Repubblica 2.9.17
La scuola e i limiti della democrazia
di Guido Crainz
È
REALMENTE democratica la nostra università? Questa domanda chiama in
causa nel suo insieme la nostra istruzione pubblica: aiuta realmente a
rimuovere le differenze sociali e culturali di partenza? Due
interrogativi suggeriti dalla sentenza dell’onnipresente Tar del Lazio
che ha dichiarato illegittimo il “numero chiuso” alle facoltà
umanistiche della Università Statale di Milano.
Un “numero chiuso” o
“programmato” è normalmente previsto per Medicina e altre facoltà nelle
quali siano centrali i laboratori o altri strumenti, ed era stato
motivato invece in questo caso dalla carenza di docenti (in coerenza
anche con le indicazioni ministeriali sul rapporto docenti- studenti).
Per molti versi la scelta che era stata compiuta fra tanti contrasti
dall’ateneo milanese chiama in realtà in causa un insieme di nodi che
vanno ben al di là di essa.
RINVIA al più generale ridursi del numero
dei docenti (oltre che alla carenza di strutture e spazi adeguati,
soprattutto nei grandi atenei) ma costringe a una riflessione molto più
profonda.
È stata ricordata quest’anno la Lettera a una professoressa
di don Milani di cinquant’anni fa, e le parti più efficaci di quel
testo erano le tabelle che traducevano in modo “visivo” i risultati di
un’indagine del Censis appena compiuta. Risultava così in modo icastico
che la presenza dei “figli di papà” (quello era il linguaggio e quella
era l’epoca) cresceva in maniera esponenziale nel corso degli studi e
altrettanto drasticamente diminuivano i ragazzi di famiglie povere.
Ampliando almeno un po’ le categorie (e inserendovi ad esempio
l’istituto superiore frequentato) le conclusioni non sarebbero oggi
molto diverse: il che significa che la nostra istruzione pubblica
disattende ancora i dettami del terzo articolo della Costituzione,
secondo il quale è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli
economici e sociali che limitano la reale uguaglianza dei cittadini.
Di
questo stiamo parlando, e anche discutere della decisione presa a suo
tempo dall’Università Statale di Milano ci costringe a misurarci con
nodi immensamente più grandi e assolutamente ineludibili. Senza ignorare
naturalmente gli elementi più diretti sottesi in questo caso alle
opposte opzioni: da un lato il “principio di democrazia” che verrebbe
incrinato dal “numero chiuso” o “programmato” (pur presente, come s’è
detto, in altre facoltà), e sul versante opposto la necessità appunto di
una “programmazione” che renda effettiva e fungibile (o perlomeno, un
po’ meno aleatoria e precaria) la partecipazione degli iscritti alla
vita dell’università. Un’utopia assoluta, certo, ove si pensi alla
realtà dei grandi atenei, e certamente non risolvibile con l’adozione o
meno del numero chiuso (ma forse in questo più generale scenario anche
questa scelta potrebbe cessare di essere un tabù).
In realtà
sarebbero oggi fuori luogo disfide o tenzoni su questo singolo aspetto, e
anche questa vicenda potrebbe favorire invece una riflessione che
guardi al futuro e al tempo stesso vada a fondo sul passato. Ci si
interroghi cioè senza reticenze sul percorso che ha portato alla
situazione attuale. E si inizi da lontano: dalla mancata riforma
universitaria degli anni Sessanta, e dalla “liberalizzazione degli
accessi” all’università che ne costituì il disastroso surrogato, sino
alla inerzia degli anni Ottanta e poi alle vicende più recenti (ivi
compresa la disattenzione per quegli aspetti che la bistrattata “riforma
Berlinguer” pur richiamava: in primo luogo la necessità di sostegni
didattici integrativi capaci di attenuare le carenze di partenza).
È
cresciuto così in modo abnorme il numero di giovani che si sono iscritti
all’università ma non sono riusciti a completare gli studi: in questo
modo un numero crescente di cittadini ha avuto un’esperienza negativa
della nostra massima istituzione culturale, e non possono sfuggire le
conseguenze civili di questa delusione. E come in Assassinio sull’Orient
Express di Agatha Christie, in questa storia non vi è un unico
colpevole ma tutti gli attori vi appaiono in varie forme responsabili:
dal ceto politico a quello accademico e sino alle rappresentanze
studentesche. A esser chiamate in causa dunque non sono solo le scelte
realmente compiute, le riforme rinviate o combattute, ma anche i silenzi
e le inerzie. Di questo stiamo parlando: o perlomeno, di questo
dovremmo parlare.