Il Fatto 30.9.17I fascisti al trullo, la sinistra su Marte
di Antonio Padellaro
Certamente no dagli abitanti della borgata romana del Trullo che hanno dato manforte agli squadristi di Forza Nuova per cacciare una famiglia italo-eritrea, e solo perché lei era di pelle scura. Probabilmente no dalla maggioranza degli abitanti della Capitale che sia pure con qualche pudore nel dichiararlo pensano che slogan dei nipotini del duce: “Roma ai Romani” non sia poi tanto sbagliato. Esageriamo? Girate un po’ per la città, ascoltate certe radio e ne riparliamo. Quanto a cosa pensi davvero il Paese non c’è sondaggio che non metta al primo posto tra le preoccupazioni degli italiani il tema immigrazione. Ciò significa che più le squadracce saranno lasciate da sole a presidiare i territori più disagiati, desertificati dalla fuga della politica e dalla scomparsa dei partiti e più assisteremo all’avanzata elettorale di una destra con la bava alla bocca. Nella quale Matteo Salvini e Giorgia Meloni saranno quelli moderati e al cui confronto l’AfD tedesca sembrerà la Caritas. In un simile disastro politico, culturale e sociale le responsabilità della sinistra sono immense. A Guidonia (un passo da Roma) dove si vive in uno stato di guerriglia permanente tra residenti e nomadi, fino agli Anni 90 le sezioni del Pci e del Psi costituivano un robusto presidio democratico dove le tensioni venivano governate e rappresentate.
Da vent’anni a questa parte, grazie anche alle porcate elettorali dei nominati, nei territori è scomparsa la figura del deputato di riferimento, quello che ogni fine settimana rientrava da Roma nel proprio collegio, ascoltava ciò che gli elettori avevano da dirgli e si dava da fare sapendo altrimenti di giocarsi la rielezione. Inutile girarci intorno: a Guidonia o al Trullo a chi diavolo possono rivolgersi gli abitanti esasperati, a torto o a ragione se non ai fascisti (ora che perfino i 5stelle sembrano dispersi nei loro casini)? Camerati apprezzati in loco per un certo stile diretto: menano le mani e non si perdono nei bla bla. Talché le lodevoli leggi Fiano potranno pure punire il saluto romano o chi intona Giovinezza, ma difficilmente riusciranno a sanzionare l’idea di una democrazia delle anime belle ma del tutto inservibile nel fuoco della dura realtà quotidiana.
Nella controversa legge sullo Ius soli questa distanza tra le parole e i fatti sta scavando un fossato profondo tra la visione illuminata delle élite e il diffuso senso comune. In linea di principio (e di civiltà) come si fa a negare il diritto alla cittadinanza ai bambini nati in Italia da genitori stranieri con regolare permesso di soggiorno da almeno 5 anni?
Che razza di nazione è quella nella quale si continuano a discriminare i compagni di scuola dei nostri figli di pelle diversa e solo perché Angelino Alfano non è d’accordo? Se non fosse che la frase a cui il ministro degli Esteri è stato impiccato (“una cosa giusta fatta al momento sbagliato può diventare una cosa sbagliata”) pur nel cinismo politicante del personaggio, pone una domanda ineludibile. Perché siamo finiti nel “momento sbagliato”? Perché nell’inverno scorso, appena insediato, il governo Gentiloni non ha proceduto subito all’approvazione della legge quando Alternativa Popolare o come si chiamava era tenuta sotto scacco dal timore di elezioni anticipate? Perché non si è utilizzato il tempo trascorso per informare nel modo più capillare e comprensibile i cittadini sulla vera natura della riforma lasciando invece campo libero alle menzogne del leghismo tre palle un soldo secondo cui i clandestini sarebbero diventati nostri concittadini appena sbarcati sul suolo italiano? Perché, infine, la visione nobile e illuminata dell’integrazione si ostina a non fare i conti con la realtà disintegrata e per nulla solidale di tante, troppe periferie? Poiché un conto è predicare il buono e il giusto comodamente seduti in un condominio del centro storico, più difficile se per arrivare a casa devi attraversare un percorso di guerra tra sporcizia, lampioni rotti e spacciatori in agguato.
Chi ha paura dell’invasione dall’Africa e chi si sente al sicuro hanno lo stesso diritto di voto: si chiama suffragio universale. Solo che i primi sono molti di più. Alfano è quello che è ma non ha tutti i torti quando ritiene che lo Ius soli aprirebbe altre praterie sconfinate a Salvini con camerati al seguito. Bisogna intendersi su ciò che è giusto e su ciò che è dannoso. Per esempio, cos’è più razzista? Discriminare i rom? O tenerli nei campi nomadi accerchiati dai rifiuti e dai topi?
Repubblica 30.9.17
“Le donne non conoscono il congedo per le violenze”
Il presidente dell’Inps Tito Boeri rivela: “Solo 150 ne hanno usufruito”. Le associazioni: “Molte temono di perdere il posto”
di Caterina Pasolini
ROMA. «Solo 150 donne hanno chiesto il congedo dal lavoro previsto per chi è in cura dopo aver subito una violenza. Forse non sanno che c’è questa opportunità ». Mancano poche ore alla manifestazione nazionale contro la violenza che si terrà oggi in 100 città. Indetta dalla Cgil, contro gli stupri, «contro chi trasforma le donne da vittime a imputate perché «avevano vestiti leggeri o uscivano tardi la sera togliendo loro la libertà di esistere». E le parole del presidente dell’Inps Tito Boeri, che chiede di far conoscere la possibilità, prevista dal jobs act, di permessi retribuiti per sfuggire a maltrattamenti, non cadono nel vuoto. Perché in Italia i numeri fotografano una realtà che parla di una donna uccisa ogni tre giorni, di 16mila che chiedono ogni anno aiuto ai centri antiviolenza in cerca di un tetto per scappare agli aguzzini. Quasi sette milioni, secondo l’Istat, hanno subito qualche forma di violenza fisica o sessuale. E a picchiare, violentare è nel 67% dei casi compagno o ex.
Davanti a numeri così impressionanti di violenza, il motivo per un numero tanto basso di richieste di congedo è chiaro per Loredana Taddei della Cgil. «Già le donne denunciano poco: segnalazioni che non vengono prese sul serio dalle forze dell’ordine e il rischio di vedersi sbattere sul tavolo degli inquisiti invece che delle vittime, fanno sicuramente da deterrente. C’è poi da considerare che in un periodo storico in cui il lavoro è sempre più precario, cresce il timore di perdere il posto con un’assenza di questo genere».
Paura di vendette, di essere messe sotto giudizio dalla gente si mescolano a un altro dato per spiegare le poche richieste: questa legge è stata applicabile solo da giugno del 2016, un anno dopo la sua approvazione, quando finalmente l’Inps ha predisposto la circolare attuativa. «Il vero problema è che bisogna allungare il periodo di permessi dal lavoro, tre mesi sono insufficienti, e soprattutto allargare la platea delle donne che possono chiedere aiuto. Troppe esclusioni. Oggi possono infatti accedervi solo tutte quelle che sono in un percorso, che si rivolgono ai centri antiviolenza, e sono più di 15mila ogni anno». Titti Carrano, della rete Dire che raccoglie decine e decine di centri dal nord al sud del paese, sottolinea: «Migliaia di donne a rischio di violenze fisiche e morali sono escluse dalla possibilità di andarsene lontano dai loro aguzzini. Il provvedimento infatti ufficialmente esclude le colf, le badanti, le baby sitter. Bisogna quindi ampliarlo, far rispettare le leggi, agire per liberare le donne, per giungere all’autodeterminazione. Capendo che i centri sono un punto di prevenzione e di partenza per la ricostruzione di una vita».
Laura e altre, soprattutto in Toscana ed Emilia hanno potuto allontanarsi da casa e dal lavoro per qualche mese, le altre non avevano la possibilità di accedervi o le parole per dirlo.
«Per essere libere ci vuole una battaglia culturale, civile, dalle scuole, alle forze dell’ordine alla magistratura per cambiare l’immagine e la realtà delle donne» sottolinea Taddei.
“Cosa indosso? La libertà”. È lo slogan della manifestazione di oggi. Una risposta a chi giudica le donne per come si vestono invece di condannare di chi le abusa.
Repubblica 30.9.17
L’accusa della dottoressa aggredita vicino a Catania: “Mai ascoltate le mie denunce. Sono in malattia: per l’azienda sono stata vittima di un infortunio sul lavoro”
“In quell’ambulatorio sono stata stuprata anche dalle istituzioni”
intervista di Natale Bruno
CATANIA. «Il sangue mi ribolle nelle vene come la lava dell’Etna, lo scriva questo, sono arrabbiata per quello che mi è successo, ma non solo per le violenze subite». È un fiume in piena la dottoressa della guardia medica aggredita dieci giorni fa in un paese del catanese durante il turno di notte. «La solidarietà dei miei colleghi è stata massima — racconta — ma posso dire solo una cosa: io sono stata violentata anche dalle istituzioni».
Sono accuse pensanti: a chi si riferisce?
«Mi sono ritrovata in quella brutta situazione a difendere la mia vita per colpa dei dirigenti dell’Asp. Nessuna vera sicurezza è stata presa nei confronti dei medici in prima linea. Lavoriamo in tuguri, ma questo è un altro discorso…».
Ci sono stati altri episodi prima dell’aggressione contro di lei?
«Un anno e mezzo fa ci fu un episodio simile in una guardia medica a pochi chilometri da qui. Di notte una dottoressa che era accompagnata da una parente fu malmenata, rapita, costretta a prelevare del denaro in un bancomat e poi abbandonata in campagna. Fui io, allora, nelle vesti di coordinatrice di presidio del mio stretto sanitario a denunciare il fatto, a chiedere più sicurezza ai dirigenti dell’Asp.
Quale fu la risposta dell’azienda sanitaria?
«Dotarono le guardie mediche di porte blindate all’interno, una follia perché di fatto si trasforma un ambulatorio in un bunker. Fortunatamente quelle porte le abbiamo lasciate sempre aperte, al contrario non mi sarei mai salvata. Misero anche un telefono da pochi euro per il collegamento con i carabinieri e un sistema di videosorveglianza interno. Risultato? Io lì dentro pensavo di morire mentre il mio aggressore sfasciava tutto. Ma quella della sicurezza è solo la punta dell’iceberg. Noi medici abbiamo perso la dignità. La nostra professione si è snaturata, è soffocata dall’affanno di evitare le denunce, di seguire pedissequamente i protocolli. Sfugge un concetto fondamentale: noi dobbiamo curare le persone ».
Dopo la brutta esperienza vissuta, è tornata in quell’ambulatorio?
«Ci sono tornata dopo un giorno per recuperare un paio di orecchini che avevo perso quella notte e, al quale, ero legata affettivamente perché un regalo di mio marito. Ma non sono riuscita ad entrare dentro. Un collega me li ha recuperati».
Il suo aggressore aveva mai
manifestato interesse particolare nei suoi confronti?
«Era venuto altre volte, ma mai era stato violento. Voglio precisare una cosa: non era ubriaco, era perfettamente lucido. Mi ha afferrata alle spalle appena entrato con la scusa di farsi fare una iniezione di antidolorifico per un mal di denti. Per due ore non mi ha mai mollata, era sempre avvinghiato a me».
Come è riuscita a scappare?
«L’ho fatto quando lui si è distratto per accendersi una sigaretta. Sono scappata, ho gridato e a quel punto i vicini hanno chiamato i carabinieri».
Adesso lei è in malattia?
«Incredibile ma vero: per l’azienda sono stata vittima di un infortunio. Ma mi chiedo: può essere considerato un infortunio il mio?».
Tornerà a fare il medico in guardia medica?
«Continuerò, senza alcun dubbio, a fare il medico. Ma non credo in un ambulatorio di guardia medica, anche se quella scelta non è mai stata un ripiego, ma una decisione consapevole proprio perché volevo essere in prima linea, vicina alle persone che soffrono».
Il Sole 30.9.17
Violenza sessuale solo se c’è l’atto
Cassazione. Per i giudici scatta il delitto di «atti sessuali con una minore» che è perseguibile a querela
di Giovanni Negri
Non basta ogni tipo di sopraffazione fisica per integrare il reato più grave
Può essere assai sottile il confine che passa tra i reati di violenza sessuale e di atti sessuali con una minorenne. Ma è esattamente quel confine che separa una condanna a più di 6 anni di carcere dal proscioglimento per assenza di querela. E vicenda tanto più impervia quando la vittima è una minorenne, vittima di disagio psichico aggravato da un precario sviluppo piscofisico dovuto a degradato contesto familiare e il presunto colpevole è lo zio. La Corte di cassazione, sentenza n. 44936, della Terza sezione penale, depositata ieri, ha sposato una linea chiara: baci, toccamenti, simulazioni di congiungimento, non sono tali da potere fondare una condanna per violenza sessuale.
Condanna, a 6 anni e 2 mesi, che, dopo un proscioglimento in primo grado, era stata inflitta dalla Corte d’appello che, invece, aveva ritenuto che una condotta di sopraffazione fisica, accompagnata da intimidazione psicologica ai danni di un soggetto “debole” sono elementi idonei a realizzare il requisito della violenza. Tanto più che la minore, nel corso della sua audizione, aveva sottolineato che il comportamento dello zio non le era assolutamente gradito.
La Cassazione però è stata di avviso diverso, annullando la condanna e rinviando il caso in Corte d’appello per un nuovo esame. Per i giudici infatti, seguendo il ragionamento della pronuncia di appello la violenza sessuale scatterebbe tutte le volte che si configura una forma di violenza fisica «a prescindere dal fatto che tale comportamento costituisca a sua volta la materialità dell’atto sessuale».
«Aderire in toto alla tesi della Corte d’appello - prosegue la Cassazione - comporterebbe, di fatto, la possibilità di considerare integrato il reato di cui all’articolo 609 bis del Codice penale ogni qualvolta il soggetto, anche in ragione della stessa morfologia degli organi sessuali, debba esercitare una qualche forza fisica a carico del soggetto che quegli atti starebbe secondo tale ipotesi accusatoria, subendo».
La Cassazione puntualizza che in discussione non c’è tanto l’immoralità della condotta, ma la sua qualificazione giuridica. Che però ha conseguenze determinanti sul procedimento: nel caso infatti si possa configurare una violenza sessuale la procedibilità sarà d’ufficio, mentre se dovesse essere di atti sessuali con minorenne (come sottolineato dalla Cassazione) il giudizio si dovrebbe concludere con un non luogo a procedere in assenza di querela.
Corriere 30.9.17
La confessione del violentatore: ora curatemi
Milano, l’aggressione alla ragazzina dopo i 20 abusi a Genova. Incendiata la porta del suo appartamento
di Gianni Santucci
MILANO «Facevo una passeggiata, stavo parlando al telefono con la mia fidanzata; a un certo punto ho visto una ragazza, mi è venuta voglia di fare qualcosa. L’ho seguita quando è entrata in un palazzo». Il racconto di Edgar Bianchi in Procura inizia alle 14 di giovedì. «Ammetto i fatti». Una confessione. La vittima che lui definisce «ragazza» ha 12 anni. L’ha aggredita alle 13.30 di mercoledì, mentre rientrava dopo la scuola. Il verbale di Bianchi, 39 anni (8 passati in carcere per 20 violenze sessuali a Genova tra 2004 e 2006), si chiude in venti minuti. «Ho preso l’ascensore. Sono salito, non sapevo dove abitava». L’ha trovata davanti a un portone. «L’ho presa alle spalle, si vedeva che era terrorizzata». Poi l’ultima affermazione: «Ho bisogno di essere curato».
Bianchi si è costituito, accompagnato dal suo legale. Il motivo di questa scelta sta in un’immagine ripresa dalle telecamere della metropolitana (e pubblicata in questa pagina). È stata la svolta, a meno di 24 ore dalla violenza: giovedì mattina due agenti della Polmetro iniziano a scandagliare i filmati della fermata «Segesta», in zona San Siro. Si concentrano sul giorno prima. Sono poliziotti esperti, che ogni giorno hanno a che fare con scippatori e molestatori sui treni, conoscono facce e territorio. Individuano l’uomo col «tutore alla gamba sinistra» descritto dalla vittima. Lo vedono passare i tornelli con un abbonamento alle 9.44. «Estraggono» i nomi e li inseriscono nelle loro banche dati: quello di Edgar Bianchi restituisce il suo passato criminale. E così a quel fotogramma anonimo si collegano un’identità, una storia, e soprattutto un indirizzo. Pochi minuti e gli uomini della Polmetro sono sotto quel palazzo. Poi arrivano un centinaio di altri poliziotti.
