Repubblica 29.9.17
Casa a famiglia italo etiope, fascisti e residenti la cacciano
Esplode
la rabbia del rione: “Tolgono le abitazioni alle mamme per darle a chi
viene da fuori”. E qualcuno se la prende con i rom: “Noi non abbiamo
niente, a loro danno pure il sussidio”
La guerra dei poveri al Trullo “Trattati peggio degli stranieri”
di Paolo G. Brera
ROMA.
Rossana sarebbe agli arresti domiciliari, ma per far due chiacchiere è
scesa dagli amici in piazza. Seduta accanto alla fontana senz’acqua,
alla luce sghemba dei pochi lampioni accesi spiega l’edilizia sociale di
Montecucco, scampolo del Trullo che fa borgata a sé nella periferia
difficile di Roma Sud.
«Nonno era assegnatario della casa
popolare, ma non c’è più da anni. Un giorno mio fratello mi ha buttato
fuori di casa perché si è messo con una ragazza, e io sono salita nei
lavatoi e mi sono costruita casa mia». Le chiamano «le mansarde»,
sottotetti ricavati in qualche modo e allestiti come si riesce.
«Con
il mio compagno ci abbiamo speso decine di migliaia di euro per il
bagno, l’impianto elettrico, i pavimenti». Ora lui è in carcere a
Rebibbia, «e ci sono pure mio zio e mio figlio», sorride tenendo per
mano il nipotino.
Anche Giorgia, 31 anni, vive «in mansarda» con
la sua bimba. Sono nata al lotto 12, in via Porzio, e ho vissuto con
nonna fino a quando ho preso una mansarda per me insieme al mio compagno
di allora». L’anno scorso Giorgia ha rilevato l’edicola nella piazza, e
tira avanti.
Montecucco è un quartiere nel quartiere; una
banlieue di povertà romana in cui i nuovi diritti generati
dall’immigrazione precipitati su equilibri sedimentati in decine di
anni. Servirebbe la mano pubblica, la mediazione sagace. Ma la mano
pubblica è la stessa che lascia sfitti i negozi e non crea spazi per
attività culturali; che spegne la fontana per la siccità ma non ripara
«da un anno » la perdita da un palazzo. La stessa che costruì il parco
giochi ma poi lascia le altalene rotte come statue dissennate.
«Qui
davvero la gente non sa cosa mangiare dal quindici del mese», dice Anna
la barista. «Ci sono dieci persone, sedute lì fuori? Fumano tutti, ma
se hanno le sigarette in due sono tanti».
Una polveriera di
diritti inesistenti in cui centinaia di persone hanno imparato a
rosicchiare con gli incisivi affilati quel poco che c’è: «Avessero fatto
subentrare gente come noi l’avremmo capito, non avremmo avuto da dire.
Ma non puoi mandare una famiglia di stranieri levando la casa a una
mamma italiana».
Non è la prima volta che scendono in piazza per
combattere la cacciata di un inquilino abusivo per ospitare “stranieri”,
come li chiamano anche se stranieri non sono, anche se hanno
cittadinanza italiana. «Tre anni fa una famiglia di egiziani rinunciò —
dice Carla — L’anno scorso la cubana: per farle posto cacciarono di casa
Valentina, vedova con due figli. Mi domando: com’è possibile sia
toccato alla cubana, con persone in graduatoria da trent’anni? ».
Carla
ieri era in piazza a protestare: «Mia madre, Ines Amici, fece domanda
nel 1972. È morta senza che le venisse assegnata. Noi per anni abbiamo
abitato in 12 in casa di mio suocero al lotto 15, poi si è ammalato di
Alzheimer... Ho chiesto casa agli assistenti sociali, hanno detto no.
Dal 2004 vivo al lotto 17 dove facevo le pulizie. Mi sono messa
d’accordo con la signora, e alla sua morte siamo subentrati. Ho fatto la
sanatoria, ma non ho i soldi per l’affitto maggiorato per
l’occupazione. Mi chiedono 371 euro invece di 90, ma io faccio le
pulizie in nero, come faccio?».
Ecco perché non capiscono come mai
non spetti mai «a noi», la casa che viene assegnata «a gente di fuori»,
a «stranieri», «ai neri ». Probabilmente avevano tutti diritto alla
casa popolare, ma non l’hanno ottenuta e lo hanno perso occupando. «I
miei erano locatari con contratto regolare dagli anni ‘60 — dice
Marcella — ma il diritto non si trasmette ai figli. Quando a 48 anni ho
occupato un lavatoio per assoluta necessità, l’Ater mi ha denunciata:
processo penale, assolta. Ho fatto tutti i lavori che ho potuto
permettermi, nella mansarda: il bagno, per esempio, è perfetto. Ora tiro
avanti, ma la casa Ater non l’avrò mai, ho perso il diritto. E
potrebbero cacciarmi».
«Mia suocera ha fatto domanda più di venti
anni fa e ancora aspetta: io che la faccio a fare?», domanda Federica
D.A., 33 anni. Vive ancora coi suoceri: «Siamo in sei in 60 metri.
Lavoro in un supermercato, ma hanno ridotto le ore e guadagno 300 euro
al mese. La mia prima figlia ha 10 anni, suo papà è in carcere e lo ha
visto tre volte in vita sua. Ho chiesto una mano agli assistenti
sociali: inutile».
«Perché non dà un’occhiata in delegazione? Io
prendo 289 euro al mese di invalidità — dice Angelo Innocenti
aggrappandosi al bastone — e i rom con i sussidi per i figli prendono
assegni da 600 euro». Bastava un cerino, sì, per accendere il rogo.