Repubblica 3.9.17
Viviamo il tempo della retrotopia
L’utopia
di Tommaso Moro di instaurare “il Cielo sulla Terra” non esiste più
perché il futuro, troppo incerto e spaventoso, è considerato
inaffidabile e ingestibile. Così, mentre prende piede l’individualismo
che cancella il senso di comunità, il passato si trasforma in una
condizione rassicurante e nell’unica prospettiva accettabile
di Zygmunt Bauman
Ecco
— per chi le avesse dimenticate — le parole con cui all’inizio degli
anni Quaranta Walter Benjamin, nelle Tesi di filosofia della storia,
commentava l’Angelus Novus — da lui ribattezzato “ angelo della storia” —
dipinto nel 1920 da Paul Klee: “L’angelo della storia ha il viso
rivolto al passato. Dove ci appare una catena di eventi, egli vede una
sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine e le
rovescia ai suoi piedi. Egli vorrebbe ben trattenersi, destare i morti e
ricomporre l’infranto. Ma una tempesta spira dal paradiso, che si è
impigliata nelle sue ali, ed è così forte che egli non può più
chiuderle. Questa tempesta lo spinge irresistibilmente nel futuro, a cui
volge le spalle, mentre il cumulo delle rovine sale davanti a lui nel
cielo. Ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta”. A quasi un
secolo da quella lettura, di imperscrutabile e incomparabile profondità,
a guardar bene l’opera di Klee si scorge di nuovo l’angelo della storia
ad ali spiegate. Ma ciò che forse colpisce di più l’osservatore è il
cambio di rotta, come se quell’angelo fosse colto nel bel mezzo di
un’inversione di marcia: il volto dal passato si rivolge al futuro, le
ali vengono respinte dalla tempesta che, stavolta, spira dall’inferno
del futuro ( immaginato, previsto e temuto prima ancora che accada)
verso il paradiso del passato (un passato probabilmente solo raffigurato
a posteriori, dopo averlo perduto e visto andare in rovina). Ma le ali
dell’angelo sono schiacciate, adesso come allora, con una violenza tale “
che egli non può più chiuderle”. La possibile conclusione è che in quel
disegno il passato e il futuro sono colti mentre si scambiano i
rispettivi vizi e virtù registrati da Klee — come ci spiega Benjamin —
un secolo fa. Tocca ora al futuro, deprecato perché inaffidabile e
ingestibile, finire alla gogna ed essere contabilizzato come voce
passiva, mentre il passato viene spostato tra i crediti e rivalutato, a
torto o a ragione, come spazio in cui la scelta è libera e le speranze
non sono ancora screditate.
La nostalgia — dice Svetlana Boym,
docente di Letterature slave e comparate a Harvard — “è un sentimento di
perdita e spaesamento, ma è anche una storia d’amore con la propria
fantasia”. Nel Seicento la nostalgia era considerata una malattia da cui
si poteva guarire: per curarla i medici svizzeri, ad esempio,
raccomandavano oppio, sanguisughe e una gita in montagna; ma “ nel
ventunesimo secolo quella lieve indisposizione si è trasformata in una
condizione insanabile. Il ventesimo secolo, iniziato con un’utopia
futurista, si è chiuso con la nostalgia”. Boym conclude diagnosticando “
un’epidemia globale di nostalgia” e avverte: « Il pericolo della
nostalgia è che tende a confondere la casa vera con quella immaginaria »
. […] Cinquecento anni dopo che Tommaso Moro diede il nome di Utopia al
millenario sogno umano di tornare in paradiso o di instaurare il Cielo
sulla Terra, l’ennesima triade hegeliana formata da una doppia negazione
si avvia a completare il proprio giro. A partire da Moro, le
aspettative di felicità dell’uomo sono state sempre legate a un
determinato topos ( un luogo stabilito, una polis, una grande città, uno
Stato sovrano, tutti retti da un sovrano saggio e benevolo): ma una
volta sganciate e slegate da qualsiasi topos, individualizzate,
privatizzate e personalizzate (“ subappaltate” ai singoli esseri umani
che le portano con sé come le chiocciole la propria casetta), adesso