Bianchi però da qualche mese s’è spostato, e ora abita a un paio di strade di distanza, al civico 5 di via Albertinelli, dove convive con la sua ragazza, figlia della custode. Ed è proprio questa donna che rischia di far saltare la cattura: vede la polizia nel quartiere e chiama suo «genero», lasciandogli intendere che lo stanno cercando. A quel punto Bianchi potrebbe scappare (ma deciderà di costituirsi). Su quella telefonata stanno ora riflettendo gli inquirenti, valutando l’ipotesi di un «favoreggiamento» (la donna sostiene di aver chiamato in «buona fede»). In quella casa di via Albertinelli, alle 3 di ieri notte, è arrivata la tipica vendetta degli ambienti malavitosi contro i pedofili: qualcuno ha buttato benzina e ha incendiato la porta dell’appartamento.
Gli investigatori della quarta sezione della Squadra mobile lavorano su una decina di casi sospetti, tra molestie, violenze e tentate violenze, potenzialmente collegabili a Bianchi su Milano. Un lavoro di comparazione con vecchie denunce, testimonianze, filmati, tabulati telefonici, Dna.
Corriere 30.9.17
Terapie in cella e controlli medici dopo la scarcerazione
Come impedire che colpiscano ancora
di Luigi Ferrarella
Il problema è «scongelarli». Nel senso che alcuni degli autori di reati sessuali li si può anche tenere in carcere 5, 10, 15 anni, ma poi all’uscita — se in carcere sono stati soltanto rinchiusi — spesso torneranno a commettere quei reati: e i criminologi dell’equipe di Paolo Giulini, che dal 2005 conduce nel carcere milanese di Bollate uno dei pochissimi esperimenti italiani di specifico trattamento terapeutico dei cosiddetti sex offenders, parlano proprio di «ibernazione penitenziaria» perché questi condannati, «se quando entrano in carcere non vengono trattati, non prendono coscienza del reato commesso, restano congelati, e quando escono riproducono quei meccanismi psicopatologici che sono alla base dei loro atti» di stupro, molestie, pedopornografia .
La scelta della Francia
L’ordinario supporto riabilitativo che il carcere offre già poco o per nulla ai detenuti ordinari, magari con un solo psicologo per centinaia di detenuti, a maggior ragione non incide su individui spesso connotati da disturbi della personalità, incapaci di mettersi nei panni degli altri e percepirne la sofferenza inflitta, o essi stessi abusati da piccoli in un caso su cinque. Ci sono Paesi, come la Francia, dove dal ’98 il giudice, dopo l’espiazione della pena, impone all’autore di reati sessuali di seguire un periodo (da 2 a 5 anni) di «controllo medico-socio-giudiziario»: se non vi si sottopone, scatta un reato autonomo che determina un’altra condanna.
Le sedute con i familiari
Dal 2005 Giulini, con il Centro italiano per la promozione della mediazione, e d’intesa con il Presidio criminologico territoriale del Comune di Milano, a Bollate prova invece far usare ai condannati il tempo della pena, anziché farlo solo scorrere in attesa del ritorno in libertà: in modo che quel tempo serva al detenuto — su base volontaria — per assumere la responsabilità, e prima ancora la coscienza, di ciò che ha fatto. Dopo tre mesi di osservazione, il detenuto firma un contratto simbolico con l’équipe per impegnarsi a un anno di trattamento, con quattro sedute settimanali, e una bisettimanale anche con i familiari.
È un lavoro complicato, per nulla scontato, a volte crudo (intuibile guardando le riprese del film «Un altro me» realizzato nel 2016 da Claudio Casazza e premiato alla 57esima edizione del Festival dei popoli di Firenze): a cominciare dalla rimozione delle negazioni dietro le quali il sex offender si trincera, e cioè la negazione di quanto ha commesso, della propria consapevolezza, del dolore della vittima, della progettualità, della sessualità, e naturalmente la negazione di tutte queste negazioni. Oltre che sui disturbi della personalità, il lavoro si concentra sulle distorsioni cognitive che permettono agli autori di reati sessuali di sopportare nella propria psiche ciò che infliggono alle vittime. Tutte dinamiche che l’evocazione della castrazione chimica non coglie per nulla, e non solo per la scientificamente non dimostrata relazione tra riduzione del testosterone e riduzione della libido: i sex offenders appaiono non tanto persone che praticano una modalità aggressiva di esprimere la sessualità, quanto soggetti che canalizzano sulla dimensione sessuale il loro esprimere aggressività e volontà di annullare la vittima.
Esperienze isolate
«È triste che se ne parli solo quando ricapita uno di questi fatti — commenta amaramente Giulini —, si dovrebbe invece pensarci prima e fare sistema ed estendere quelle che oggi sono esperienze isolate»: Bollate appunto, poi due anni di esperimento a Rebibbia (ma il finanziamento è finito proprio adesso), qualcosa a Piacenza, in futuro Pavia. Eppure l’Italia ha in teoria recepito l’articolo 13-bis della Convenzione di Lanzarote, che ad esempio pone a carico degli Stati la necessità di uno specifico trattamento psicologico per i condannati per sfruttamento sessuale dei minori. E soprattutto i risultati una strada indicano: in 12 anni, su 248 condannati trattati in carcere dall’équipe di Giulini, 8 hanno ricommesso un reato sessuale. E se da 3 anni anche gli imputati (prima ancora delle sentenze) possono chiedere di essere trattati, qui i casi di recidiva sono sinora 3 su 350.
Il Fatto 30.9.17
Pensando all’immigrato ignoto trattenuto in Libia
di Furio Colombo
Caro Furio Colombo, bloccati nel deserto o in Libia. E poi?
Marcello
Non so rispondere e non credo che nessuno saprebbe rispondere. I campi di concentramento sono sempre peggio di una prigione perché non hanno regole e sono governati dall’arbitrarietà e dall’improvvisazione, di solito crudele. Una grande concentrazione di esseri umani senza leggi e senza diritti diventa rapidamente un fardello insopportabile per il Paese e il territorio in cui è stato impiantato il campo, e la voglia di eliminare diventa grandissima.
Tutto ciò che è facile diventa irresistibile e l’umanità che si ammassa in Libia (meglio, nelle Libie) mentre parliamo, cresce in fretta.
Il profugo che arriva (arrivava) in Italia (e che, come è già stato osservato, non era mai clandestino, perché il suo arrivo era sempre pubblico, fra militari, polizia, volontari e telecamere). Il profugo che arriva in Libia, invece, non è mai arrivato. Ovvero arriva in una Libia cieca, frantumata, divisa in tribù, governi inesistenti, governi autoproclamati, soggetti a diverse protezioni, che significa diversi ordini, militari, politici.
E una mancanza diffusa di moralità, nel senso semplice e diretto di stuprare, torturare, uccidere. Per esempio, gli assassini di Regeni, che sono i padrini di Haftar, fanno sapere che gli interessi energetici italiani in Egitto e quelli dell’Eni in Libia non sono in pericolo. Fanno anche sapere che la migliore garanzia sono rapporti amichevoli dell’Italia, cioè il nostro atteggiamento di pagatore subordinato, come nelle rapine e nei ricatti. Se gli assassini di Regeni ritengono che non giovi alle nostre relazioni sapere di più del tremendo omicidio di un italiano di quel livello (e a noi sta bene) certamente non saranno del parere che giovi alle nostre relazioni rendere conto degli immigrati ignoti, fossero anche decine di migliaia.
Haftar è appena stato a Roma (su invito) e ha certo fatto presente il costo della vita. E non sarebbe stato di buon gusto informarsi sul come sta, nella sua zona, l’umanità catturata che credeva di andare in Europa. Al Serraj, il presidente di Tripoli, riconosciuto dal mondo e dall’Onu (ma non da Tripoli), ha ancora meno da dire, perché non comanda nulla, non può uscire dal bunker e non ha truppe. I “Servizi” di almeno otto Paesi che gli attraversano la regione certo non riferiscono a lui. E lui avrà appaltato a organizzazioni carcerarie più affidabili delle Ong che si aggiravano in mare col pretesto di salvare. Ma qui non ci sarà un poliziotto armato a vigilare sul traffico di esseri umani.
Qui gli scafisti sono diventati gli appaltatori, come ci dice un editoriale del New York Times International (26 settembre) dal titolo “Come gli italiani si sono accordati per liberarsi dei migranti”. E spiegano trattative e pagamenti che, giustamente, dice l’editorialista, si trasformeranno in armi per gli eserciti locali. La storia, come vedete, è un film di 007 con finale rovesciato: non ci sono più le Ong, non ci sono più (non si vedono) gli immigrati, né vivi né morti, gli scafisti esercitano la professione di appaltatori e tenutari di carceri. E il mare è vuoto.
Il Fatto 30.9.17
Il prete pedofilo scappa in taxi e va a Milano
Don Conti sconta 14 anni per abusi su 7 minori, ricompare in clinica dove dicono che non può andare in carcere
Il prete pedofilo scappa in taxi e va a Milano
di Angela Camuso
Se l’è svignata in taxi dalla clinica psichiatrica dov’era ai domiciliari, immediatamente dopo aver saputo che sarebbe dovuto tornare in carcere. Una strana fuga quella del prete pedofilo don Ruggero Conti, ex parroco di periferia a Roma, all’epoca dei fatti – tra il 1998 e il 2008 – influente in Curia e poi nominato garante delle politiche della famiglia dall’allora sindaco della Capitale Gianni Alemanno. La pena per don Conti, 63 anni, era diventata definitiva nel 2015: 14 anni e 2 mesi per aver violentato 7 adolescenti anche se poi, fatti i calcoli, don Conti ha trascorso appena due anni dietro le sbarre, perché il tribunale di sorveglianza di Milano gli ha ripetutamente concesso i domiciliari in clinica per incompatibilità con il regime carcerario, in quanto il prete risultava “depresso”.
Questo fino allo scorso lunedì, quando un altro tribunale di sorveglianza, quello di Roma, ha deciso di rimandarlo in prigione. L’ordine di carcerazione viene notificato a don Conti il giorno dopo. Ed ecco il colpo di scena. Quando i carabinieri il 26 settembre vanno alla Von Siebenthal di Genzano, alle porte di Roma, del paziente non c’è traccia. E così iniziano le ricerche, finché ieri il prete ricompare in un’altra clinica ma a Milano, Villa Turro, struttura del San Raffaele. Intanto il suo avvocato racconta i retroscena della fuga, che si tingono di giallo.
“Don Ruggero se ne è andato perché voleva costituirsi al carcere di Milano, per stare vicino alla sua famiglia, ma poi si è sentito male e si è presentato al pronto soccorso – spiega il legale Alessandro De Angelis –. È stato denunciato per evasione, sì, ma non è affatto sparito”.
I carabinieri, saputa la notizia dai legali dello stesso evaso, si sono dunque presentati ieri a Villa Turro per condurre don Ruggero in galera. Ma neanche stavolta hanno potuto farlo, perché le condizioni di salute attuali del sacerdote, secondo i medici, non sono compatibili con il regime carcerario “alla luce – recita il referto – di una deficitaria performance cognitiva che mette a rischio il paziente di condotte auto lesive”. Deve scontare undici anni.
Adesso, visto che il prete è lì ricoverato, dovrà pronunciarsi il Tribunale di sorveglianza di Milano, lo stesso che negli anni passati aveva concesso a don Conti i domiciliari. Resta il mistero su come il condannato abbia potuto farsi carico delle spese astronomiche di un taxi da Roma a Milano visto che risulta nullatenente al punto tale che le vittime non hanno finora ottenuto un euro di risarcimento. “ Sono disgustato” è l’unico commento di uno dei ragazzi stuprati, che all’epoca aveva 14 anni.
Il Sole 30.9.17
Vaticano
Pedofilia, dal Canada mandato di arresto per monsignor Capella
La polizia canadese ha emesso un mandato di arresto nei confronti del diplomatico della Santa Sede mons. Carlo Alberto Capella,che si trova in Vaticano dove è già indagato in un’indagine per pedopornografia dopo essere stato richiamato da Washington a inizio mese. La polizia di Windsor lo accusa di possesso e distribuzione di materiale pedopornografico, scaricato durante un soggiorno che il prete ha fatto in Canada tra il 24 e il 27 dicembre usando un «indirizzo di un computer in una chiesa locale». Per ora il prelato rimane ai “domiciliari” Oltretevere, in attesa che vengano fornite le prove dell’accusa fatta dalla polizia canadese.
La Stampa 30.9.17
Un’immigrazione regolata è possibile
di Vladimiro Zagrebelsky
Non ha ricevuto l’attenzione che merita il Piano nazionale d’integrazione degli stranieri titolari di protezione internazionale, presentato nei giorni scorsi dal ministro Minniti. Eppure, sia per il contenuto, sia per il quadro politico in cui si inserisce, è un documento di grande importanza e di sistema. Si può aggiungere, per chi non ama il burocratese, che la premessa al Piano è un bel testo da leggere, espressivo di consapevolezza culturale e civile per i valori costituzionali rilevanti per l’integrazione dei rifugiati.
Il piano riguarda poco più di duecentomila persone, tra titolari del permesso di soggiorno perché riconosciuti rifugiati o ammessi a protezione umanitaria, minori non accompagnati o persone in attesa della decisione sulla loro richiesta di asilo. Accanto all’illustrazione del valore e della necessità d’integrazione sociale, il piano ha il pregio di essere sufficientemente dettagliato per poter essere effettivamente messo in opera dall’amministrazione pubblica, regioni ed enti locali con il gran numero di iniziative del volontariato privato che opera nel settore. Un’attenzione speciale è riservata a donne e minori, la cui vulnerabilità richiede una protezione particolare.
Il percorso d’integrazione si svolge su diversi terreni: lingua, istruzione, lavoro, accesso all’assistenza sanitaria, abitazione, vita di famiglia con il ricongiungimento. Il processo d’integrazione riguarda insieme i nuovi venuti e la società che accoglie, cosicché il piano prevede anche un’opera di comunicazione, informazione, sensibilizzazione e contrasto alle discriminazioni. Una parte rilevante degli stranieri che il piano considera è di religione e cultura islamica; il dialogo interreligioso nel quadro del Patto nazionale per un Islam italiano è quindi una condizione indispensabile per l’integrazione. La vastità del piano può renderne gravosa la realizzazione, ma una semplificazione ne decreterebbe l’insuccesso. Il piano ha cura di indicare i necessari finanziamenti, prevalentemente provenienti dall’Unione europea, che proprio in questi giorni li ha aumentati nella stessa linea politica di cui il Piano nazionale è espressione.
Così sintetizzato il contenuto del piano, merita tornare sul fatto che esso riguarda una parte soltanto degli stranieri extra-comunitari giunti in Italia: si tratta delle persone che hanno diritto alla qualifica di rifugiati (o categorie assimilate) e alla conseguente accoglienza e protezione, come stabilito dalla Costituzione, dalle Convenzioni internazionali e dalle leggi nazionali. Resta fuori dal piano il gran numero di immigrati irregolari, che certo per il solo fatto di venire a trovarsi sul territorio nazionale debbono essere assistiti nelle loro necessità essenziali e garantiti nei loro diritti umani, ma non sono assimilabili ai rifugiati. È fonte di equivoco l’abitudine di parlare indifferentemente di migranti e di rifugiati.
Il Piano assume un significato particolare se lo si colloca accanto all’azione governativa di contrasto all’immigrazione irregolare, con gli accordi libici. La regolamentazione di quest’ultima appartiene al governo, tenuto a controllare i confini italiani, che sono anche confini dell’Unione europea. Un arrivo indiscriminato, fuori del caso dei rifugiati, non può tradursi nell’abbandono di quelle persone a condizioni di vita indecenti e al crescere di sensazioni di insicurezza nelle fasce più esposte dell’opinione pubblica. Oltre alla sua disumanità la situazione che è sotto gli occhi di tutti è anche pericolosa, come è stato detto, per la capacità che ha di suscitare sentimenti discriminatori, xenofobi e, in ultima analisi, antidemocratici.
Dunque la distinzione tra rifugiati o ammessi alla protezione umanitaria, da una parte e migranti irregolari dall’altra è indispensabile, oltre che fondata sul diritto internazionale. Ciò non vuol dire che si debba chiudere ogni accesso a chi non è riconosciuto come rifugiato. È noto che l’Italia (a crescita demografica negativa) e l’Europa hanno bisogno di immigrazione. Vanno previste forme di ammissione legali, che sostituiscano gli sbarchi illegali e assicurino la sostenibilità degli arrivi. Un’iniziativa legislativa popolare è ora promossa in questo senso da Emma Bonino e da organizzazioni radicali. Essa merita di essere appoggiata perché governo e parlamento ne facciano oggetto di discussione. Poiché accanto alla protezione dei rifugiati e all’impedimento degli arrivi illegali, occorre aprire vie garantite di un’immigrazione regolata.
il manifesto 30.9.17
Anna Falcone
Mdp deve smetterla di pensare al Pd
Alcuni dirigenti di Articolo 1 pensano a riprendersi il partito che gli è stato sfilato da Renzi. La base invece vuole un nuovo soggetto unitario. In questo fine settimana oltre 100 piazze per il programma, poi le proposte le voteremo sul nostro sito
intervista di Daniela Preziosi
Avvocata Anna Falcone, per voi autoconvocati del Brancaccio il presidente del Senato Grasso sarebbe un leader della sinistra più gradito di Giuliano Pisapia?
