Repubblica 2.9.17
Vecchio e
nuovo ordinamento a confronto: fallito l’obiettivo di anticipare l’età
di uscita dall’università. I docenti: non ha funzionato soprattutto il
triennio iniziale che offre pochi sbocchi professionali
Laureati sempre in calo e titolo dopo i 27 anni il flop della riforma 3+2
di Salvo Intravaia
MENO
laureati e titolo “completo” che arriva sempre dopo i 27 anni. La
riforma universitaria Berlinguer/ Zecchino, meglio conosciuta come
quella del “3+2”, ha mancato due dei suoi obiettivi principali. Secondo i
dati, i giovani che oggi riescono a concludere l’intero percorso
quinquennale o quello a ciclo unico sono addirittura meno rispetto ai
laureati del 2000, ultimo anno del vecchio ordinamento. E per acquisire i
due titoli (quello triennale più quello biennale, detto anche
magistrale) si va ancora fuoricorso. Nel 2016, i laureati magistrali o
con percorso a ciclo unico (Architettura, Odontoiatria, Medicina,
Veterinaria, Giurisprudenza, Farmacia) sono stati 130mila. Sedici anni
prima, i laureati quadriennali, quinquennali e dei percorsi di sei anni
furono quasi 144mila. Va aggiunto che oggi però abbiamo anche 175mila
laureati triennali, che però non sono sovrapponibili per molte ragioni
ai vecchi laureati.
L’altra criticità riguarda la durata dei percorsi
di studio: chi ha pensato che con l’introduzione della laurea triennale
e di quella specialistica nei nostri atenei i tempi d’uscita si
sarebbero accorciati ha sbagliato i suoi calcoli. Perché nel 2000, ai
tempi del cosiddetto “vecchio ordinamento”, ci si laureava in media a
27,6 anni, sedici anni dopo siamo scesi a 27,1. Un piccolo passo avanti
che, per molti, non giustifica la rivoluzione del “3+2”. Anche perché,
per completare il percorso triennale occorre mediamente studiare 4,9
anni: a fare più fatica i ragazzi che frequentano le facoltà del gruppo
letterario (Filosofia, Storia, Lettere), che mediamente impiegano 5,2
anni. Anni che diventano 7,4 anni per i percorsi a ciclo unico di cinque
anni e oltre.
Ma, nonostante le novità introdotte, i due mondi sono
rimasti abbastanza immutati, con poco meno di un milione e 700mila
iscritti e 280/290mila immatricolati. «Il difetto maggiore di quella
riforma è stato quello di adottare un sistema top-down: uguale per tutte
le facoltà», dice Eugenio Gaudio, rettore dell’università La Sapienza
di Roma. Che aggiunge: «A mio avviso, andavano differenziate le lauree
triennali che avevano un chiaro profilo professionalizzante dalle altre.
Ma non parlerei di fallimento totale. Le lauree triennali delle
Professioni sanitarie, ad esempio, non sono un mero riassunto della
laurea in medicina. Rappresentano una novità, come la laurea
Infermieristica, che ha prodotto un innalzamento della qualità del
sistema sanitario». Aggiunge Gaetano Manfredi, presidente della
Conferenza dei rettori: «Lo spirito era quello di creare una base molto
larga di laureati triennali, i cui profili professionali avrebbero
dovuto trovare riscontro immediato nel mercato del lavoro, e una fascia
minore di laureati magistrali. Ma le cose sono andate diversamente.
Oggi, il 79/80 per cento dei triennalisti prosegue e consegue la laurea
magistrale. La laurea triennale, che avrebbe dovuto attirare i diplomati
provenienti dagli istituti tecnici e professionali, non è sempre
professionalizzante e spesso non trova riscontro nel mercato del lavoro.
Il vero tema è questo: riconquistare i giovani dei tecnici e dei
professionali che oggi si iscrivono sempre meno all’università».
Un
occhio attento sul sistema universitario è quello di Almalaurea, il
consorzio nazionale di 74 atenei. «È difficile paragonare due sistemi
così diversi. Qualcosa però è migliorato: nel vecchio ordinamento si
laureava in regola il 9 per cento degli iscritti, oggi siamo a quota 35
per cento. Un dato che comunque non ci soddisfa, soprattutto al cospetto
delle altre nazioni», spiega Francesco Ferrante, membro del Comitato
scientifico del consorzio con sede a Bologna. Ma non solo. «I laureati
sono pochi perché il mercato del lavoro, in maniera anomala, ne richiede
pochi per un paese avanzato. E in Italia non ci sono abbastanza
incentivi per convincere i giovani a proseguire gli studi: all’estero le
cose sono completamente diverse, specialmente nei paesi nordici. E Poi —
conclude — non dimentichiamo che in Italia l’università ha subito un
consistente taglio di risorse: un laureato italiano costa la metà di uno
tedesco».