Repubblica 28.9.17
M’inginocchio per un’America migliore
di Eric Reid
Contro
il razzismo e contro Trump. Il giocatore che un anno fa lanciò la
protesta durante l’inno spiega le ragioni del suo gesto, ormai virale
AGLI
inizi del 2016 ho cominciato a prestare attenzione ai resoconti che
parlavano dell’incredibile numero di persone di colore disarmate che
venivano uccise dalla polizia. Uno in particolare mi fece addirittura
piangere: riguardava l’uccisione di Alton Sterling a Baton Rouge, in
Lousiana, la mia città natale. Sarebbe potuto accadere a uno qualsiasi
dei miei familiari.
Ero furioso, mi sentivo ferito e scoraggiato.
Desideravo fare qualcosa, ma non sapevo cosa né come. Sapevo soltanto
che volevo fosse un gesto il più possibile rispettoso.
Poche
settimane più tardi, durante la fase di precampionato, il mio compagno
di squadra Colin Kaepernick decise di sedersi in panchina durante
l’esecuzione dell’inno nazionale, in segno di protesta contro la
condotta violenta della polizia. Lì per lì a dire il vero non me ne
accorsi, e nemmeno la stampa ci fece caso. Fu solo dopo la nostra terza
partita di precampionato, il ventisei agosto del 2016, che questa
protesta iniziò a richiamare attenzione a livello nazionale, scatenando
una reazione nei confronti di Colin. Il sabato prima della partita
successiva mi avvicinai al mio compagno per discutere di come avrei
potuto prendere parte alla dimostrazione e di come questa avrebbe potuto
avere un impatto più efficace e positivo sul movimento per la giustizia
sociale. Giungemmo alla conclusione che durante l’inno anziché sederci
ci saremmo inginocchiati.
Scegliemmo di inginocchiarci perché è un
gesto rispettoso. Ricordo di aver pensato che la nostra scelta era
paragonabile a una bandiera che sventola a mezz’asta quando si verifica
una tragedia.
Mi stupisce che la nostra protesta sia ancora,
erroneamente, vista come una mancanza di rispetto nei confronti del
Paese, della bandiera e del personale militare. Abbiamo scelto quel
gesto perché è esattamente l’opposto. Ho sempre pensato che gli uomini e
le donne che con coraggio hanno combattuto e sono morti per il nostro
Paese lo avessero fatto per garantirci la possibilità di vivere in una
società giusta e libera, e che tale definizione include il diritto di
potersi esprimere in segno di protesta. Non trovo parole adatte ad
esprimere la tristezza che provo di fronte alle accuse diffamatorie di
cui Colin, una persona che ha contribuito a creare il movimento a
partire solo dalle migliori intenzioni, è fatto continuamente bersaglio.
Chiunque conosca i rudimenti del football sa che il suo allontanamento
non ha nulla a che fare con le sue prestazioni in campo. È una vergogna.
So che prendendo parte a questo movimento rischio che la mia carriera
segua le sorti di quella di Colin. Ma, per citare Martin Luther King,
“arriva il momento in cui il silenzio equivale a un tradimento”. E ho
scelto di non tradire gli oppressi.
Sappiamo che il razzismo e i
privilegi riservati ai bianchi sono più vivi che mai. E che il
presidente Trump abbia rivolto a noi delle offese e definito invece
“ottime persone” i neonazisti di Charlottesville, in Virginia, ci
scoraggia e ci fa infuriare. I suoi commenti rappresentano un evidente
tentativo di inasprire la frattura che abbiamo cercato in ogni modo di
ricomporre. Tuttavia, trovo incoraggiante notare come i miei colleghi e
altri personaggi pubblici reagiscono ai commenti del presidente con
manifestazioni di solidarietà nei nostri confronti.
Riuscire a
mantenere il controllo sulla storia della nascita del nostro movimento è
importantissimo. Vogliamo l’uguaglianza per tutti gli americani, senza
distinzioni di razza e di genere. Ciò di cui adesso abbiamo bisogno sono
i numeri: abbiamo bisogno che più americani si schierino dalla nostra
parte.
Mi rifiuto di essere una di quelle persone che assistono
alle ingiustizie senza fare nulla. Voglio essere un uomo di cui i miei
figli possano essere orgogliosi, che tra cinquant’anni sarà ricordato
per essersi battuto per ciò che è giusto, anche quando non era l’opzione
più facile o più popolare.
© 2017 The New York Times (Traduzione di Marzia Porta) L’autore è un giocatore dei San Francisco 49ers