Penso tutto il bene possibile di Grasso, è persona di grande competenza che ha interpretato benissimo il suo ruolo. Ma insisto sul metodo: noi facciamo un percorso che è l’esatto opposto delle pratiche che allontanano le persone dalla politica, fra cui quella di scegliere prima il ’capo’ del programma. Quindi andiamo avanti e non entriamo nel dibattito sulle leadership.
Il vostro ’percorso’ a che punto è?
Facciamo assemblee in tutta Italia, con coordinamenti ma senza strutture gerarchiche, al massimo chi vuole si dà un portavoce. Vogliamo costruire un programma mettendo insieme cittadini, partiti, realtà locali. L’assemblea del 18 giugno ha indicato dieci priorità. La prima è il lavoro, a seguire lo stato sociale e i diritti negati. Questo week end sarà quello delle «100 piazze per il programma», anche se le iniziative sono partite da giovedì e altre si terranno nel mese di ottobre. Saranno molto più di cento. C’è molto entusiasmo.
Queste assemblee cosa producono?
Ogni assemblea si occupa di uno o più temi e produce un report con le soluzioni ai problemi scelti, dalla tutela del lavoro alla riconversione energetica o all’intervento dello stato nell’economia, la pace, l’immigrazione, la lotta al terrorismo. I report verranno sintetizzati in 5/6 punti. Le proposte saranno caricate sul nostro sito. Gli utenti registrati sceglieranno, quelle che avranno maggiore consenso entreranno nel programma.
Con un click? Il pasticcio della piattaforma digitale dei 5 Stelle non vi pone dubbi sul metodo?
Noi non chiediamo un click su idee precostituite. Chiediamo idee e le mettiamo a confronto.
Se foste in parlamento votereste il Rosatellum?
No. Chiediamo la cancellazione dei capilista bloccati, e il Rosatellum non fa che aumentare i posti bloccati attraverso i collegi uninominali.
Invece i vostri eventuali candidati come li sceglierete?
Chiedendo ai comitati di garantire la libertà di candidatura, in ciascun collegio ogni gruppo sceglierà con il voto i propri. Torno alla legge elettorale: mai come adesso c’è bisogno di proporzionale, anche con uno sbarramento alto che consenta l’unione di forze omogenee, come succede nel sistema tedesco, un paese che non è certo preda di governi balneari.
Ma la Germania è governata da decenni da ’grosse koalition’. Le larghe intese sono il vostro modello di governo?
Non necessariamente. E in un sistema quadripolare come il nostro non è una scelta obbligatoria. In ogni caso è bene che l’accordo si raggiunga in parlamento sulla base di programmi. E che sia votato dal parlamento: le forze politiche debbono prendersi un impegno davanti al loro elettorato.
È già così: il governo deve avere la fiducia del parlamento sulla base di un programma.
Ma non accade mai. Se si utilizzano tanti voti di fiducia è perché le forze di maggioranza esercitano un ricatto sui governi. Serietà vorrebbe che quando si vota un programma di governo si resti vincolati ad esso. La legge sullo ius soli è la dimostrazione del fatto che ora non succede. Con il paradosso che hanno messo la fiducia su qualsiasi cosa, e adesso non la mettono sullo ius soli.
Il Pd è non una ma ben tre destre, come dice il professore Tomaso Montanari?
Il Pd è una destra edulcorata, quella dei partiti socialdemocratici di tutta Europa che hanno rincorso le destre razziste e il neoliberismo. Non è un caso che ovunque crollino. Tranne in Portogallo, nella Grecia di Tsipras, in Podemos spagnolo, e soprattutto nella Gran Bretagna, dove il laburista Corbyn fa un discorso netto e coraggioso. Ha capito che la sinistra non può che abbandonare la Terza via e non cedere ai compromessi con il neoliberismo. Noi cerchiamo di seguire la stessa linea di coraggio, coerenza e buon senso, contro tutte le riforme che hanno distrutto stato sociale e diritti e che hanno provato a distruggere le Costituzioni, baluardo dei diritti. L’attuazione della Costituzione è il nostro programma.
Vi definireste socialisti, o anticapitalisti?
Siamo cittadini liberi di una sinistra che vogliamo costruire, che faccia tesoro del suo passato ma che si proietti nel futuro. L’identità della sinistra è la capacità di ascoltare e rappresentare le persone, e di affrontare i problemi democratici. Crediamo in un modello economico pluralista in cui lo stato abbia un ruolo economico e di garante dei diritti fondamentali.
Fosse barcellonese, voterebbe il referendum catalano dichiarato fuori dalla Costituzione spagnola?
Ogni popolo deve potersi autodeterminare ma il referendum deve essere fatto dentro un contesto costituzionale.
La lista unitaria della sinistra è al palo?
Sono fiduciosa che si possa fare fra chi condivide un orizzonte e un metodo democratico. Non si può allargare a chi ha obiettivi legittimamente diversi, che però non sono quelli che ci chiedono i cittadini delusi dalla sinistra.
Incompatibili con Pisapia ma sì a Mdp?
Io partecipo alle feste di Mdp dove la base chiede persino un soggetto politico unitario a sinistra. Dare un segnale di serietà è fondamentale, la sinistra non può andare avanti con una miriade di sigle. Ma Mdp deve risolvere un problema fra la base e un pezzo dei dirigenti. Alcuni vogliono riprendersi il Pd che è stato sfilato loro da Renzi. Bisogna volare più alto. Solo così possiamo riportare a sinistra i delusi e quelli che votano 5Stelle per protesta.
Le piace come è stata scelta la premiership di Di Maio?
Credo sia stata una delusione per tanti iscritti e votanti 5 Stelle. Le leadership imposte dall’alto o votate da una manciata di iscritti sono artificiali. I 5 Stelle sono caduti nella mitologia del capo, dovevano iniziare da un programma innovativo.
Mai con il Pd. Ma con i 5 Stelle?
Di Maio non è certo una persona che proviene da una cultura di sinistra, ma bisognerà vedere il programma e la linea che prevarrà. I programmi si fanno prima, le alleanze si fanno dopo. È evidente che non si può governare con chi ha un’idea di paese opposta. E del Pd lo sappiamo già, ha realizzato una serie di riforme che vanno agli antipodi del nostro programma.
il manifesto 30.9.17
Mdp si scalda per Grasso
Sinistra. Il presidente del Senato è presentato dai bersaniani come un possibile leader alternativo a Pisapia, nel caso l'unione tra Articolo-1 e Campo progressista non si faccia alle loro condizioni. Cioè includendo Sinistra italiana e "quelli del Brancaccio"
di Daniela Preziosi
«Grasso non è una new entry, è personalità cui siamo legati ma è il presidente del Senato e sarebbe stato una scorrettezza tirarlo in ballo in beghe di partito». Ci pensa Massimo D’Alema, arrivando a Napoli alla festa di Mpd, a rimettere in ordine le posate a tavola. Pietro Grasso è la seconda carica dello stato, e i titoli dei giornali che parlano di un’offerta di Mdp politicamente molto impegnativa, e cioè la leadership della lista unitaria della sinistra, è un po’ una sgrammaticatura prima istituzionale, e semmai poi politica. «Abbiamo affidato a Pisapia il compito di guidare questa fase di costruzione politica di una nuova soggettività a sinistra», conclude.
Eppure la maniera in cui il presidente del senato giovedì sera si è presentato nel cortile di Santa Chiara, a piazza del Gesù, camicia e scarpe sportive versione assai poco istituzionale, ha lusingato non poco Pier Luigi Bersani, che si è seduto in prima fila ad ascoltarlo. Fra l’ex segretario Pd e l’ex magistrato c’è stima da sempre, stima da cui è nata la candidatura nelle liste Pd e poi al più alto scranno di Palazzo Madama. «Grasso non è un piano B per noi», si spiega da Napoli. «Non lo è perché aspettiamo Pisapia per la chiusura della festa, e non lo è perché, nel caso, una personalità come lui non sarebbe un piano B, sarebbe un piano A». Nessuno, si giura, sta pensando ad un’alternativa a Pisapia nel caso in cui l’ex sindaco di Milano decidesse di separare il suo percorso dalla Ditta Bersani&D’Alema.
Eppure, a giudicare dal malumore di alcuni degli uomini vicini all’ex sindaco, il messaggio comunque è arrivato. Chiaro e forte. Mdp preme per stringere i bulloni della lista unitaria, ma alle proprie condizioni. E cioè includendo nella compagnia anche la sinistra-sinistra di Nicola Fratoianni e il movimento di Montanari&Falcone, ’quelli del Brancaccio’. In caso di rottura fra Pisapia e Mdp dunque ci sarebbero alternative valide per la leadership. Non la presidente della Camera Laura Boldrini, una donna (non guasterebbe in un gruppo dirigente praticamente monogenere): è papabile, ma è troppo vicina all’ex sindaco. Sì invece al presidente del senato. Che del resto negli ultimi tempi è molto in freddo con il Pd. Lo dimostra il recente battibecco con Matteo Orfini. Naturalmente lui con i suoi smentisce qualsiasi intenzione, per ora: «Fino a quando Mattarella non scioglie le Camere non mi candido a nulla. Ma certo gli applausi di Mdp e Sinistra italiana sui temi di sinistra che difendo mi fanno piacere». Quanto al Pd, «non mi difende dagli attacchi. In Sicilia mi volevano tutti candidato, ora sono tutti freddi e lontani».
Tant’è che il ministro Andrea Orlando nel pomeriggio dalla festa di Dems, la sua corrente, a Rimini, prova a riparare: «Credo che sia difficile non ricandidare il presidente del Senato uscente. Capisco che siamo in una fase nuova dove l’innovazione campeggia, ma mi sembra assurdo».
Intanto l’ipotesi Grasso incassa un’accoglienza positiva da parte di Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana e ormai stanco dei tentennamenti dell’avvocato: «È un’importante personalità di questo Paese, penso che sia davvero un uomo di sinistra. E credo anche che in quest’Italia nella quale settori della classe politica da troppi anni sono contrassegnati dai fenomeni di corruzione o peggio, una figura come la sua sia un punto di riferimento importante». Grasso è stimato anche dall’area del Brancaccio, che pure si professa intollerante nei confronti delle leadership calate dall’alto. Insomma, Grasso raccoglie consensi nella sinistra-sinistra, quella sinistra che maltollera Pisapia, ampiamente ricambiata.
L’ex sindaco tace. Campo progressista batte un clpo comunicando le date delle prossime assemblee: sabato 7 a Roma e Torino, sabato 21 a Bari e Genova. In mezzo, sabato 14 ottobre, la riunione nazionale del movimento al teatro Ambra Jovinelli di Roma. Quanto a domenica pomeriggio a Napoli, per la chiusura della festa di Mdp, a chi gli chiede di pensarci bene risponde con insolita determinazione. Ha dato la sua parola e onorerà la promessa.
Il Fatto 30.9.17
“La lobby Pd-grandi giornali vuole staccare Pisapia da Mdp”
Le accuse di Massimo D’Alema
di Fabrizio d’Esposito
Stampa di regime. Colpisce sentire Massimo D’Alema, tra i pionieri della nuova sinistra alternativa al Pd, parlare di “stampa di regime”. Con chi ce l’ha? Il cronista del Fatto è con lui a Bologna. Ai confini del mitico Parco Nord, sede delle feste dell’Unità. Sullo sfondo, alcuni operai smontano stand. Dice Vladimiro: “Con loro noi non abbiamo nulla a che fare, non ci hanno invitato”. Noi, loro e Bologna la rossa. “Noi di Articolo 1”. “Loro del Pd”. L’Estragon è una grande discoteca. Ai confini con il Parco Nord, appunto. È qui che si tiene la prima festa di Articolo 1 – Mdp a Bologna. Apre Massimo D’Alema, che arriva direttamente da Bruxelles. “Il cuore dell’Europa? Ammesso che l’Europa abbia un cuore”. Prima risata a mo’ di ovazione. Applausi, tantissimi. “La sinistra emiliana è abituata a un certo conformismo, a stare dalla parte dei capi. Ho incontrato un compagno, mi dice: ‘Sono iscritto al partito dal 1956’. Gli ho spiegato che quel partito ha cessato di esistere da molti anni. Una parte importante del nostro popolo ormai se ne sta a casa, non va a votare. Qui alle ultime regionali abbiamo perso 600mila elettori. Quando posi questo problema e nessuno rispose mi resi contro che il Pd non era più il nostro mondo”.
Arriva, D’Alema, e il primo giro è nel solco della tradizione. Le cucine. Le volontarie e i volontari. Tagliatelle, tortelloni, salsiccia, costolette e pollo. Alcune centinaia di persone. Prima di salire sul palco, selfie e strette di mano. “Massimo, nel 1978 tu eri segretario nazionale della Fgci e sei stato a casa mia”. Almeno qui, il carisma dell’ex premier non è divisivo. Altra storia sui giornali. Meglio su certi giornali.
L’altro giorno, giovedì, i quotidiani erano pieni di sfoghi e retroscena su un’intervista dalemiana al Corriere della Sera. Il tormentone Pisapia – potenziale leader di questa sinistra – che a sua volta ne genera altri, come quello del rapporto con il Pd renziano e la conseguente formazione di un nuovo centrosinistra. Finanche il centrista Tabacci, sodale dell’ex sindaco di Milano nel Campo Progressista, ha voce in capitolo: “D’Alema deve stare a distanza di sicurezza”. Ricapitolando: il Pd, Campo Progressista, Articolo 1, l’ossessione per D’Alema di renziani e antirenziani. L’incipit è dalemismo puro. Il noto sarcasmo che fa partire altri applausi e altre risate: “Tabacci? Ma io non ho mai cercato di avvicinarmi a Tabacci”.
Il tono ritorna serio: “La verità è che si attribuiscono a Pisapia retroscena e virgolettati che lui regolarmente smentisce. Parliamoci chiaro, senza infingimenti. Il Pd conduce una campagna per creare una frattura tra noi e Pisapia. L’obiettivo è questo. E siccome il Pd ha il potere e ha un buon rapporto con diversi imprenditori cui ha fatto parecchi favori e questi imprenditori sono anche proprietari di giornali, diciamo, questa campagna per staccare Pisapia da noi è sostenuta da questi mezzi d’informazione per rendere un servizio a Renzi. Ma è una campagna politica”.
D’Alema non cita testate e non fa nomi. Ma il riferimento è chiarissimo. Il bersaglio della sua invettiva è il nuovo colosso di Stampubblica, Stampa più Repubblica, Agnelli/Elkann più Carlo De Benedetti. Ergo la versione dalemiana su Pisapia è questa: “Sono diventato buono e voglio parlare con le parole di una persona notoriamente buona come Pisapia”. Cosa dice, dunque, l’ex sindaco di Milano? “Pisapia ha detto che lui sta lavorando a una forza politica alternativa al Pd. Vuole ricostruire il centrosinistra in radicale discontinuità con questo Pd, in merito a contenuti e leadership. Questo è lo stato degli atti. Non sono parole di D’Alema il cattivo, ma di Pisapia il buono. Poi se questa legge demenziale del Rosatellum passerà, noi saremo costretti a presentare i nostri candidati in tutti i collegi”. Mentre D’Alema parla a Bologna, e parla di lavoro, immigrazione, tasse, del Pd “liberale” amico dei ricchi, giù al sud, a Napoli, c’è Pietro Grasso, alla festa nazionale di Articolo 1. Una sorta di investitura come nuovo leader? Finalmente è cominciato il post-Pisapia in questa parte del campo di sinistra? Può darsi, ma l’argomento sarà tabù ufficialmente ancora per un po’ di tempo.
In ogni caso, D’Alema precisa a modo suo: “Io sono solo un supporter di Articolo 1, non sto nella stanza dei bottoni, anche perché qualche volta in quella stanza avviene la guerra dei bottoni. Io sono un uomo politico e l’uomo politico deve cercare di prevedere la realtà futura con le sue diverse possibilità. E io, non avendo un compito operativo ma solo di supporto, ho più tempo per pensare”.
Corriere 30.9.17
Gentiloni, la Finanziaria e la tregua armata con Mdp
di Francesco Verderami
Non era così che Gentiloni confidava di arrivare all’atto finale (e fondamentale) della legislatura. Invece l’esame della legge di Bilancio si svolgerà in un clima arroventato da derby a sinistra che preoccupa il premier. Ma anche il Colle.
Nel mezzo dello scontro tra Pd e Mdp sulla legge elettorale, con lo Ius soli che divide i Democratici tra i fautori del dialogo con gli scissionisti e quanti vorrebbero chiudere i conti con gli ex compagni di strada, la prossima settimana al Senato si terrà una votazione che — andasse storta — avrebbe un costo politico elevato per i due partiti e un costo economico salato per il Paese. L’Aula di palazzo Madama dovrà esaminare la Relazione che accompagna il Def, e che — se approvata — consentirebbe al governo di diminuire la quota di riduzione strutturale del deficit, garantendo così una flessibilità di spesa che l’Europa dovrebbe poi avallare.
