Repubblica 28.9.17
Sognando Itaca
“Grazie, papà insieme a te ho capito chi era Ulisse”
Lo
scrittore Daniel Mendelsohn racconta il suo nuovo libro, nato dalle
speciali lezioni sull’Odissea e da un ultimo viaggio condiviso con il
padre Jay
di Antonio Monda
NEW YORK La festa per
il lancio del nuovo, attesissimo libro di Daniel Mendelsohn, intitolato
“An Odyssey”, è stata organizzata in una di quelle splendide case sulla
Riverside Drive che affacciano sul fiume Hudson. Uno di quegli
appartamenti dove domina l’understatement, ma poi, all’improvviso, ti
rendi conto che uno dei quadri alle pareti è un Matisse e poco distante
c’è uno Chagall. Lo scrittore accoglie gli ospiti con un’affabilità
squisita, nella quale trapela un’educazione antica e una leggera
emozione. Un signore si congratula con Mendelsohn per la recensione
uscita su Publishers Weekly, che definisce il libro “una gemma”, e lui,
dopo essersi schermito socchiudendo gli occhi, gli presenta la madre
Marlene. Compare anche lei nel libro, del quale è protagonista il padre
Jay, morto da due anni. Lo scrittore ne parla solo in relazione alla
vicenda raccontata nel libro: un giorno, improvvisamente, chiese al
figlio di poter assistere alle lezioni sull’Odissea che Mendelsohn tiene
al Bard College. Dopo un momento di sorpresa, lo scrittore accolse il
padre ottantunenne in classe con gli studenti. Jay cominciò a fare tre
ore di viaggio da Long Island appositamente per seguire i corsi, e poi,
una volta in classe, iniziò a contrastare apertamente le tesi del
figlio: le lezioni, che avevano già da tempo lo status di culto,
acquisirono da quel momento un elemento nuovo, intimo e rivelatorio. Il
rapporto padre-figlio del testo di Omero divenne il riferimento
immediato per quello che stava avvenendo in classe, e alla fine del
semestre i due Mendelsohn decisero di intraprendere un viaggio che
ripercorreva quello di Ulisse. Questa vicenda è diventata l’argomento di
un libro struggente e importante. Itaca, nel percorso dei due
Mendelsohn, non verrà mai raggiunta. «Il viaggio è importante quanto la
meta, non sono io il primo ad averlo detto» racconta l’autore. «In
qualche modo quel luogo non raggiunto lascia la storia aperta, e questo
non mi procura tristezza, anzi: ritorno e nostalgia hanno la stessa
radice, nostos ».
Qual è il motivo che l’ha spinta a scrivere il libro?
«La
necessità di conoscere mio padre. Il libro è una doppia biografia: di
Ulisse e di Jay Mendelsohn. Quando cominciò a seguire i miei corsi non
potevo immaginare che dopo il viaggio nel Mediterraneo avesse pochi mesi
da vivere».
Di cosa parla nel profondo il suo libro?
«Di quello che impariamo dagli altri e di quello che degli altri non riusciremo mai a capire».
Suo padre cerca di convincerla che Ulisse non era un vero eroe perché mentiva e tradiva la moglie.
«Ogni
volta che interveniva in classe pensavo: “questo è un incubo”. Ma poi
ogni suo intervento mi faceva capire qualcosa in più di lui e
dell’Odissea. Mio padre imputava a Ulisse anche altre debolezze, oltre
alla spregiudicatezza: il fatto di essere un leader che perde tutti i
suoi uomini e di essere aiutato dagli dei. In fondo, diceva, gli unici
suoi successi erano dovuti ad aiuti esterni, e questo per lui era
inconcepibile».
Quanto ha pesato il fatto che suo padre fosse ateo?
«Moltissimo,
la debolezza che per i credenti è un aspetto centrale dell’umanità, e
persino motivo di orgoglio, per lui era invece un elemento di miseria.
Lo sguardo è antitetico a quello del sottoscritto, credente, o a quello
di mia madre, molto religiosa».
Il libro è una celebrazione dell’amore coniugale tra Ulisse e Penelope, ma anche tra i suoi genitori.
«È
un amore che sopravvive a tante vicissitudini e in qualche modo ne è
rafforzato. È una forza eterna che nasce dalla debolezza, ma sta
parlando ancora uno spirito religioso».
Suo padre era un matematico ed esaminava ogni cosa scientificamente. Lei è un classicista.
«Questo
elemento lo affascinava, proprio perché distante dal suo sguardo sul
mondo. Quando ero piccolo, era sconcertato che non avessi un approccio
razionale e scientifico alla vita, ma poi è stato lui a fare un passo
verso di me. E, come disse una volta, non è mai troppo tardi per
imparare ».
Dove nascono la durezza e la visione cupa del mondo in cui credeva suo padre?
«Dall’esperienza
al fronte nella seconda guerra mondiale e da una vita difficile, nella
quale la scienza e la razionalità apparivano l’unico sollievo, in
qualche modo la divinità».
Lei è un critico severo, a volte spietato: il tono tenero del libro è sorprendente.
«Lo ammetto: mentre lo scrivevo ha sorpreso anche me: non si smette mai di imparare».
Nel libro si chiede: qual è la vera identità dell’uomo? E quante identità ha ogni uomo?
«Non
ho trovato una risposta e ho solo imparato che mio padre, come tutti,
ne aveva tante: l’ho capito anche quando abbiamo parlato della mia
omosessualità, che lui e mia madre hanno vissuto con assoluta
normalità».
Cosa ha imparato da questa esperienza con suo padre?
«La
sua intima e nascosta tenerezza. Ho imparato che non lo conoscevo bene:
ignoravo i suoi aneliti, le speranze, le insicurezze. E ho appreso
quanto poco sappiamo dei nostri genitori e dell’amore ».
È riuscito ad apprezzare quello che lui definiva la “dimensione estetica della matematica”?
«Nella misura in cui un cieco comprende la bellezza di un fiore e ne intuisce la purezza».
Cita Seferis: “la prima cosa che Dio ha creato è l’amore”.
«Una
poesia immortale. Ma quel verso è da mettere insieme a uno successivo:
“la prima cosa che Dio ha creato è il viaggio”. Come è possibile che Dio
abbia creato due prime cose? La risposta è nella divinità e poi nel
fatto che chi parla è un poeta. Se ci pensa, le due creazioni sono
l’essenza della stessa Odissea ».
Si può definire il suo libro la storia dell’educazione di un figlio?
«Le rispondo che ammetto di essermi identificato con Telemaco ».