tocca a loro essere negate da ciò che avevano coraggiosamente e quasi
vittoriosamente cercato di negare. Dalla doppia negazione dell’utopia in
stile Tommaso Moro ( prima negata e poi risorta) affiorano oggi “
retrotopie”: visioni situate nel passato perduto/ rubato/ abbandonato ma
non ancora morto, e non — come la loro progenitrice due volte rimossa —
legate al futuro non ancora nato, quindi inesistente […] La
privatizzazione/ individualizzazione dell’idea di “ progresso” e degli
sforzi per migliorare costantemente l’esistenza fu offerta dai
governanti, e accolta da gran parte dei governati, come una liberazione
che poneva fine ai severi obblighi della sottomissione e della
disciplina, in cambio della rinuncia ai servizi sociali e alla
protezione dello Stato. Per tante persone — sempre di più — quella
liberazione si rivelò una fortuna e insieme una disgrazia, o forse una
fortuna adulterata da una dose notevole e crescente di disgrazia. Ai
disagi dei vincoli subentrarono — non meno umilianti, spaventosi e
gravosi — i rischi, che inevitabilmente finirono per saturare quella
condizione di autonomia imposta per decreto. Se la paura di non dare un
contributo ( con le sanzioni che ciò comportava) poteva essere tenuta a
bada dal conformismo e dall’obbedienza che fino a ieri imperavano al
posto dove oggi vige l’autonomia, a quella paura è subentrato il
terrore, non meno straziante, di risultare inadeguati. Mentre le vecchie
paure scivolavano lentamente nell’oblio e le nuove si ingigantivano e
si intensificavano, promozione e declassamento, progresso e arretramento
si scambiavano le parti — e si moltiplicavano sempre più gli individui
che, come pedine su una scacchiera, erano ( o si sentivano) condannati
alla sconfitta. Ecco così spiegata la nuova inversione di rotta del
pendolo della mentalità e degli atteggiamenti pubblici: le speranze di
miglioramento, a suo tempo riposte in un futuro incerto e palesemente
inaffidabile, sono state nuovamente reinvestite nel vago ricordo di un
passato apprezzato per la sua presunta stabilità e affidabilità. Un
simile dietrofront trasforma il futuro, da habitat naturale di speranze e
aspettative legittime, in sede di incubi: dal terrore di perdere il
lavoro e lo status sociale che esso conferisce, a quello di vedersi “
riprendere” la casa e le cose di una vita, di rimanere impotenti a
guardare mentre i propri figli scivolano giù per il pendio del binomio
benessere- prestigio, di ritrovarsi con abilità che, sebbene
faticosamente apprese e assimilate, hanno perso qualsiasi valore di
mercato. La via del futuro somiglia stranamente a un percorso di
corruzione e degenerazione. Il cammino a ritroso, verso il passato, si
trasforma perciò in un itinerario di purificazione dai danni che il
futuro ha prodotto ogni qual volta si è fatto presente. Gli effetti di
un simile cambiamento […] si vedono e si toccano a tutti i livelli della
convivenza sociale, nella nascente visione del mondo e nelle strategie
di vita che tale visione insinua e prepara.
Il fenomeno che
definisco “ retrotopia” deriva dalla negazione della negazione
dell’utopia, che con il lascito di Tommaso Moro ha in comune il
riferimento a un topos di sovranità territoriale: l’idea saldamente
radicata di offrire, e possibilmente garantire, un minimo accettabile di
stabilità, e quindi un grado soddisfacente di fiducia in sé stessi. Al
tempo stesso, la retrotopia si discosta dall’eredità di Moro in quanto
approva, fa proprie e assimila le contribuzioni/ correzioni apportate
dal suo precedessore immediato, che aveva rimpiazzato l’idea di “
perfezione assoluta” con l’assunto di non- definitività e di endemico
dinamismo dell’ordine delle cose, ammettendo in tal modo la possibilità (
e desiderabilità) di una infinita successione di cambiamenti ulteriori,
che l’originaria idea di utopia delegittimava e precludeva a priori.