Ma per ottenere l’autorizzazione a sfruttare quel margine di dieci miliardi nella legge di Bilancio, Gentiloni avrà bisogno della maggioranza qualificata al Senato. E se nel corso della legislatura non è mai stato facile racimolare 161 voti in quel ramo del Parlamento, ancor più complicato sarà centrare l’obiettivo in una «fase schizofrenica» — come la definisce il premier — dove oltre l’umore dei singoli senatori, stressati per il loro destino personale, andrà valutato anche l’atteggiamento di Mdp: senza il suo appoggio, il governo andrebbe sotto.
Perciò la scorsa settimana — quando per rappresaglia contro il Rosatellum D’Alema disse ai suoi compagni che «noi dovremmo votare contro» — era scattato l’allarme rosso. E non solo a palazzo Chigi. L’idea che un braccio di ferro politico possa provocare un danno al Paese, aveva indotto il Colle a muoversi, richiamando le parti in conflitto alla «ragionevolezza» e al «senso di responsabilità». È un fatto che pochi giorni dopo lo stesso D’Alema, nell’intervista al Corriere, ha precisato che «noi non vogliamo la Trojka in Italia». E ancora l’altra sera l’ex premier ha ribadito che «Mdp sostiene il governo. E il nostro voto è determinante al Senato».
Appunto. Senza quel voto l’esecutivo entrerebbe di fatto in crisi, e pure se restasse in carica sarebbe costretto a una legge di Bilancio draconiana. Per di più scatterebbero le clausole di salvaguardia firmate dai governi precedenti con l’Europa: vere e proprie cambiali che porterebbero dal primo gennaio all’aumento dell’Iva e delle accise, per un ammontare di oltre quindici miliardi. Un’eventualità che il mondo produttivo e quello sindacale vorrebbero scongiurare. Una prospettiva che avrebbe un costo politico anche per Mdp, sospinto verso una deriva radicale con l’accusa peraltro di aver provocato una Finanziaria di stampo rigorista, in linea con il blocco conservatore europeo.
Per tutte queste ragioni l’area vicina a Bersani — a cui si rifà gran parte del gruppo scissionista al Senato — non vuole strappi con il governo sulla Relazione. Ma è solo una tregua armata in vista della legge di Bilancio, su cui Articolo 1 chiede di aver voce in capitolo da partito di maggioranza qual è. Ed è sul riconoscimento politico di Mdp che Gentiloni si trova sulla linea di fuoco tra chi mira a «de-renzizzare» il centro-sinistra e chi dall’altra parte punta a «bertinottizzare» gli ex compagni di partito, a isolarli per staccarli da Pisapia.
È una sfida che non sembra contemplare il pari. E infatti il muro dell’incomunicabilità invece di sgretolarsi continua ad alzarsi, se è vero quanto si raccontava ieri a Napoli, alla festa di Articolo 1, e cioè che alcuni ministri del Pd dopo aver accettato l’invito a partecipare ai dibattiti, avevano poi declinato, pressati dall’entourage del segretario. Che in effetti ha in Mdp il più acerrimo e scoperto avversario. Non è dunque casuale che a confermare l’appuntamento siano stati Franceschini e Delrio, come non è casuale il modo in cui il ministro delle Infrastrutture ha sconfessato la sottosegretaria Boschi sullo Ius soli, metafora dietro la quale si nasconde lo scontro tutto interno ai dem sulla necessità o meno di ripristinare un rapporto con gli scissionisti.
È in questo contesto che Gentiloni deve affrontare l’ultimo miglio di navigazione, con l’esigenza di tenere insieme i numeri della maggioranza e la volontà di non incrinare il rapporto con Renzi. Può darsi che le elezioni siciliane possano far cambiare lo scenario politico, ma nel frattempo c’è il delicatissimo voto al Senato e c’è la necessità di portare avanti in Parlamento la legge di Bilancio. Quando Bersani dice al premier che «dovete parlare anche con noi, non solo con Alfano», vuol far capire che non bastano più i contatti informali con i ministri né i segnali d’attenzione personali trasmessi da palazzo Chigi per via riservata. Ma siccome Mdp è nata in segno di discontinuità dalla linea renziana, il finale rischia di essere già scritto. Perciò Gentiloni è preoccupato. Perciò il Colle ha alzato uno scudo protettivo sul governo. E soprattutto sul Paese.
Francesco Verderami
Repubblica 30.9.17
Tra accordi e sondaggi riservati la sinistra cerca il leader perduto
La corte di Mdp al presidente del Senato riapre il risiko premiership fuori e dentro il Pd
Pisapia, Grasso o Boldrini
di Tommaso Ciriaco
ROMA. AAA leader cercasi. Sinistra divisa, sinistra senza una guida. O forse con troppi aspiranti capi, perché il corteggiamento di Mdp a Piero Grasso è l’ultima sfida dei bersaniani a Giuliano Pisapia. E a Laura Boldrini, l’altra carica istituzionale in campo per una nuova sinistra, ma sponda Campo progressista. Il tripudio riservato l’altro ieri al Presidente del Senato ha allarmato non poco i colonnelli dell’ex sindaco di Milano. È solo l’antipasto di una contesa destinata a riesplodere. Già la prossima settimana l’avvocato milanese fisserà paletti irrinunciabili ai soci del progetto, a partire da quello “scioglimento” in un unico contenitore senza il quale le strade si divideranno. «Io non voglio costruire una federazione di liste – è da sempre il senso dei suoi ragionamenti – ma un progetto di centrosinistra che guarda al modello dell’Ulivo».
Battaglia di leadership, battaglia di linea politica. Sono giorni di contatti e di sondaggi, per Pisapia. «Ho sentito Enrico Letta ha confidato l’altra sera l’ex sindaco di Milano - e ho visto Prodi due o tre volte». Deve agire, perché l’assalto al suo progetto è ormai obiettivo prioritario per i big di Mdp. Proprio il Professore, allora lo incoraggia a continuare nell’impresa di federatore: «Per tanto tempo ho tentato di mettere un po’ di colla al centrosinistra, senza grande successo. Bisogna insistere, come dicevano allo stadio di Bologna “Pivatelli insistisci”».
Grasso e la ricerca di un leader, si diceva. Bersani lo lusinga da tempo, convinto di avere in mano un jolly perfetto per danneggiare Matteo Renzi. Un piano B ideale, se dovesse fallire il matrimonio con Pisapia. Si capirà molto la prossima settimana, dopo un vertice tra Mdp e Campo progressista. E Massimo D’Alema? Predica cautela, prende tempo: «Grasso è una personalità cui siamo legati – premette -Però è il presidente del Senato e non lo tirerei dentro le beghe dei partiti».
Certo è che la popolarità dell’ex capo dell’Antimafia è alle stelle, da quelle parti. Niente a che vedere con Laura Boldrini, indicata spesso come candidata in pectore in eventuali primarie di coalizione. In questa fase sconta tra gli ex Ds il legame solido con Pisapia. Anche lei, domani, sarà ospite di Mdp. Messa in scaletta poco prima del gran finale della festa, pare non abbia del tutto gradito. A maggior ragione se si considera che lei, a differenza di Grasso, è già saldamente nel progetto. Se a sinistra è battaglia a viso aperto per la leadership, nel Pd è guerra fredda per conquistare il timone. Le regionali siciliane rischiano di far saltare il tappo. E Renzi, fiutata la trappola, si è messo in moto per schivare il ribaltone. Ha incontrato Dario Franceschini, dopo mesi di totale incomunicabilità. Si è confrontato con Andrea Orlando. Ha fatto pace con Angelino Alfano. E ha riaperto la partita della coalizione, riaccendendo le speranze di chi nel partito punta a un passo di lato del leader.
Un’alleanza di centrosinistra, in effetti, ha tra gli effetti collaterali quello di minare la guida solitaria di Renzi. Se vuole un patto con Alfano e Pisapia, deve concedere qualcosa. Lo sbocco naturale sarebbero primarie di coalizione. L’alternativa è restare segretario, concordando però una staffetta al vertice dell’alleanza. Ancora battaglia di leadership, anche a queste latitudini. Ma per far posto a chi?
La soluzione gradita in settori crescenti del Pd è quella di un bis Paolo Gentiloni, il centravanti di quella «squadra» che da un po’ di tempo Renzi invoca e promuove. L’altro contendente si chiama Marco Minniti. Ma dopo un’estate rovente e un paio di scontri pubblici, l’eventuale passaggio di consegne con il ministro dell’Interno garantirebbe scintille.
Repubblica 30.9.17
Aspettando Pisapia, l’impasse a sinistra del Pd
Il rapporto tra l’ex sindaco e Mdp è usurato
D’Alema e Bersani oppure Renzi? La svolta dopo il voto in Sicilia
di Stefano Folli
Non c’è dubbio che il rapporto fra Giuliano Pisapia e il gruppo uscito dal Pd, ossia ArticoloUno- Mdp, è usurato. Per sapere fino a che punto, basta aspettare domenica, quando l’ex sindaco di Milano parlerà alla festa di Napoli. Pisapia ha l’occasione di riprendere in mano il filo della matassa e trascinare gli astanti dalla sua parte, ma per riuscirci deve mettere in campo una determinazione di cui finora si sono visti solo labili indizi.
Non è colpa del fondatore di Campo progressista, a ben vedere, sulla cui serietà e onestà intellettuale tutti concordano. Non è sua colpa anche perché egli, in un certo senso, è sempre stato chiaro circa i suoi obiettivi. In realtà è il progetto politico che lascia a desiderare, aggrovigliato in troppe contraddizioni e condizionato dalla personalità dei protagonisti. Lo schema Pisapia prevede una sorta di confronto competitivo con il Pd, ma senza arrivare a rompere in modo irrimediabile (“non siamo alternativi, siamo per un centrosinistra più largo e incisivo”): soprattutto considera normale avere Renzi come interlocutore, non si pone come priorità la sconfitta politica del segretario del Pd.
Gli scissionisti, da D’Alema a Bersani a Speranza e altri, non possono accettarlo. Ed è logico. Essendo appena usciti dal Pd contro Renzi, perché mai dovrebbero sedersi di nuovo al tavolo con lui? Solo perché c’è Pisapia a rappresentarli? Con ogni evidenza, non basta. Quindi si è creata una divaricazione che non può ricomporsi senza un fatto nuovo. L’unico possibile, al quale tutti guardano, è il voto in Sicilia. Un Renzi indebolito gravemente da una sconfitta nelle urne costituisce il sogno non tanto segreto di Mdp. E alla fine anche a Pisapia converrebbe un segretario del Pd ridimensionato. Forse non è un caso che l’ex sindaco abbia evitato di impegnarsi nell’isola a favore della coalizione pro-Micari, come i renziani avrebbero voluto.
Dopo la Sicilia si potrebbero innescare delle dinamiche inedite, coinvolgendo la galassia alla sinistra del Pd in forme al momento non definibili o prevedibili. Del resto, è chiaro che Pisapia guarda anche alle manovre sulla legge elettorale. Se fallisse l’ultima, discutibile alchimia parlamentare - il cosiddetto “Rosatellum” -, come Mdp strenuamente auspica, si chiuderebbe lo spazio per qualsiasi alleanza pre-elettorale nell’ambito del centrosinistra. In caso contrario, Pisapia potrebbe essere attirato nell’orbita renziana, magari con la promessa di conservare una certa autonomia e, chissà, di partecipare a un nuovo giro di primarie.
Sono giochi politici che interessano poco al grande pubblico. Tuttavia un paio di dati certi sono sul tappeto. Il primo è che Pisapia soffre in modo vistoso la personalità di D’Alema e non vuole apparire il mero portavoce di uno schieramento in cui il leader occulto nonché vero stratega è l’ex premier. È una storia vecchia di mesi, ormai, ma non si è ancora risolta. Il secondo dato è la sostanziale indifferenza di Renzi. Se tenesse sul serio all’accordo con l’avvocato milanese, avrebbe potuto fare qualcosa di più per tendergli la mano e incoraggiare la visione di un centrosinistra “allargato e rinnovato”: qualunque cosa voglia dire questa formula. Invece il segretario non ha mai abbassato il ponte levatoio, facendo intendere che al massimo ci sono alcuni posti in lista per Pisapia e i suoi collaboratori più stretti. Niente di peggio del discorso sulle poltrone per irritare l’interlocutore, che ha sempre detto di non guardare alle candidature. È in questo clima che si prepara il discorso di Napoli. Le voci su Pietro Grasso come leader di Mdp nascono dall’incertezza. Al di là della piccola civetteria del presidente del Senato che si è dichiarato “un ragazzo di sinistra”, non c’è niente di concreto. Se non l’ansia di militanti e quadri che hanno bisogno di un personaggio rappresentativo per fare la campagna elettorale. Soprattutto se il disegno di federarsi dietro a Pisapia dovesse saltare, è necessario individuare in fretta un nome e un volto. La suggestione della “Linke” italiana è palpabile, ma non basta una sigla esterofila per riunire le forze sparse e andare oltre la soglia di sbarramento.
La Stampa 30.9.17
Le stelle del Pd
di Mattia Feltri
Il Parlamento, che su impulso del Pd tre giorni fa ha approvato il codice Antimafia, su impulso del Pd si appresta a rivedere il codice Antimafia. Pare si siano accorti di un problema: il codice prevede il sequestro preventivo dei beni (aziende, case, auto) agli indagati per corruzione. Non ai condannati, agli indagati. Accidenti che disdetta, su questa legge ci hanno lavorato quattro anni, e gli è cascato l’occhio proprio il giorno dopo averla chiusa. Sono cose che succedono: con quello che c’è da fare uno mica può stare lì ad ascoltare costituzionalisti, giuristi, magistrati, avvocati, che dicevano tutti la stessa cosa - La presunzione di innocenza! La Costituzione! - e per di più tutti assieme. Un caos. Ora non bastano neanche le rassicurazioni della presidente dell’Antimafia, Rosi Bindi: «E’ semplice, chi non riesce a dimostrare che le sue ricchezze sono frutto di attività lecite si vedrà privato di quei beni». Che ci vuole?, basta dimostrarlo. Perché aspettare che si dimostri la tua colpevolezza, come prevede la solita noiosa Costituzione, quando puoi dimostrare tu la tua innocenza? Tanto poi si è sempre in tempo a dar la colpa alle procure. Vabbè, ne approfittiamo per fare i complimenti ai vari Penati, Del Turco, Mastella e gli altri che sono appena stati assolti da accuse di corruzione per avere almeno conservato un tetto sulla testa, visto che il codice ancora non c’era. E per dare una volta ragione ai Cinque stelle: non sono loro che stanno diventando come il Pd, è il Pd che sta diventando come loro.
La Stampa 30.9.17
Le scorciatoie inaccettabili sulla corruzione
di Valerio Onida
La criminalità organizzata di «stampo mafioso», che nel nostro Paese ha una lunga storia purtroppo tutt’altro che esaurita,
richiede certamente, per essere combattuta efficacemente, speciali capacità e abilità investigative e valutative, e può richiedere anche, in parte, norme speciali. Lo stesso è a dirsi, con diversi contesti e diversi problemi, per la criminalità terroristica. Su entrambi questi terreni l’Italia e le sue istituzioni - Parlamento, magistratura e forze dell’ordine - hanno maturato esperienze significative e messo a punto strumenti ad hoc (si pensi solo alla Procura nazionale e alle Procure distrettuali antimafia e antiterrorismo).
Ciò non significa però che possano venir meno o attenuarsi le esigenze di rispetto dei principi costituzionali fondamentali che governano e devono governare, in uno Stato democratico, ogni intervento di repressione e di prevenzione della criminalità. I principi di stretta legalità dei reati e delle pene, di presunzione di non colpevolezza fino alla condanna definitiva, di irretroattività delle norme punitive, di umanità e finalità rieducativa della pena, di ragionevolezza e adeguatezza delle misure cautelari, di garanzia del contraddittorio e del diritto di difesa, di rispetto, sempre, della dignità umana, sono caposaldi irrinunciabili di civiltà giuridica, a cui lo Stato democratico non può mai rinunciare nemmeno in nome di una qualsiasi «emergenza».
Una sentenza del 2004 della Corte Suprema israeliana, redatta dal suo Presidente Aharon Barak, si esprime sul punto con queste memorabili parole: «Questo è il destino di una democrazia - essa non considera come accettabili tutti i mezzi, e le vie seguite dai suoi nemici non sono sempre aperte davanti ad essa: Una democrazia deve talvolta combattere con una mano legata dietro la schiena. Tuttavia la democrazia prevale. Il principio di legalità (rule of law) e le libertà individuali costituiscono un aspetto importante della sua sicurezza. Alla fine del giorno, essi rafforzano il suo spirito e questa forza le consente di superare le sue difficoltà».
