite o altri
giornalisti. Non sono cose nuove, lo sembrano solo perché ci illudiamo
di averle superate. Quando ci sono state le sommosse di Los Angeles non
ci eravamo resi conto di quanta rabbia sotterranea ci fosse. Pensi a
Charlottesville».
Perché ambientare il film nel ’57?
«Noah,
il bambino del film, ha esattamente l’età che Donald Trump aveva
all’epoca. E quando lui dice “Rifacciamo l’America grande” si riferisce
agli anni 50 di Eisenhower e poi al boom economico. Certo era
fantastico: se eri bianco e eterosessuale, altrimenti mica tanto. È
interessante scostare la tenda e scoprire i casini che succedevano anche
allora; ma non tutto era rosa e fiori in tante parti d’America».
Com’è cambiato il suo modo di vedere la vita con la paternità?
«Non
molto. Sento molta responsabilità, ovvio, perché pur sapendo che i miei
figli sono due privilegiati la vita resta comunque una sfida. Non è
facile essere bambini e crescere sotto la lente d’ingrandimento per via
della celebrità, e credo che sia importante che lo capiscano al più
presto. Lasciatemi dire una cosa sui gemelli, è buffa la natura: lui è
già il doppio della sorella e mangia sempre; lei è delicata e tutta
occhi, tutta sua madre. Sono già diversissimi».
È felice?
«La
felicità è una condizione che inseguiamo perennemente. Ma oggi su noi
americani grava una sorta di nuvola oscura. Non mi era mai capitato di
dovermi quasi vergognare di essere americano. Ma sono fiero di vedere
che le nostre istituzioni stanno cominciando a reagire e il paese tira
fuori senso di responsabilità. Mi fa pensare che in fondo siamo brave
persone».
Si sente ottimista?
«Sì, lo sono, perché le cose
si muovono. Pensi alle Corti che rifiutano di applicare il divieto
d’ingresso ai musulmani. La ragione prevarrà. E credo nel giornalismo e
nella stampa libera, che sta facendo un ottimo lavoro in difesa della
democrazia. Perfino il Wall Street Journal, il Washington Post e il New
York Times stanno cambiando. È eccitante ricomincia- re a vedere un buon
giornalismo d’inchiesta. Mi entusiasma vedere che non si lasciano
intimidire dalla demagogia di una persona».
Matt Damon parla di “rabbia bianca” nel film.
«Ancora
oggi molte persone pensano che il loro mondo stia cambiando e attaccano
le minoranze: immigrati o rifugiati che siano. Niente di diverso da
quello che succedeva in Germania nel 1934. Ma il mondo sta cambiando e
la globalizzazione ne è in gran parte responsabile. Io sono cresciuto
negli anni 60 e 70, il momento di maggior cambiamento nel nostro paese.
Quando abbiamo visto la fine della segregazione al sud abbiamo pensato
che ci stavamo muovendo nella giusta direzione. E invece ci siamo
fermati. Abbiamo un presidente che dovrebbe essere il presidente di
tutti noi, che dovrebbe spiegare, anche a chi non l’ha votato, come
stare insieme. Non si possono paragonare i Black Lives Matter con il
KKK. Anche quando usano la violenza i Black Lives Matter lottano per
l’eguaglianza razziale, mentre il KKK invoca la supremazia razziale;
questi due gruppi non dovrebbero mai venire equiparati, e il presidente
americano dovrebbe ribadirlo con forza. Il KKK non rappresenta
l’America, rappresenta solo una piccola minoranza di imbecilli e non
dovrebbe essere paragonato a nessun altro dal presidente degli Stati
Uniti».
Qui a Venezia all’incontro con Jane Fonda e Robert Redford
qualcuno ha ricordato a Redford che vent’anni fa lui aveva definito il
sogno americano una grande bugia. Cosa significa oggi questa espressione
per lei?
«Penso che tanti nel mondo, a partire dalla Seconda
guerra mondiale, abbiano spesso visto l’America come un posto di
speranza. Io sono un ottimista. Il mio Suburbicon è un film dark, ma
nell’ultima scena i due bambini giocano insieme con una palla da
baseball. Fa pensare che questi due ragazzini ce la faranno. Non credo
nell’eccezionalità dell’America, però mi piace l’idea che ci
riprenderemo di nuovo. Abbiamo forza e volontà, e ho la speranza che
torneremo a vivere quel sogno, ma per farlo dobbiamo prima andare fino
in fondo nella comprensione dei nostri problemi: dobbiamo affrontare il
razzismo, il bigottismo, il futuro. Non si elimina il carbone senza che
qualcuno decida che fra dieci anni non ci saranno più auto con il motore
a combustione! Dobbiamo circondarci di persone che guardino avanti, non
indietro. Siamo in una curva difficile, ma penso che ce la faremo».
Questo significa che si presenterà come presidente?
(Sorride):
«Sono preoccupato dalla mancanza di personalità che ci colpiscano fino
al cuore nel fronte democratico. È responsabilità dei democratici
trovare quel giusto candidato e io farò tutto quello che posso per far
eleggere quella persona quando salterà fuori. Un paio di giorni fa ho
incontrato Obama, e proprio di questo si parlava al telefono con Joe
Biden. Tutti noi siamo alla disperata ricerca di una figura dotata di
testa e cuore che ci porti fuori dal guado. Ma non sono io la persona
giusta per questo lavoro ».
Perché?
«Perché non mi sembra affatto divertente. E, scusi, ma non ho alcuna intenzione di rovinarmi la vita!». Ride.