Fedele allo spirito dell’utopia, la retrotopia è spronata dalla speranza
di riconciliare finalmente la sicurezza con la libertà: impresa mai
tentata — e, in ogni caso, mai realizzata — né dalla visione originaria
né dalla sua prima negazione. […] Le più significative tendenze di “
ritorno al futuro” che si riscontrano in questa incipiente fase “
retropica” della storia dell’utopia […] ovviamente, non rappresentano un
ritorno diretto e immediato a una modalità di vita praticata in
passato: sarebbe semplicemente impossibile, come ha ben dimostrato
Ernest Gellner. Essi rappresentano invece — per richiamare la
distinzione concettuale proposta da Derrida — tentativi consapevoli di
iterazione ( e non reiterazione) dello status quo che esisteva, o si
immagina esistesse, prima della seconda negazione, sulla base di
un’immagine in ogni caso riciclata e modificata significativamente
attraverso un processo di memorizzazione selettiva strettamente
intrecciata all’oblio selettivo. Come che sia, nel tracciare la strada
che porta a Retrotopia, i principali punti di riferimento sono gli
aspetti veri o presunti del passato che, pur avendo dato buoni
risultati, sarebbero stati inopportunamente abbandonati o
irresponsabilmente mandati in rovina. Per collocare nella giusta
prospettiva l’innamoramento retrotopico per il passato, è opportuno
premettere un altro avvertimento. Boym nota che un’epidemia di nostalgia
“ spesso segue le rivoluzioni”, e saggiamente aggiunge che nel caso
della Rivoluzione francese del 1789 “ non fu solamente l’ancien régime a
produrre la rivoluzione, ma anche la rivoluzione, per certi versi, a
produrre l’ancien régime, dandogli una forma, un senso di compiutezza e
un alone di rispettabilità”. Fu invece il crollo del comunismo a far
nascere l’idea che gli ultimi decenni dell’impero sovietico fossero
stati “ un’età dell’oro di stabilità, forza e normalità, che è
l’immagine oggi prevalente in Russia”. In altri termini, ciò a cui di
solito “ torniamo” nei nostri sogni nostalgici non è il passato “ in
quanto tale” — wie es ist eigentlich gewesen, com’è stato davvero — ,
quel passato che Leopold von Ranke raccomandava di recuperare e
rappresentare ( come diversi storici hanno cercato di fare, con scarsi
consensi). […] Ci sono buone ragioni per ipotizzare che l’avvento del
World Wide Web e di Internet abbia segnato il declino dei “ Ministeri
della Verità”, ma non certo il tramonto della “ politica della memoria
storica”, di cui ha semmai moltiplicato le possibilità di applicazione,
reso infinitamente più accessibili gli strumenti per praticarla e
potenzialmente spinto all’estremo le conseguenze.
In ogni caso, la
scomparsa dei “Ministeri della Verità” (ossia del monopolio
incontrastato dell’autorità costituita sulle sentenze in materia di
veridicità) non ha certo spianato la strada ai messaggi inviati alla
coscienza pubblica da chi per mestiere ricerca e comunica la “verità dei
fatti”, ma ha semmai reso quella strada ancora più accidentata,
tortuosa, infida e incerta. ?
l libro
Il brano è tratto dall’ultimo libro di Zygmunt Bauman (1925-2017).
In
Retrotopia (Laterza, traduzione di Marco Cupellaro), in uscita il 7
settembre, il sociologo polacco recentemente scomparso, sostiene che
nella società contemporanea l’utopia guarda a un passato che
consideriamo più rassicurante