Non pare superfluo questo richiamo nel momento in cui si discute di nuove misure per combattere la criminalità. Penso alle norme modificative del codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, che in particolare estendono le misure di prevenzione patrimoniale (sequestro dei beni e confisca), fra l’altro, al caso di indiziati di associazione a delinquere finalizzata alla commissione di delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica amministrazione, come il peculato, la corruzione e la concussione. Si badi bene, semplicemente «indiziati»: dunque non è necessario che sia accertato il reato con la relativa condanna, e nemmeno che sussistano i presupposti che consentono l’adozione di misure cautelari patrimoniali.
Ora, qual è il senso delle misure di prevenzione? Dovrebbe essere quello di tenere sotto controllo più da vicino le attività di chi sia seriamente sospettato di essere contiguo a «giri» criminali, prevenendo appunto lo sviluppo o la diffusione di attività delittuose. Ma sequestrare e confiscare i beni di chi sia indiziato di delitti per i quali non è, o non è ancora, perseguito penalmente, e al di fuori del quadro delle misure cautelari previste dall’ordinamento, significa in realtà anticipare una pena a chi non è ancora nemmeno sotto processo perché mancano, o mancano ancora, le prove sufficienti per il processo medesimo. Il rischio insomma è di un utilizzo strumentale delle misure di prevenzione là dove non si riesce a intervenire con il processo e la condanna. Come si è espressa significativamente, in un atto giudiziario, una Procura nel proporre appunto l’applicazione di una misura di prevenzione personale, «il diritto penale come extrema ratio, le difficoltà probatorie» (imposte dalla giurisprudenza di Cassazione che ha tracciato i limiti di configurabilità del reato di concorso esterno in associazione mafiosa), «e la varietà delle forme attraverso cui si esprime la contiguità alla mafia hanno portato a rivitalizzare la tematica delle misure di prevenzione», per colpire ogni comportamento che, pur non configurando un reato, venga ritenuto «funzionale agli interessi dei poteri criminali e costituisca una sorta di terreno favorevole permeato di cultura mafiosa», pervenendo così ad una «vera e propria mutazione genetica delle misure di prevenzione»,
Ora il legislatore ha voluto estendere l’applicabilità del sistema delle misure di prevenzione patrimoniali al campo dei delitti di corruzione amministrativa. Ma questo rischia di rivelarsi un terreno vasto e scivoloso in cui, muovendo dal sospetto dell’esistenza di diffuse pratiche corruttive e di una «cultura mafiosa» nelle amministrazioni e intorno ad esse (che magari esiste, ma va appunto combattuta, oltre che con la vigilanza all’interno, con gli strumenti della cultura piuttosto che con quelli del diritto penale), si brandisca l’arma delle misure di prevenzione per colpire dove non si è in grado di intervenire con gli accertamenti processuali e con le relative condanne.
Il rischio di incostituzionalità delle norme o della loro applicazione è palese, come quello di esporre il Paese a nuove condanne da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo. Un sequestro di beni può bene essere necessario anche in via cautelare, ma sulla base di un procedimento che miri all’accertamento del reato. Un sequestro e addirittura una confisca di beni che si collochino al di fuori dell’indagine e del processo diretti ad accertare e punire un reato rappresentano invece una indebita applicazione di una «pena alternativa» al di fuori del principio di legalità e delle regole del processo. Prevenire la corruzione è necessario, oltre che reprimerla. Ma non può voler dire lasciare campo libero alla cultura del sospetto e allentare le garanzie essenziali della persona. Nel campo della corruzione politico-amministrativa, prevenire significa anzitutto eliminare o almeno ridurre l’oscurità della normativa, che si traduce sia in uno spazio aggiuntivo e indebito di discrezionalità, sia in una minaccia permanente sul capo degli amministratori; ridurre i tempi e potenziare la trasparenza dei processi decisionali e la conoscibilità degli atti interni; costruire e diffondere la cultura del risultato in luogo di quella dell’adempimento e del cavillo; accrescere le motivazioni sane di chi è chiamato a decidere piuttosto che gravarlo di sempre nuove forme o nuove minacce di responsabilità giuridica; avere il coraggio di intervenire drasticamente dal punto di vista organizzativo, facendo pulizia, dove si accertano cedimenti alle varie forme di corruzione.
La ricerca di «scorciatoie», attraverso la espansione indebita delle misure di prevenzione, non è invece accettabile.
*Presidente emeritodella Corte costituzionale
La Stampa 30.9.17
Partiti, il finanziamento privato è morto
Donazioni crollate del 70%. E il 2x1000 non decolla. L’attività la pagano i gruppi parlamentari Pd e Lega si reggono sugli stipendi degli onorevoli, a Fratelli d’Italia non arrivano soldi dai cittadini
di Andrea Carugati
Crolla il finanziamento privato ai partiti. E non decolla il 2 per mille, la modalità trovata nel 2013 dal governo Letta per sostituire il defunto finanziamento pubblico. Uno studio realizzato da Openpolis certifica che i contributi arrivati da persone fisiche e giuridiche sono passati dai 40,8 milioni del 2013 ai 13,4 del 2016. Considerando che il 2013 era un anno di elezioni politiche, dunque più favorevole alle donazioni, il dato resta comunque in netto calo dai 23,9 milioni del 2014 ad oggi.
E così finisce che i contributi privati ai partiti siano quasi solo quelli degli onorevoli. Per alcuni partiti, come Fratelli d’Italia, la quota che sborsano gli eletti è il 100% del totale. Per il M5S, sul lato opposto, non c’è alcun contributo dei parlamentari. Zero. Nel mezzo ci sono forze come Pd e Lega (88% delle donazioni da persone fisiche sono di eletti), mentre Forza Italia e Ncd viaggiano attorno al 30%, e dunque nei loro bilanci godono di un’alta percentuale di donazioni da esterni. Nel caso di Forza Italia pesa molto la famiglia Berlusconi. Nel 2013 ha contribuito per il 99% alle donazioni verso il partito (15 milioni). Nel 2015 e 2016 il peso del Cavaliere e dei suoi familiari ha oscillato tra il 30 e il 35% delle donazioni. Percentuale che arriva fino al 50% se si contano i soldi sborsati dai dirigenti del gruppo Fininvest.
Con la fine dei rimborsi elettorali, non è però finito l’esborso di denaro pubblico a favore delle forze politiche. Restano i fondi dei gruppi parlamentari, che ora fanno la parte del leone nei bilanci dei partiti. E finiscono per finanziare (oltre al pagamento degli stipendi ai dipendenti dei gruppi che pesa per circa due terzi) le attività dei partiti, in particolare quelle di comunicazione.
Ogni forza politica percepisce circa 50mila euro per ogni parlamentare. Il Pd dunque incassa alla Camera circa 14 milioni l’anno, seguito dal M5S con 3,8 milioni e da Forza Italia con 3,2. Giù fino alla Lega Nord che con soli 18 deputati prende circa 900mila euro. Altri incassi arrivano ai gruppi del Senato: per il Pd sono circa 6 milioni, Forza Italia 3,2 e M5S 2,4.
Nel caso del movimento di Grillo (che non riceve il 2 per mille), il peso dei fondi ai gruppi è preponderante. Nel 2016 ha superato i 6 milioni, contro i 400mila euro di donazioni private alla Fondazione Rousseau.
Il contributo in arrivo dal 2 per mille, attivo da tre anni, non decolla. Prendendo le dichiarazioni dei redditi 2016, si nota come meno di un milione di italiani abbiano scelto questa opzione. Il Pd è di gran lunga in testa alla classifica con 490mila donatori (il 50% del totale) e un incasso di 6,4 milioni, seguito da Lega Nord (129mila persone e 1,4 milioni) e Sel (72mila cittadini per 840mila euro). Forza Italia è stata scelta solo da 46mila persone che hanno portato in dote 615mila euro.
Nel suo studio, Openpolis fa notare come il finanziamento alla politica passi sempre più spesso dal sostegno a fondazioni e think tank legati a singoli leader. Un canale che, stando alle leggi, è assai meno controllabile rispetto ai finanziamenti ai partiti. Dei 102 think tank censiti solo il 10,7% pubblica il bilancio su Internet.
Corriere 30.9.17
Ipotesi voto a marzo
Si va verso lo scioglimento delle Camere ai primi di gennaio
Il Colle si prepara ad affrontare tutte le incognite sulla governabilità
di Marzio Breda
Che Sergio Mattarella sarebbe stato un presidente della Repubblica non invadente e poco rumoroso, dal punto di vista politico, lo si è capito fin dall’insediamento, il 3 febbraio 2015. Ma che non pronunciasse una sola parola sull’accordo per la legge elettorale da lui tante volte sollecitata, è un fatto che colpisce molti. La verità è che la soluzione trovata finora, il cosiddetto Rosatellum bis (per un terzo maggioritario e due terzi proporzionale), pare sciogliere il primo nodo da lui indicato, quello di un’armonizzazione tra Camera e Senato, ma non risolve il secondo punto, cioè l’esigenza di costruire la formula destinata a superare l’Italicum con «la più larga convergenza» dei partiti. E, per quanto il capo dello Stato giudichi un passo avanti, rispetto all’inerzia dei mesi scorsi, il lavoro compiuto finora, è questo a impedirgli di commentare il provvisorio risultato raggiunto finora. Dunque tace per non esporsi a dubbi sulla propria neutralità, dato che la formula su cui si è aggregato il consenso sembra studiata da metà del Parlamento contro l’altra metà.
Ma c’è un altro punto critico da tenere in conto, sebbene meno complesso. Se il Rosatellum andasse sul serio in porto — e sarebbe una scelta costituzionalmente legittima con qualsiasi maggioranza — resta comunque aperta l’incognita lasciata da una lacuna delle sentenze autoapplicative pronunciate dalla Consulta. Per capirci: la disciplina «di risulta» dopo quella pronuncia è imperfetta e ciò rende necessario un intervento legislativo sulle preferenze, con correzioni magari minimali e tuttavia indispensabili per la razionalità del sistema di voto. Sistema che, stando alle analisi degli osservatori politici, non si rivelerebbe affatto in grado di garantire la governabilità.
Lo sa bene anche il Quirinale, dove sono stati archiviati con una certa preoccupazione i sondaggi resi noti nelle ultime settimane. Qualora non cambiasse drasticamente lo scenario attuale, è assai probabile, e anzi quasi scontato, che le urne esprimano un paralizzante replay del 2013: tre grandi minoranze e nessuna maggioranza. Se questo dovesse accadere, che cosa potrebbe fare Mattarella? Rassegnarsi al destino toccato alla Spagna, che dovette ricorrere più volte al voto proprio perché non esistevano maggioranze?
Nell’ipotesi di un risultato bloccato, un pericolo connesso a una formula di voto per la gran parte proporzionale come del resto si profila il Rosatellum, la prassi costituzionale gli imporrebbe di affidare un mandato esplorativo a qualche personalità dotata di capacità aggreganti, per verificare se in Parlamento esista una maggioranza. Incarico che, se la missione dovesse dimostrarsi particolarmente complessa (in fondo la crisi di rappresentanza e di mediazione è il problema più grosso che l’Italia ha da anni), potrebbe coinvolgere fin da subito le alte cariche dello Stato. Cioè i presidenti del Senato o della Camera che, in quanto eletti, sarebbero in sé espressione di una maggioranza. Il che, beninteso, non esclude che nel suo angolo visuale emerga una figura politica per il medesimo incarico di mettere insieme una coalizione. E se è vero che qualcuno già azzarda il nome di Paolo Gentiloni come il meno divisivo per una simile sfida, questo vale per l’oggi, ma sarà lo stesso fra qualche mese? Di sicuro, in ogni caso, c’è che al Quirinale si baderà a non perdere tempo, com’è stato dimostrato nella sostituzione lampo di Matteo Renzi, quasi un anno fa.
Sarebbe un «governo del presidente», quello che nascesse al termine di una simile gestazione da parte del capo dello Stato, nel ruolo di «motore di riserva» di un sistema in panne, come evocato da D’Alema qualche giorno fa sul Corriere? Sì e no, tenendo conto che sul Colle queste definizioni, più mediatico-politiche che giuridiche, sono giudicate improprie e piacciono poco. Infatti ogni esecutivo è del Parlamento (che lo vota) e del presidente (che lo fa giurare davanti a sé). Tutto questo, tranne le eccezioni — che abbiamo avuto — dei governi formati con una più o meno esplicita libertà d’azione rispetto al sistema dei partiti, perché i partiti non erano in grado di dare indicazioni.
E qui si arriva infine al rebus delle date: quando scioglierà le Camere, Sergio Mattarella? Quando si voterà? Se non interverranno cambiamenti traumatici, il capo dello Stato non intende tirarla per le lunghe. E, poiché stavolta si materializzerebbe un caso di «scioglimento tecnico», siccome la scadenza naturale di vita delle Camere è il 15 marzo, giorno in cui si insediò il Parlamento della XVII legislatura, il limite per congedarle va collocato un po’ prima del 6 gennaio. In modo di consentire un’adeguata campagna elettorale e di far aprire le urne ai primi di marzo. Dal 4 in poi, insomma, ogni domenica dovrebbe andare bene.
Corriere 30.9.17
FI
Un simulacro di unità per contare dopo le elezioni
di Massimo Franco
Sta andando come era prevedibile: per quanto divisi sull’identità e sulla leadership del centrodestra, Silvio Berlusconi e Matteo Salvini si preparano ad allearsi insieme con i Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni; e a approvare col Pd una legge elettorale controversa, dalla quale ritengono di ottenere vantaggi reciproci. Il fondatore di Forza Italia ha annunciato che si incontreranno la settimana prossima, dopo rinvii e punzecchiature. È un gesto di realismo e la conferma che, senza una tregua, i loro partiti esalterebbero soltanto le proprie debolezze. E regalerebbero il primato al Movimento 5 Stelle e al Pd.
Non significa avere appianato i contrasti. Quando Berlusconi spiega che «il centrodestra deve vincere, perché sarebbe una iattura per l’Italia se prevalessero forze definite populiste ma che io definirei in un altro modo», non pensa solo ai seguaci di Beppe Grillo. Lo spartiacque è anche col leghismo di Matteo Salvini, che ha celebrato l’affermazione dell’ultradestra alle recenti elezioni tedesche. L’opposto di FI: perché forse mai come nelle ultime settimane e nel prossimo futuro, invece, il berlusconismo si candida al ruolo di interlocutore della Cdu della cancelliera Angela Merkel e del Partito popolare europeo in Italia; e dunque di argine contro le derive estremiste.
Forse è esagerato sostenere che l’emendamento alla legge elettorale contro Berlusconi, presentato ieri dai Cinque Stelle, rispecchia il timore di essere fermati da lui. Ma certo rappresenta un altro indizio che la loro campagna elettorale punta a conquistare pezzi del centrodestra. E cominciano a pensare che, per quanto ancora incandidabile e ultraottantenne, un leader di FI rilegittimato a livello europeo, possa arginare la deriva verso l’estremismo. Di questo filone culturale oggi ritenuto vincente, Salvini è uno degli interpreti. Si candida a presidente del Consiglio in competizione aperta con Berlusconi; aperta, ma inutile. Con una legge elettorale ancora in embrione, e che probabilmente non darà a nessuno la maggioranza, il tema del premier diventa virtuale. Non a caso ieri l’ex Cavaliere ha ammesso che per deciderlo «c’è tempo». Non vuole accentuare lo scontro con Salvini e Meloni. E conta di dare comunque qualche carta dopo le elezioni politiche del 2018, forte dell’aggancio con il Ppe. Non pensa tanto a sé.
L’idea è di contribuire a mandare a Palazzo Chigi «personaggi di grande livello, esperienza e preparazione culturale pronti a lasciare quello che stanno facendo in modo egregio, soprattutto nell’impresa, per dedicarsi al proprio Paese come ho fatto il nel 1994». È un identikit molto generico e insieme piuttosto chiaro: nel senso che racchiude il «no» preventivo all’alleato-coltello Salvini. Insomma, ognuno andrà avanti per la sua strada. Ma se passa la riforma elettorale discussa col Pd, converrà a entrambi un simulacro di unità.
il manifesto 30.9.17
Perché chiedere la secessione è anticostituzionale
Stato di diritto. Il referendum del 1 ottobre è esplicitamente secessionista, inoltre la legge catalana prevede l’obbligatorio e immediato distacco dalla Spagna nel caso di vittoria del sì. Dunque trovano fondamento sia il blocco posto dalla Corte spagnola al procedimento referendario, sia le iniziative nel medesimo senso del governo
di Massimo Villone
Esiste un diritto alla secessione? Per valutare gli eventi spagnoli questa è la domanda. E la risposta per un costituzionalista è una sola. Nessuna Costituzione riconosce come diritto la separazione unilaterale perché ne verrebbe un harakiri costituzionale.Con la dissoluzione dell’ordinamento e della stessa Costituzione. Per la Spagna, questo si traduce in una esplicita clausola di unità indissolubile della nazione spagnola, cui si accompagna l’autonomia delle nazionalità e delle regioni che la compongono (art. 2). Un impianto non lontano dall’art. 5 della Costituzione italiana.
