La Stampa 28.9.17
Quando è legittimo resistere al potere
Una
riflessione che torna d’attualità di fronte a giri di vite autoritari
come in Venezuela e in Turchia: finito il tempo dei monarcomachi resta
valido il principio per cui è giusto e doveroso opporsi ai tiranni
di Alberto Mingardi
«Sic
semper tyrannis». Così Bruto liberava Roma dall’ambizione di Cesare,
l’uomo che stava per sovvertire la repubblica. Ripeté le stesse parole
l’attore John Wilkes Booth mentre sparava, a guerra civile conclusa, a
Abraham Lincoln, un signore in cravatta e panciotto nel suo palco a
teatro.
Quant’è sottile la linea che separa il tirannicidio
dall’assassinio comune. È il destino del vocabolario politico, fatto di
parole stentoree e flessibili quant’altre mai. La Costituzione sovietica
del ’36 garantiva il suffragio universale diretto, ma gli elettori
potevano votare solo il Partito comunista. L’Urss si dichiarava
«protettrice della libertà dei popoli»: quella libertà poteva coincidere
soltanto con l’allineamento ai desideri di Mosca. La Dichiarazione del
1789 inserisce tra i «diritti naturali e imprescrittibili dell’uomo» la
libertà, la proprietà, la sicurezza e «la resistenza all’oppressione».
Quattro anni dopo, la Francia sarà teatro di un’oppressione che non
ammetteva resistenza.
I diritti inalienabili
Ogni tanto,
però, dobbiamo provare a pensare più chiaro. Pensiamo solo alle
intermittenti notizie che arrivano dal Venezuela o alle ombre che si
allungano sulla Turchia di Erdogan. Maduro trattiene in carcere 114
prigionieri politici. A Caracas i procuratori che indagano sui brogli
elettorali sono costretti alle dimissioni, a Istanbul gli avvocati che
difendono gli insegnanti arrestati dopo il presunto golpe finiscono in
galera anch’essi.
Dove comincia la tirannia, quand’è che la resistenza diventa legittima?
Nella
Dichiarazione d’Indipendenza americana (1776) si legge che il governo è
istituito allo scopo di garantire i diritti inalienabili alla vita,
alla libertà e alla ricerca della felicità. Proprio per questo «ogni
qual volta una qualsiasi forma di Governo tende a negare tali fini, è
Diritto del Popolo modificarlo o distruggerlo» e crearne uno nuovo. È
quel che fecero i Padri fondatori. Ma, per quanto conoscessero a
menadito il pensiero politico classico e moderno, la loro ribellione
avveniva su uno sfondo chiaro. Ciò che riusciva intollerabile era che la
Corona si rifiutasse di trattarli come i loro cugini inglesi.
Paragonavano le concrete condizioni di libertà di cui godevano nelle
colonie (inclusa la libertà di commerciare) a quelle della madrepatria.
La resistenza avveniva in nome di diritti considerati parte di un ordine
giusto e possibile, dal quale era Londra ad averli esclusi.
La
ribellione serviva per ripristinare, non per sabotare, il diritto. Nel
suo Policraticus (1159) Giovanni di Salisbury scrive che «chiunque non
agisca contro [il tiranno] tradisce sé stesso e tutto il corpo di leggi
della repubblica terrena». Giovanni aveva una visione organicistica
delle istituzioni pubbliche, «una specie di corpo che vive per
concessione divina, agisce sotto lo stimolo della suprema equità ed è
retto dalla guida della ragione». In presenza di un capo tirannico, la
rivolta era un meccanismo antibiotico.
Una legge più grande
Quando
la High Court costituita dal Corto Parlamento condanna a morte Carlo I
(1649), è un avvocato puritano, John Cooke, a produrre le prove contro
un re colpevole di opprimere i suoi sudditi. Il procedimento legale a
carico del sovrano, sostiene George Robertson nel suo The Tyrannicide
Brief (2005), gettò le basi per i moderni processi internazionali a
Milosevic o Saddam Hussein. Come in quei casi, si può sospettare che il
verdetto fosse già scritto. Però guai a sottovalutarne il valore
simbolico. Nella forma del dibattimento, nel ricorso a un tribunale,
diventa evidente che la liberazione dal tiranno è riaffermazione di un
ordine giuridico contro il suo sabotatore.
Ciò che rende legittima
la resistenza a un potere è la credenza diffusa in una legge più
grande: il diritto naturale, che sovrasta le nazioni e i Parlamenti. Il
capostipite del giusnaturalismo liberale, John Locke (1690), parla di
«appello al cielo». Per Locke, la libertà è di per sé il contrario della
tirannide: è «libertà dal potere assoluto e arbitrario», non
«sottoposta ad altro potere legislativo che quello stabilito per
consenso».
Lo Stato ha un compito ben definito: dirimere le
controversie che possono emergere tra le persone. Quando però la
controversia è tra un popolo «privato del proprio diritto» e chi
esercita «un potere destituito di diritto», non c’è magistrato a cui
potersi rivolgere. Bisogna «appellarsi al cielo»: la ribellione ai
tiranni è obbedienza a Dio, o perlomeno a quella legge naturale che come
Dio è superiore alle bassezze dei mortali.
Prima di Locke, erano
stati i «monarcomachi» a teorizzare il diritto di resistenza. Per la
maggior parte di costoro, tuttavia, il tirannicidio era accettabile solo
se a impugnare il pugnale era un’autorità di rango inferiore. Un
gesuita spagnolo, Juan de Mariana, nel De rege (1599), aveva invece
teorizzato il tirannicidio per iniziativa privata. Se gli uomini saggi
del regno comprendono che la condotta del re è contraria all’interesse
pubblico e al diritto di natura, è ammissibile detronizzarlo.
Che
rimane, di tutto questo, in un tempo secolarizzato, in cui Dio è solo
un’ombra lontana, figurarsi le sue leggi? C’è sempre il rischio che si
abusi del diritto di resistenza, per occultare la violenza privata. Il
principio per cui ci si deve opporre a un potere ingiusto, però, è al
cuore di tutti i nostri tentativi di costruire un potere meno
arbitrario, più prevedibile: per esempio attraverso una Costituzione.
Chi attenta alla libertà
Rimane
allora l’idea che esistono «condizioni della libertà» che è possibile
comprendere come tali, perché ne abbiamo esperienza. Che chi utilizza il
proprio potere per erodere queste «condizioni della libertà», per
imprigionare chi la pensa diversamente, per spossessare gli oppositori
politici, si pone al di fuori di qualsiasi concetto di giustizia. Quando
questo avviene, significa che il potere si è liberato di ogni vincolo.
Forse,
invece, ci sono cose che proprio nessuno dovrebbe poter fare: anche se
non crediamo più che offendano, anzitutto, il volere di Dio. Non deve
poterle fare nemmeno se invoca la benedizione di idoli terreni come
Fidel Castro o Hugo Chávez.