Il referendum catalano è esplicitamente secessionista: «Vuoi che la Catalogna sia uno Stato indipendente sotto forma di repubblica?». Inoltre, la legge catalana prevede l’obbligatorio e immediato distacco dalla Spagna nel caso di vittoria del sì. Dunque dal punto di vista costituzionalistico trovano fondamento sia il blocco posto dalla Corte spagnola al procedimento referendario, sia le iniziative nel medesimo senso del governo.
Altra questione è se le scelte dell’esecutivo siano quelle politicamente più utili e opportune, o se invece altre mosse, di dialogo e trattativa, sarebbero state da preferire. In contesti simili gli aspiranti secessionisti fanno riferimento al principio di autodeterminazione dei popoli. Sancito già nel 1945 dall’art. 1.2 della Carta delle Nazioni Unite, era un mantra, in Italia, per la Lega secessionista della prima ora. È stato richiamato a sostegno dei referendum canadesi sul distacco del Quebec (1980, 1995), e del referendum 2014 sull’indipendenza della Scozia. Anche la legge catalana sul referendum si riferisce esplicitamente all’autodeterminazione. Ma cosa è un “popolo” ai sensi dell’art. 1.2 della Carta UN? Soprattutto, la norma sembra doversi correttamente riferire a “popoli”, comunque definiti, che siano oppressi, privati di libertà e diritti, sfruttati, assoggettati a dominazione coloniale, a sudditanza economica. Tale non era il caso per il Quebec e la Scozia, né è il caso per la Catalogna: un quinto del Pil della Spagna, con una autonomia già molto ampia. Quando è una parte economicamente forte e largamente autonoma a volersi staccare, i fantasmi dell’egoismo territoriale diventano corposi.
Dalla Catalogna a Lombardia e Veneto. Le due regioni votano il 22 ottobre per l’attribuzione di “ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia”: un ampliamento previsto e disciplinato dall’art. 116, co. 3, della Costituzione. Proprio per questo, i referendum sono del tutto inutili. Il procedimento si attiva su “iniziativa” della regione, parola che apre a una trattativa con Roma a livello di esecutivi, o anche alla presentazione da parte della regione di una proposta di legge statale. Legge, va ricordato, da approvare a maggioranza assoluta dei componenti sulla base di intesa con la regione. Quindi, la regione può avviare il procedimento, e può bloccarlo prima della conclusione, se sgradita. Un referendum brucia milioni di euro e nulla aggiunge o toglie. Poteva bastare al più una mozione approvata nei consigli regionali. Mentre sono obsoleti, dopo il titolo V riformato nel 2001, gli argomenti utilizzati per bocciare (Corte cost., 470/1992) l’ipotesi di referendum per una legge costituzionale di iniziativa regionale sulla trasformazione del Veneto in regione speciale. Ricorrendo oggi alle urne si vuole piuttosto lanciare la corsa per le politiche del 2018. Nella stessa chiave si possono interpretare gli squilli di tromba di una Lega sovranista – e non più secessionista – sulla vicenda spagnola.
Non sappiamo se il referendum catalano si terrà, mentre quelli del lombardo-veneto non trovano ostacoli. Situazioni diverse, che non sfuggono però alla sensazione che qualche elemento le accomuni. Il mondo globalizzato e iperconnesso in una rete senza confini mette in crisi il modello dello stato nazionale, e i suoi canoni di diritti, libertà, eguaglianza, giustizia sociale, democrazia. Alcuni – che magari si sentono più forti – sembrano preferire il fare da soli. Ma è una risposta illusoria.
Un mondo di piccole patrie non assicura certezze o più luminosi orizzonti. Tanto meno li concede a chi strappa per sé qualche briciola di benessere in più negando ogni più ampia solidarietà. In fondo tra i paesi e nei paesi, come nelle famiglie, alla fine sulla volgare pecunia si litiga. E non finisce bene.
Corriere 30.9.17
Secessioni le ragioni deboli
di Sergio Romano
Vi sono ormai da parecchi anni regioni che dopo avere lungamente vissuto all’interno di un grande Stato vorrebbero separarsi dalla casa madre. A un primo sguardo sembra che il problema possa essere affrontato e risolto con le regole wilsoniane dell’autodeterminazione dei popoli. Se esiste una frontiera geografica e linguistica, come nel caso della Catalogna e della Scozia, perché un referendum non dovrebbe essere la migliore delle soluzioni possibili?
La separazione fra ciò che appartiene agli uni e ciò che appartiene agli altri è quasi sempre difficile, se non impossibile. Nella regione che vuole divorziare esistono opere di interesse comune che sono state realizzate con l’indispensabile contributo dell’intera comunità nazionale. Esistono nuclei familiari che hanno messo radici su entrambi i versanti della frontiera e si considerano binazionali. Il primato della regione uscente in alcuni campi (e i vantaggi che ne derivano) sono quasi sempre il risultato di un giudizio comparativo con i valori delle altre regioni appartenenti allo stesso Stato. Quali sarebbero in un diverso contesto, per esempio, le carte vincenti della Catalogna indipendente?
Se teniamo conto di queste considerazioni ogni referendum in queste materie, soprattutto in un Paese dove la magistratura si è già pronunciata contro la separazione, sarebbe equo e valido soltanto se al voto partecipassero tutti i cittadini dello Stato. Quando il divorzio concerne la vita degli spagnoli non meno di quanto concerna i catalani, non sarebbe giusto negare ai primi il diritto di essere interpellati.
Le stesse considerazioni valgono per Scozia e Inghilterra. Dalla morte della Grande Elisabetta, quando i due troni furono occupati da una stessa famiglia reale, gli scozzesi e gli inglesi hanno lavorato insieme alla costruzione di una nuova creatura, l’Impero britannico, che si è lasciato alle spalle, dopo la sua scomparsa, uno straordinario patrimonio di memorie e istituzioni comuni.
Possiamo applicare le stesse considerazioni al referendum degli scorsi giorni nel Kurdistan iracheno? I curdi hanno presenze importanti in quattro Stati medio-orientali — Iran, Iraq, Siria, Turchia — e la loro partecipazione militare alla guerra siriana ha confermato l’esistenza di una orgogliosa identità nazionale, distinta da quella degli altri popoli che vivono nella regione. Non è tutto. Quello che sta accadendo nel Medio Oriente è il risultato di una crisi che investe quasi tutti gli Stati arabi nati dalla morte dell’Impero Ottomano e che avrà per effetto, probabilmente, la modifica di parecchie frontiere. Non è sorprendente che, in questa prospettiva, i curdi abbiano deciso di chiedere nuovamente la creazione di una grande casa comune per tutte le famiglie separate del loro popolo. Ma anche in questo caso vi sono protagonisti della vita politica internazionale che hanno il diritto di formulare riserve e prospettare pericoli. In una regione dove il ricorso alle armi è sempre più frequente, la creazione di uno Stato curdo darebbe probabilmente il colpo di grazia a ciò che ancora sopravvive del vecchio ordine e avrebbe per effetto nuove guerre.
I curdi hanno le loro ragioni, ma la stabilità è un valore comune che merita di essere difeso e tutelato.
Esiste un altro caso in cui un problema nazionale può minacciare gli equilibri e i buoni rapporti di due Paesi. Fra la Repubblica d’Irlanda, sovrana dal 1937, e l’Irlanda del Nord (l’Ulster britannico) esiste una frontiera per cui è stato combattuto, dalla fine degli anni Sessanta alla fine degli anni Ottanta, un sanguinoso conflitto civile. La guerra è finita quando gli inglesi, pur continuando a conservare la sovranità sull’Ulster, hanno permesso a tutti gli abitanti della regione contesa di scegliere liberamente la propria identità politica e religiosa. Quell’accordo, firmato tra il Regno Unito e la Repubblica d’Irlanda nel Venerdì Santo del 1998, fu reso possibile dalla comune appartenenza dei due Paesi a istituzioni europee che stavano creando una nuova identità. Brexit ha provocato la rinascita della vecchia frontiera e quella che il negoziatore della Ue, Michel Barnier, ha definito una delle questioni più preoccupanti del momento. È l’ennesima dimostrazione di quanto, nelle grandi crisi territoriali, sia quasi sempre più utile unire che dividere.
Il Sole 30.9.17
Le mine vaganti che ostacolano il rilancio dell’Europa
Volevano lanciare un messaggio di unità a Tallinn, offrire al mondo e ai propri scettici cittadini il senso di un impegno condiviso per costruire la nuova Europa dopo Brexit, dopo che a fine marzo 2019 si sarà compiuto il divorzio britannico. Continua pagina 6
di Adriana Cerretelli
Continua da pagina 1 Ci sono riusciti solo in parte. Intorno al tavolo c’era un convitato di pietra. Anzi due.
Il primo: la Catalogna indipendentista, il referendum ad altissima tensione che si terrà domani a Barcellona, la paura scontri di piazza, il timore che la situazione sfugga di mano, l’unità della Spagna in bilico. Di qui la pesante assenza dal vertice del suo primo ministro, Mariano Rajoy. L’Europa tace ma segue gli eventi con il fiato sospeso di fronte agli opposti estremismi che si fronteggiano.
Mentre già uno dei suoi Grandi, il Regno Unito, si prepara a uscire, di tutto avrebbe bisogno oggi l’Unione fuorché della bomba catalana: la Spagna, un altro Big, a rischio di piombare in un clima di instabilità e deflagrazione interna, costretta al duello con il separatismo, l’effetto domino che potrebbe riversarsi nel resto d’Europa, dove altri regionalismi covano sotto le ceneri, pronti a rialzare la testa alla prima buona occasione. Magari proprio in nome dell’Europa che molti considerano il porto sicuro in cui annegare le presunte obsolete realtà degli Stati nazionali.
A Tallinn il secondo convitato di pietra è stato il futuro Governo tedesco, il Merkel IV che non vedrà la luce prima di dicembre, non si sa ancora con chi e per fare cosa. Quindi mina vagante che tiene in ostaggio il futuro collettivo, anche se non la sua direzione di marcia. Europea.
Per questo il cancelliere ha spezzato, forte e chiaro, la sua lancia a favore del piano di rilancio della Francia di Emmanuel Macron tacendo invece sul parallelo e altrettanto articolato piano di Jean-Claude Juncker, presidente della Commissione Ue. Modello di integrazione selettiva e multi-speed da un lato, dall’altro il suo opposto, unitario e un po’ federalista. Intergovernativo il primo, comunitario il secondo che però suona ormai fuori tempo massimo.
Dopo aver lodato un discorso «visionario» e l’«intensa» cooperazione con la Francia, Angela Merkel ha parlato di «alto livello di accordo» sul piano Macron ma, ha aggiunto, «dobbiamo ancora discuterne i dettagli». In breve, niente assegni in bianco all’amico francese, che avverte: meglio partire dai migranti rinviando la riforma dell’eurozona, il contrario e un freno evidente agli auspici di Parigi.
Quei dettagli mancanti sono fondamentali: possono fare o disfare la fisionomia della nuova Europa. Per ora dicono di un viaggio in terra incognita, senza una meta condivisa.
L’ambiguità di Merkel è obbligata: ancora non sa quale sarà la sua futura coalizione ma sa che il rafforzamento o meno dell’eurozona, come le altre euro-riforme, difesa compresa, saranno oggetto del prossimo accordo di Governo. Probabilmente con liberali e verdi, due partiti con vedute contrastanti sull’Europa e che per questo potranno restringere i margini di manovra del cancelliere. La macchina dell’Unione va rafforzata perché inefficiente, poco dinamica e tempestiva, inadeguata ai tempi globali che impongono decisioni rapide. Ma come, con chi e a che prezzo politico? Il piano Macron suscita riserve a Nord, in Olanda, Finlandia e in genere tra gli scandinavi, e grandi diffidenze a Est. Come evitare una cascata di exit, magari anche pilotati? Che cosa dare in cambio ai Paesi marginalizzati? E l’Europa-spezzatino può davvero salvaguardare la tenuta del mercato unico? È fattibile l’armonizzazione fiscale a colpi di voti a maggioranza e integrazioni selettive, come vogliono Francia, Germania e Italia, mantenendo la coesione dell’euro, visto l’irriducibile rifiuto dell’Irlanda, che non è sola?
«Gli orizzonti europei sono disegnati. L’importante sarà evitare i miraggi del deserto strada facendo», ha commentato tagliente Dalia Grybauskaite, il presidente lituano. Il mercato digitale europeo da completare entro fine 2018, le profonde divisioni sulla web tax emerse anche ieri sono solo un assaggio delle feroci battaglie future. Però, a un anno da Bratislava, il vertice di Tallinn ne ha confermato l’agenda rafforzandola. Molte incertezze restano ma per ora la volontà politica dei Grandi non recede.
Ripresa economica e disoccupati in calo aiutano, come la Francia di Macron rientrata in pista con decisione. Conclusa la pausa post-elettorale, anche Merkel, alleati interni permettendo, tornerà alla carica perché convinta che un’Europa forte non sia una scelta ma una necessità assoluta. Che cosa produrranno in concreto i nuovi fermenti europeisti, più vivaci a Ovest che a Est, più convinti tra i grandi che tra i Paesi medio-piccoli, sarà tutto da verificare. C’è sempre il rischio che la montagna delle grandi riforme annunciate produca il solito topolino europeo. Mezze misure e mezze decisioni però sono ormai un lusso insostenibile nell’Europa catapultata nel mondo globale.ì
il manifesto 30.9.17
La geografia storica di un movimento e la «crisi di civiltà»
«Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà», un saggio di Marco Bresciani edito da Carocci
di Alessandro Santagata
Vincitore della prima edizione del «Premio Giorgio Agosti», Quale antifascismo? Storia di Giustizia e Libertà (Carocci, pp. 308, euro 27) di Marco Bresciani rappresenta un contributo davvero importante alla storia dell’antifascismo in Italia. Come si ricorda nell’introduzione, la storia di «Giustizia e Libertà» è stata a lungo sacrificata nel dibattito pubblico dell’Italia repubblicana. Esclusa da una storiografia che si concentrava sui partiti dominanti, è stata oggetto dei primi studi di rilievo dalla fine degli anni Sessanta e all’interno di un dibattito che intrecciava le vicende di GL e del Partito d’Azione (che del gruppo di Rosselli aveva raccolto in parte l’eredità tra il 1942 e il 1947) con il problema dell’interpretazione storica del fascismo.
Eppure, GL fu un gruppo tutt’altro che omogeneo e compatto, al quale contribuirono almeno tre generazioni con tutta una serie di scontri interni che inevitabilmente ne seguirono. La fondazione risale all’ottobre 1929 a Parigi, presso l’abitazione di Alberto Tarchiani e per iniziativa di Carlo Rosselli di Gaetano Salvemini e di un piccolo gruppo di fuoriusciti. Il libro ricostruisce con dovizia di fonti la geografia storica del movimento disegnata dalle politiche repressive del regime. Dopo la caduta del gruppo milanese di Bauer e Rossi, la pattuglia torinese di Leone Ginzburg e di Aldo Garosci, diventa il principale polo organizzativo di GL in Italia fino all’ondata di arresti tra il 1932 e il 1935. I cospiratori operanti nella penisola privilegiano un’azione culturale sul lungo periodo. Nel suo complesso, GL si propone come un’organizzazione segreta, che agisce soprattutto a livello di contro-propaganda e rifiuta la forma partito, pur essendo Rosselli affascinato dall’idea leninista dell’avanguardia rivoluzionaria.
SONO NOTE LE VICENDE che porteranno nel 1936 i giellisti a combattere in Catalogna, lo sono meno invece le tormentate sorti del movimento dopo l’assassinio dei Rosselli: la fase finale della parabola di GL che Bresciani ripercorre fino ai mesi successivi all’invasione della Francia nel 1940 e alla «diaspora» dei dirigenti. Tornando al profilo culturale, l’elemento centrale di partenza viene identificato nell’«antigiolittismo» come comune denominatore (negativo) che aveva scavato un solco tra classe dirigente liberale e classe intellettuale; una faglia che il regime e i suoi oppositori si propongono, in modi diversi, di ricomporre. Comune è anche la convinzione di attraversare una «crisi di civiltà» rispetto alla quale le soluzioni delle due parti in causa risultano agli occhi dello storico «indissolubilmente intrecciate, senza essere affatto confuse».
In altre parole, Bresciani mette in luce come la scelta antifascista originaria non possa essere considerata scontata nelle biografie prese in esame. L’altro lato della medaglia è il problema dell’imparare dal nemico: un punto qualificante della cultura giellista che l’autore analizza passando in rassegna il vivace dibattito sviluppatosi «all’ombra di Piero (Gobetti)» e caratterizzato dallo sforzo dei vari Salvemini, Trentin, Caffi, e Calosso di leggere il fascismo come risultato della frattura della Grande Guerra e della cultura antiliberale europea.
I GIELLISTI sono anche tra i primi e i più avvertiti interpreti della natura totalitaria del regime e della sua capacità di nazionalizzare le masse.
Di qui la necessità di una nuova proposta politica in grado di assorbire il meglio delle tesi in circolazione sulla cosiddetta «terza via», istanze che Rosselli rielabora già in Socialismo liberale. Se i modelli di partenza sono il New Liberism inglese, il socialismo revisionista di Hendrik de Man e il liberalismo socialista di Élie Halévy, va sottolineato che si tratta di un pensiero in costante evoluzione, di cui il libro ricostruisce con attenzione i passaggi e le aperture ideologiche alla sinistra comunista. Inquadrare tali movimenti in un contesto corale in continua sollecitazione, come ha fatto Bresciani, significa quindi restituire Giustizia e Libertà alla sua storia
il manifesto 30.9.17
Perchè l’origine della vita sulla terra è ancora un mistero?
Bergamoscienza. L'interazione di più molecole prebiotiche possono creare una organizzazione primordiale. Un riassunto dell'intervento che terrà il prof. Luisi al festival di Bergamo
di Pier Luigi Luisi
Per molti secoli l’origine della vita sulla terra non è mai stata un problema. La gente a quei tempi era pia e semplice e credeva fermamente che la vita fosse l’opera di Dio, che aveva creato tutto il vivente informe fisse e immutabili. I problemi sorsero a causa di un libro blasfemo di uno scienziato inglese, certo Charles Darwin, che propose invece il concetto di evoluzione- secondo il quale le specie complesse si fossero formate nel corso del tempo da specie più semplici, primordiali; e, aggiungendo blasfemia a blasfemia, propose anche sommessamente l’ipotesi che anche la vita stessa sulla terra avesse una origine evolutiva, derivata da un brodo caldo prebiotico. Eravamo nel 1856. L’idea prese subito piede, ma fu solo nel 1924 che uno scienziato russo, Alexander Ivanovic Oparin, ispirato da Darwin e dal materialismo dialettico sovietico, elaborò una vera e propria teoria, secondo la quale la vita si era originata da molecole prebiotiche che, reagendo tra loro in modo spontaneo, spontaneamente avessero via via formato composti sempre più complessi, fino ad arrivare a strutture sferoidali capaci di riprodursi-le prime cellule. Origine della vita quindi dalla non-vita, senza alcun intervento divino.
Tale ipotesi aveva come corollario implicito che la vita cellulare, essendo un prodotto chimico, potesse anche essere ricreata in laboratorio- e cominciò l’era della chimica prebiotica, con i bellissimi e rivoluzionari esperimenti di Stanley Miller (1953) che riuscì a sintetizzare aminoacidi (che sono i cosiddetti monomeri, cioè i mattoni per formare le proteine) partendo dai componenti gassosi dell’atmosfera prebiotica. Molto più tardi, dopo gli anni duemila, fu possibile trovare reazioni prebiotiche per formare nucleotidi, i mattoni per gli acidi nucleici.
In linea di principio quindi, avendo a disposizione amino acidi e nucleotidi, il chimico di laboratorio potrebbe formare le lunghe catene (le macromolecole) che sono alla base della nostra vita, appunto le proteine e gli acidi nucleici.
Ma c’è un grosso “ma”. E infatti la scienza moderna non ha ancora chiarito l’origine della vita sulla terra.
La ragione è questa: la vita è basata si su proteine e acidi nucleici, che sono lunghe catene di aminoacidi risp. di nucleotidi, ma tali lunghe catene sono ordinate, cioè sono sequenze di amino acidi e/o di nucleotidi in una disposizione precisa, (come le lettere dell’alfabeto formano parole sensate) e inoltre sono presenti in molte copie identiche. Pensate questo: se avete a disposizione tutti i venti diversi aminoacidi, e volete costruire una catena lunga 50 aminoacidi, e fate una polimerizzazione “random” –cioè per mettendo tutte le combinazioni casuali- potete ottenere un numero di catene diverse che è un dieci seguito da settanta zeri, che è circa il numero di tutti gli atomi nell’universo. Inoltre in tale processo di polimerizzazione “random” (casuale) non troverete mai due catene che sono uguali l’una all’altra.
La vita è invece basata sull’ordine, le tante proteine funzionali che abbiamo sono lunghe catene, ma perfettamente ordinate, cioè nelle proteine c’è una sequenza precisa degli amino acidi l’uno dopo l’altro, -il contrario di polimeri random; e la stessa cosa per i geni e gli altri acidi nucleici funzionali. Proprio come succede con le lettere dell’alfabeto per formare parole sensate. Non solo, ma ognuna di queste catene è presente, e deve essere presente, in molte, moltissime copie identiche.
Come si è stabilito tale ordine in condizioni prebiotiche? Non lo sappiamo. Direi anzi che non ci sono presentemente dati su questo, né ricerche di base per chiarire questo punto cruciale.
Perché è così? Non è strano?
Nel mio ultimo libro in inglese (The Emergence of Life, Cambridge Univ. Press, 2016) ne discuto a più riprese, e affermo che il punto principale è il seguente: che la ricerca scientifica dell’establishment sulla origine della vita va avanti sotto l’egida della equazione: vita=acido nucleico, sia DNA o RNA. Una equazione che per me è di grande detrimento per la ricerca della origine della vita sulla terra, essendo basata sul “brain-washing” tipico del nostro tempo- che tutto debba partire dal DNA o dal RNA- con ipotesi accreditate ma a mio parere del tutto avulse dal buon senso scientifico, come la idea della origine della vita a partire da un RNA auto-replicante (che io chiamo costruire una casa partendo dal tetto…).
Deve essere invece riguadagnato il concetto che il passaggio “non vita—vita” è invece un processo di natura sistemica, che deve essere compreso nei suoi primi passi essenziali studiando la interazione simultanea di più molecole prebiotiche che creino un ambiente con una organizzazione primordiale.
Non ha senso partire con una sola molecola, sia RNA o DNA, e fino a che non si capisce questo, l’origine della vita rimarrà un mistero.
BOX
Giovedì 12 ottobre alle 21 Pier Luigi Luisi, prof. Emeritus ETHZ (Swiss Federal Institute of Technology Zurich) nell’ambito della XV edizione del festival di divulgazione scientifica BergamoScienza sarà protagonista dell’incontro, al Teatro Sociale, «Perché l’origine della vita sulla terra è ancora un mistero?».
Per 16 giornate, da sabato 30 settembre a domenica 15 ottobre, BergamoScienza animerà la città con più di 190 eventi tutti gratuiti – conferenze, laboratori interattivi, spettacoli, mostre – con protagonisti scienziati di fama internazionale, che tratteranno di scienza in modo interdisciplinare e con un linguaggio accessibile a tutti.
Tra gli ospiti: il Premio Nobel per la Medicina 2007 Mario Renato Capecchi, il neuroscienziato Thomas Albright, il presidente dell’Agenzia Spaziale Italiana Roberto Battiston, il neurochirurgo Alim Louis Benabid, Patrizia Caraveo astrofisica dell’Inaf, l’ingegnere elettronico Edoardo Charbon, il biologo Paul Falkowski, l’esperto di Intelligenza Artificiale Rob Fergus, il filosofo Luciano Floridi, Matthew Greenhouse astrofisico della Nasa, Giuseppe Ippolito direttore dell’Istituto Nazionale Malattie Infettive Lazzaro Spallanzani di Roma, l’ingegnere informatico Pier Luca Lanzi, il biochimico Julian Marchesi con l’endocrinologa Marian Ludgate, il fisico teorico Klaus Mølmer, il biologo Timothy Mousseau, Franco Ongaro dell’Agenzia Spaziale Europea, l’ex rettore dell’Università di Bergamo Stefano Paleari, l’esperto di prevenzione delle infezioni Didier Pittet con lo scrittore Thierry Crouzet, il medico Giuseppe Remuzzi, l’esperto di problematiche ambientali Edo Ronchi, la biologa Maya Schuldiner, la psicologa e docente di scienze neurali Wendy Suzuki.
Spazio anche alla musica e allo spettacolo della scienza con il concerto «An evening with Pat Metheny», l’opera lirica Ettore Majorana. Cronache di infinite scomparse a cui dedichiamo la pagina qui accanto con un’intervista al compositore Roberto Vetrano. Inoltre narrazioni su Lucrezio con il linguista e neuroscienziato Andrea Moro.
Informazioni: www.bergamoscienza.it
il manifesto 30.9.17
1968
Castellina, Rossanda, Tronti e Piperno:
Quell’anno come fine del mondo
Mostra. Alla Galleria d'Arte Moderna di Roma si apre il 3 ottogre la mostra "E' solo un inizio. Il 1968" accompagnata da un giornale catalogo di cui pubblichiamo alcuni estratti
di Nicolas Martino
Con il ’68 inizia la fine del mondo. Già, ma poiché come spiega Ernesto De Martino, a finire non è mai il mondo, ma un mondo in particolare, quello che inizia a finire con il ’68 è appunto un mondo, quel mondo nato dall’Illuminismo e dalla Rivoluzione francese, il mondo borghese. A finire è dunque una particolare configurazione dell’età moderna, con la quale finisce l’immagine borghese del mondo che si era andata lentamente affermando nei secoli, così come indagato da Franz Borkenau in un suo straordinario saggio degli anni Trenta. In questo senso il ’68 è una rivolta contro le istituzioni che avevano dato vita a quel mondo, e quindi contro quella Università, quella scuola e quel sistema educativo, contro la famiglia, il sesso, la morale, la cultura e contro l’organizzazione economica che quel mondo si era dato. Il ’68 è una rivoluzione totale che vuole farla finita una volta per tutte con quel mondo, e ogni sua espressione e manifestazione è solo l’inizio di un rivolgimento molto più complesso e articolato. È dunque una rivoluzione antiautoritaria, perché vuole mettere in discussione i ruoli, e linguistica, perché ogni mondo ha una sua propria lingua che si può difendere, combattere o reinventare. È una rivoluzione libertaria, senz’altro, perché vuole rovesciare la morale borghese, la famiglia e il sesso, insieme al modo di vestire, di mangiare, di abitare e di vivere la vita quotidiana. È un po’ di possibile, un evento che crea una nuova esistenza e produce una nuova soggettività, come avrebbero detto Gilles Deleuze e Felix Guattari. Ma è anche, e decisamente, una rivoluzione anticapitalista, che di quel sistema economico-sociale si vuol disfare per aprire le porte a rapporti sociali, economici e lavorativi più liberi e giusti. Non c’è ’68 senza ’69, non bisogna dimenticarlo, ovvero non ci sono studenti dentro e contro l’università, senza operai in lotta dentro e contro la fabbrica. In questo senso il ’68 fa parte di una lunga lotta che annovera tra le sue date il 1378 del tumulto Ciompi a Firenze, il 1525 della battaglia di Frankenhausen, il 1789 della presa della Bastiglia, il 1793 dei giacobini neri ad Haiti, il 1848 dei moti radicali in Europa e il 1871 della Comune di Parigi. Senza dimenticare il 1917 dell’assalto al Palazzo d’inverno e dei soviet. La data segna anche l’inizio della fine dell’organizzazione culturale borghese, e quindi, insieme all’Università moderna, inizia la fine dell’intellettuale, quello nato con l’affaire Dreyfus, e anche l’artista e l’opera d’arte iniziano a essere radicalmente ridefiniti (per ironia della sorte, Pino Pascali, uno degli artisti italiani che più ha contribuito a ridefinire l’opera e i suoi confini, muore proprio nel 1968). È dunque, l’abbiamo detto, l’inizio di una fine, ma è anche l’inizio di una transizione, quella da un mondo a un altro. Sì, perché, è sempre De Martino a spiegarlo, con la fine di un mondo, ne inizia uno nuovo, così come la fine della civiltà greco-romana segna l’inizio di un un’epoca imprevista, straordinariamente ricca di intelligenza poetica e scientifica e di innovazioni tecnologiche, politiche e sociali, che durerà 1000 anni. Con il 1968 allora, e lo si vede bene nel lungo ’68 italiano che dura fino al ’78, inizia la transizione dall’immagine borghese all’immagine moltitudinaria del mondo, ovvero inizia la transizione dal moderno al postmoderno. Il ’68 è, in questo senso, l’ultima delle rivoluzioni moderne (anche solo delle forme di vita e senza presa del potere, ma sempre di rivoluzione si tratta) , come il ’77 sarà la prima delle insurrezioni postmoderne (e la differenza tra rivoluzione e insurrezione non è una questione puramente linguistica, essendo il concetto di rivoluzione, scientificamente e politicamente, tutto dentro l’immagine borghese del mondo). Il ’68 allora è solo un inizio, come recita il titolo di questa mostra che riprende lo slogan più famoso del maggio parigino, perché non è che l’inizio di un mondo nuovo, il nostro mondo, quello nel quale ci troviamo immersi oggi. Ripensare il ’68 esclude quindi toni nostalgici e apocalittici, non c’è nulla di irrimediabile e nulla da rimpiangere tra la macerie di quel mondo che allora iniziò a finire. C’è invece, davanti a noi, un mondo ancora nuovo che chiede di essere inventato e costruito, giorno per giorno, con intelligenza e amore. Sotto ogni selciato, c’è sempre una spiaggia.
*dal catalogo Mondadori Electa della mostra
ESTRATTI DI INTERVENTI DAL GIORNALE CATALOGO DELLA MOSTRA
ROSSANA ROSSANDA
Penso che sia meglio non confondere arte e politica, sono due settori totalmente diversi e implicano diversi criteri di misura. Perciò, a un’opera che si dichiara artistica va chiesto soltanto, secondo me, se lo è davvero e secondo quali criteri.
(…) L’esperienza del «manifesto»: il giornale si proponeva di opporre la nostra concezione al problema di una politica comunista. Non eravamo d’accordo con le posizioni del Partito comunista italiano, né in tema di scelte internazionali né interne, e nemmeno sul regime interno del partito. Il movimento del ‘68 pareva opporsi soprattutto a quest’ultimo, in tema di libertà e di rapporti con la sfera della persona.
(…) Non credo che si possa imputare al Pci una forma di «repressione violenta». La repressione si è espressa soprattutto nel rifiuto di affrontare le questioni che il ‘68 stava ponendo. La repressione è venuta realmente da parte dell’«avversario di classe», sia sociale che politico. Piazza Fontana è stato un tentativo fascista, per il quale in forma contorta si è avuta anche una condanna. Ma non è l’unico attentato in senso proprio che è stato giocato in chiave anti-68. Da parte del Pci, c’è stato un appoggio diretto o indiretto alla critica delle tesi studentesche e della gioventù operaia che ne era coinvolta; non è detto che queste critiche siano state meno serie. Il movimento degli studenti è stato isolato, mentre in genere le tematiche del ‘68 sono sopravvissute in Italia in vari settori, soprattutto nella critica alle cosiddette «istituzioni totali», per tutto il decennio successivo (manicomi, ospedali, esercito, ecc.). Nel frattempo l’afasia del Partito Comunista contribuiva alla sua stessa decadenza, non solo in Italia ma anche in altri paesi.
(…) Non penso che la politica, come noi l’abbiamo sperimentata e così come l’ha fatto l’inizio del secolo scorso, fosse «utopica». E non auguro a nessuna politica di esserlo, se utopico significa non avere collocazione in nessun luogo. Inoltre, non vedo molto che cosa sia rimasto oggi di una così profonda modificazione dei mezzi e dei linguaggi. Mi piacerebbe, ma, non vedo chi e dove. Siamo ancora in piena crisi delle tematiche del ’900.
(da un’intervista di Mara Chiaretti)
LUCIANA CASTELLINA
Il ’68 non è stato un improvviso, spontaneo movimento di protesta come spesso erroneamente si dice. È stato l’approdo di una riflessione (e di un’esperienza) maturata nel corso dei meravigliosi anni ’60 che hanno segnato un mutamento storico dopo la fase del dopoguerra e della ripresa economica. È in questo periodo che si comincia a fare i conti con il capitalismo avanzato e le nuove contraddizioni che fa emergere, non più con l’arretratezza. Su questo punto si era aperta la prima vera polemica nel Pci di cui il gruppo del Manifesto, ancor prima di dar vita alla Rivista, era stato in vario modo protagonista. È su questa novità, che motiva l’insorgenza del movimento, che si realizza il nostro incontro con il ’68, sia pure scontando importanti differenze generazionali.
(…) La politica culturale del Pci ha certamente avuto momenti di deprecabile chiusura, dettati più dalla formazione del suo gruppo dirigente più anziano che dal settarismo. E tuttavia il Pci – si pensi a come era l’Unità – ha svolto uno straordinario ruolo nell’ammodernamento culturale di larghe masse popolari. Non è un caso, tanto per fare un esempio, che, sebbene divisi fra loro, sia i pittori neorealisti che quelli astrattisti, fossero tutti iscritti a quel partito. E poi: all’inizio degli anni ’60, proprio l’animatrice della Casa della Cultura di Milano – punta avanzata del più eterodosso dibattito cultuale dell’epoca – è stata chiamata da Togliatti a dirigere la Commissione culturale nazionale. Si trattava di Rossana Rossanda.
(…) Il cinema e le arti figurative sono parenti. Il discorso sull’una è analogo a quello sulle altre. Quanto al loro essere arte se rivoluzionarie o rivoluzionarie solo se arte, si tratta di un dibattito ben lungi dall’essere concluso. Ricordo che nel Pci ci fu un aspro conflitto sul tema. Non è un caso però che il quadro simbolo della nostra generazione sia stato Guernica di Picasso. E che Toti Scialoja, certo non un conformista, abbia inalberato polemicamente contro l’arte per l’arte, la protesta di Hoffmann: «Si viveva solo per l’arte e per essa si sttraversava la vita, un’epoca tragica e fatale ha afferrato l’uomo col suo pugno di ferro e il dolore gli strappa gli accenti che prima gli erano ignoti».
(da un’intervista di Mara Chiaretti)
MARIO TRONTI
Ricordo in particolare un corteo a via del Corso, durante il quale invece dello slogan usuale «potere studentesco», improvvisamente venne fuori lo slogan «potere operaio», allora pensai: ecco, c’è stato il salto.
(…)
Quello che veramente è rimasto del ’68 è piuttosto il lato negativo. Nel senso che il carattere del ’68 è stato soprattutto quello di una rivolta antiautoritaria, e allora fu giusto perché ce n’era bisogno, perché questo era un paese in cui il paternalismo era molto forte, quella dei figli contro i padri fu una rottura molto forte. Ma lì si è innescato un processo che nel tempo ha mostrato molte negatività, un processo dissolutivo e non costruttivo. Nel post-operaismo c’è questa polemica tra potere destituente e potere costituente, ecco in questo senso il ’68 è stato un potere destituente e non è riuscito a essere costituente, a creare nuove forme. Per esempio, quello che oggi è il senso comune di massa, il più pericoloso, ovvero l’antipolitica, se andiamo a scavare bene lo ritroviamo in origine nel ’68, perché lì si cominciarono a destrutturare le forme politiche tradizionali. Nel ’68 entrano in crisi i grandi partiti di massa, non a caso i protagonisti del ’68 negli anni seguenti faranno i gruppi, il gruppo era il rifiuto del partito, il partito era visto come un elemento da battere, distruggere, eliminare. Per me uno dei luoghi culturalmente più interessanti del ’68 è stato quello tedesco, quello di Berlino e di Rudi Dutschke che era il fautore dell’idea della «lunga marcia dentro le istituzioni», quello poteva essere un elemento neocostituente, ma in Italia non c’è stato, e questo è stato un grave limite. Poi è nata la polemica anti-istituzionale, ma le istituzioni sono rimaste sempre quelle. Il ’68 insomma è stato destituente ma non costituente. Quello che mi preme sottolineare è la sua ambiguità. Il ’68 è stato ombre e luci, sicuramente più luci che ombre, grande luce nel suo momento, ombre dopo.
(da un’intervista di Nicolas Martino e Giovanna Ferrara)
FRANCO PIPERNO
Il ’68 è stata una critica spietata dell’università italiana che, proprio in quegli anni andava americanizzandosi, ovvero omologandosi all’azienda e perseguendo una formazione universitaria zeppa di idiotismi specializzati. L’occupazione delle università, le pratiche di autoformazione, i seminari interdisciplinari, l’assemblea come ricomposizione dell’unità del sapere, tutto questo introduce nella vita dello studente un sentimento dello spazio-tempo riassumibile senza residui nello slogan: qui e ora. Il movimento del ’68, portando fino in fondo la critica del sapere articolato nelle innumerevoli discipline accademiche, mette allo scoperto la relazione di legittimazione, generalmente taciuta, che intercorre tra la frammentazione del sapere e la divisione sociale del lavoro, tra lavoro manuale e intellettuale. Qui va cercato l’inizio di quella fortunata alleanza tra studenti e operai, destinata a segnare l’epoca. Viviamo tutti nell’epoca alla quale il ‘68 ha dato inizio.
(…)Nel movimento del ’68 convergono tendenze etico-politiche diverse, talvolta opposte. Ma qui la differenza è una risorsa: la molteplicità permette di evitare il settarismo, rende la forma-movimento un soggetto radicalmente diverso dalla forma-partito. Da questo punto di vista, tutte le tendenze hanno fornito un catalogo degli errori. Il che non è poco, dal momento che alla verità ci si avvicina per tentativi ed errori. Lode dell’errore, dunque: alla fine impareremo a vincere. Bisogna ricordare che, comunque, le tendenze pur differenti avevano creato una lingua veicolare, il cui lessico di base era preso in prestito dai vari rami della tradizione marxista innestata in buona sostanza dal pensiero francofortese e dall’operaismo italiano. Quest’ultimo sembra aver resistito meglio all’usura del tempo. Il neo-operaismo italiano pone infatti al centro l’operaio, ma non quello orgoglioso del suo lavoro, piuttosto quello che lo avverte come un furto del proprio tempo, una condizione da odiare e rifiutare, una disgrazia alla quale sottrarsi «qui e ora». È difficile non vedere l’attualità sovversiva di questo rifiuto anche ai giorni nostri, quando il lavoro ripetitivo, manuale o intellettuale che sia, viene reso più efficace ed efficiente, consegnandolo alla macchina informatica. (da un’intervista di Ilaria Bussoni)
Repubblica 30.9.17
Roberto Calasso
Il terrorismo, l’Europa, la Silicon Valley, il ruolo della cultura, la sua Adelphi
E il nuovo libro, “L’innominabile attuale”. Parla lo scrittore-editore
“In un mondo senza il sacro siamo diventati solo turisti”
intervista di Dario Olivero
IL LIBRO
L’innominabile attuale di Roberto Calasso (Adelphi, pagg. 192 euro 20)
MILANO «Dal maggio del ’45 a oggi si è entrati in una zona che non ha nome, per questo è l’innominabile attuale». Roberto Calasso siede nel suo ufficio all’Adelphi, nel centro di Milano. Sulla scrivania l’ennesimo caffè, davanti gli scaffali con quel che resta della biblioteca di Bobi Bazlen, il codice genetico da cui è fiorita la casa editrice da sempre più inattuale e più attuale d’Italia. Attuale è parola che ricorre spesso. A partire dal titolo del nuovo libro L’innominabile attuale appunto, seguito ideale del profetico La rovina di Kasch del 1983. In questo tempo senza nome vive l’ultima evoluzione dell’Homo sapiens, quello che Calasso definisce Homo saecularis: noi.
«Homo saecularis – dice – è un risultato molto sofisticato della storia. Per arrivare a lui bisogna essersi scrollati di dosso una quantità di pesi. E questa mancanza di gravami di vario genere – religioso, politico, tradizionale – non ha prodotto soddisfazione o felicità, ma una specie di panico. La vittoria della secolarità, che ormai pervade tutto il mondo, è paradossale. Homo saecularis si è trovato di fronte un mondo che non è in grado di trattare. Ha vinto ma gli manca qualcosa di essenziale, domina ma si rivolta contro se stesso. Tutti i nomi che usa sono inadeguati e richiederebbero quella “rettifica” che secondo Confucio era il primo compito del pensiero. Di qui il titolo del libro, che si è imposto dopo 34 anni di latenza».
Il libro è diviso in due parti. La seconda è una polifonia di voci (Virginia Woolf, Simone Weil, Walter Benjamin, Céline), che descrivono momenti di ciò che avveniva dal ’33 al ’45, dalla presa del potere di Hitler sino alla fine della Seconda guerra mondiale. La prima parte invece è tutta sul presente. «Le due parti – spiega Calasso – sono l’una il contrappeso dell’altra. La prima vagherebbe un po’ nell’aria, parlando di questo mondo senza appigli fermi, se non si presupponesse l’altra, che è un ultimo, tremendo scontro, come fra rocce che cozzano tentando di distruggersi e autodistruggendosi. Chi non conosce quel presupposto non vede il basamento di quanto sta succedendo oggi».
Una categoria che utilizza è quella del turista. Perché?
«Il mondo di Homo saecularis non ha una categoria che lo rappresenti. Non si può dire che tali siano l’impiegato, l’operaio, il manager, il politico. Turista, invece, è l’unica categoria che copre tutto. Il turista di cui parlo non è solo quello che viaggia, ma il modello antropologico della realtà virtuale. I tecnici della realtà virtuale parlano di una “realtà aumentata”, che però si fonda su una realtà diminuita, a cui è stato sottratto un carattere imprescindibile: l’irreversibilità. Su questa via si incontrano sia il bigotto dell’iperconnessione sia l’energumeno che vuole mettere a posto il mondo».
L’Homo saecularis si rivolta anche contro la democrazia.
«La democrazia formale è l’unico modello che rende vivibile il mondo, anche se, per pure ragioni demografiche, è pressoché impraticabile. Comunque, se non ci fosse, per esempio in India vi sarebbe il massacro continuo. È l’ultimo sbarramento per rendere la vita tollerabile, al di fuori ci sono solo tortura e regimi di polizia. Ma ogni democrazia deve difendersi da enormi forze contrarie».
Uno dei capisaldi democratici in discussione è l’idea che la rappresentanza sia superata dalla partecipazione diretta.
«La mediazione è decisiva. Non rispettarla è una forma di pensiero ignaro, perché la mediazione è ciò che ci costituisce, anche se viene continuamente svillaneggiata come fosse ciò che falsifica tutto. Ma la nostra percezione è già una mediazione, in senso fisiologico. Per vedere qualcosa operiamo un filtraggio. Se non lo si ha presente, si finisce per pensare che la mediazione sia l’agente che ti imbroglia, il giornalista ingannatore, il politico o, come è accaduto, il maligno ebreo. È triste. Questa avversione indica che è diventato più grezzo il tessuto del pensare. Nel disintermediarsi del mondo, chi non ha il dono della refrattarietà si lascia facilmente ingannare. E prende la sua voce per vox populi. Homo saecularis si è sbarazzato delle religioni, ma è tremendamente
credulo».
Una delle cause è la rivoluzione digitale.
«È un immenso rivolgimento. Di cui stiamo vedendo solo l’inizio. Nella Silicon Valley, che è il suo epicentro, si assiste a un fenomeno che non ha precedenti. Ci sono alcuni imprenditori, che possono anche essere considerati come intellettuali audaci o imbonitori farneticanti, a seconda delle prospettive, e questi imprenditori avviano investimenti che modificano il mondo giorno per giorno. Sotto il nome di intelligenza artificiale si raccoglie oggi non più, come negli anni Settanta, una sorta di dottrina esoterica, ma una potenza economica dirompente. Laggiù non si parla e non si scrive d’altro che del momento, in parte desiderato in parte temuto, e per molti piuttosto vicino, in cui le macchine saranno più intelligenti di noi. A rimanere esclusa è la parola più importante: coscienza. Su che cosa sia e come funzioni nessun neuroscienziato è riuscito a dire qualcosa che vada oltre un goffo balbettio. Sarebbe d’aiuto per tutti leggere le Upanishad ».
Che cosa pensa dell’attuale stato dell’Europa?
«Spero che l’Europa continui a esserci come misura di autodifesa minima, ma ne vedo l’impotenza totale. La politica europea è solo reattiva, non attiva. Un tentativo di reagire a fatti soverchianti. Alti funzionari tentano di tenerli sotto controllo, ma quando si comincia a usare l’espressione “tenere sotto controllo” vuol dire che tutto è già fuori controllo».
Le categorie che lei utilizza per nominare i nostri tempi sono decisamente inattuali. Per esempio l’idea di sacrificio. Come può un concetto così arcaico essere utile per descrivere l’attualità?
« Il sacrificio è la cosa più difficile da pensare che abbia mai incontrato. Non è certo una mia invenzione, lo si ritrova ovunque nella storia. Per un lunghissimo periodo le civiltà più distanti sono accomunate dal fatto che in forme diverse tutte praticano il sacrificio, dalla Cina all’India alla Grecia alla Palestina. Poi c’è una svolta: con Gesù il sacrificio vuole finire per sempre e diventa, nella messa, memoria del sacrificio. Ma al tempo stesso la morte di Gesù è un ritorno alle origini del sacrificio, dove è il dio a sacrificarsi. Infine c’è l’oggi, in cui la pratica rituale è espunta, non ha diritto di cittadinanza. Ma l’assassinio-suicidio dei terroristi islamici, minaccia che continua a paralizzare il mondo, è una evidente forma sacrificale, dove la vittima è l’attentatore e tutti coloro che da lui vengono uccisi sono il frutto del sacrificio. Il sacrificio non scompare perché la società secolare ha deciso di non usarlo più come atto rituale. Torna in altre forme. Il terrorismo – e soprattutto la guerra, a partire dalla Prima guerra mondiale. Se legge Gli ultimi giorni dell’umanità di Kraus, si parla più di sacrifici che di battaglie. Poi nella Seconda guerra mondiale il sacrificio diventa opera di disinfestazione, con i campi di sterminio. Che, per un orripilante equivoco, si continua a chiamare con la stessa parola che designa il sacrificio di ringraziamento celebrato da Noè dopo il diluvio: olocausto ».
Dov’è oggi il sacrificio?
«Non è più una categoria religiosa. Se il religioso implica un contatto con l’invisibile, nel caso del terrorismo islamico questo non sussiste. Il frutto del sacrificio non è più nell’invisibile, ma nella moltiplicazione degli uccisi nel mondo visibile. Ma il sacrificio continua a esserci, la società non riesce a vivere senza».
Ma la ragione ultima del terrorismo islamico è generalmente considerata religiosa.
«Definizione che mi sembra impropria. All’origine, c’è piuttosto il bisogno di una vendetta globale, un rigetto del mondo occidentale. Un certo numero di persone, in una fascia di paesi che va dal Marocco all’Indonesia e comprende più di un miliardo e mezzo di abitanti, si sente sopraffatta, esautorata. Nel modo di vita, di essere. Così nel libro parlo anche di pornografia, non meno importante della conquista economica. Il fatto che da un momento all’altro, in paesi dai rapporti molto tortuosi con l’eros, la visione di un numero sterminato di corpi femminili nudi che compiono atti sessuali diventasse accessibile gratuitamente in rete nel giro di pochi secondi è stato uno shock enorme, che irrideva il desiderio nel momento in cui lo suscitava ».
Lei ha scritto che quando la cultura viene accostata all’utile, la vera cultura muore.
«La parola “utile” è il disastro su cui si fonda tutta l’economia e risale a Bentham, suo progenitore, spesso ignorato. Il calcolo costi- benefici in un certo ordine di cose è totalmente sviante. Nell’ordine del piacere, come di tutte le cose fondamentali della vita, non si può applicare».
Ma nel suo libro lei parla dei refrattari a questo stato di cose, quelli che non si ritrovano nella figura dell’Homo saecularis. Sono sperduti, soli, neanche l’università, lei scrive, è un luogo dove trovare ascolto.
«Mi sembra che l’università come istituzione stia perdendo ogni linfa vitale, non solo in Italia, ma ovunque. So che vi operano tuttora persone di grande qualità, ma soffrendo».
Cito da una sua intervista: «Negli anni Cinquanta in Italia vi erano tre aggregazioni: quella marxista, quella laico-liberale e quella cattolica. I marxisti, se erano intelligenti, leggevano i libri Einaudi, o comunque “Il contemporaneo”.
I laici-liberali leggevano “Il Mondo” e i cattolici, tendenzialmente, leggevano assai poco. I democristiani erano appagati dalla pura gestione del potere e avevano capito che la cosa più accorta era quella di lasciare la cultura alla sinistra».
«Penso ancora che la descrizione sia esatta. Ma riconosco che in quegli anni erano vive e attive persone ben più significative rispetto a oggi. Tuttavia provavo una certa insofferenza per quel mondo tripartito. A cui Adelphi si è opposta fin dall’inizio, tenendosene fuori».
I libri Adelphi hanno accompagnato in modo trasversale gli italiani, compresa la classe dirigente del paese. Secondo lei quanto hanno inciso culturalmente?
«Faccio fatica a riconoscere una classe dirigente nell’Italia di oggi e certamente non la collego con ciò che pubblichiamo. Mi interessa solo l’efficacia sui singoli. Le persone che leggono i nostri libri sono le più varie. Talvolta si incontrano e si riconoscono tra loro. Ma non ho mai contato su un effetto sociale o politico. L’editore come pedagogo è una concezione per me del tutto estranea».
Non si sente solo?
«Non tanto, perché considero un prodigio ricorrente che i libri ancora si vendano. Sono tentato di pensare che un certo numero di persone congeniali a quello che pubblichiamo ci sia ancora. E non sono poche – anche se non così percepibili. Ignoti lettori nell’innominabile attuale».