giovedì 28 settembre 2017

Repubblica 28.9.17
Mario Bortolotto i labirinti del musicologo geniale
di Antonio Gnoli

Il più grande musicologo che l’Italia abbia avuto, questo è stato in primis Mario Bortolotto: bon vivant, scrittore raffinatissimo, conversatore brillante. Dotato di un estro sublime e irsuto; privo di quelle diplomazie accademiche che hanno reso il mondo della critica qualcosa di prevedibile e di noioso. Bortolotto, morto ieri a Roma, era nato a Pordenone, provincia oggi attiva e prospera, allora incline a una certa depressione. Aveva compiuto 90 anni qualche settimana fa, il 30 agosto. Andai a trovarlo nella sua casa di Trastevere. Lo vidi più magro e più insofferente. Ma alla fine sempre lui: riconoscibile in quella totale assenza di autoreferenzialità (i veri grandi non ne hanno bisogno perché sono gli altri a girargli intorno)
che lo spingeva a rompere ordini e gerarchie prestabilite.
Forse è per questo che Bortolotto non sopportava il mondo della critica musicale tranne alcune eccezioni italiane: Fedele D’Amico e Giorgio Vigolo e soprattutto Adorno, che aveva conosciuto negli anni di Darmstadt, seguito nei suoi percorsi musicali, tradotto faticosamente nel libro dedicato a Wagner e accompagnato durante un viaggio in Italia. Si recarono insieme in Sicilia. Adorno era stato invitato a tenere una conferenza a Palermo per la settimana della musica. Il Barone Agnello pregò Bortolotto di fargli conoscere le bellezze del posto: visita al museo archeologico di Palermo e ai templi greci di Agrigento che Adorno non aveva mai visto: «Restò turbato da tale bellezza, ma rimase in silenzio. Cosa poteva aggiungere? Aveva un tratto civettuolo, spesso si compiaceva delle proprie battute e ironie. Ma era un talento della scrittura. Quando uscì Minima moralia nella splendida traduzione di Solmi lessi e rimasi sconvolto. Ho molto apprezzato le sue opere. Ma col tempo le ho ridimensionate. La sua critica letteraria e musicale dipesero molto dai frutti ideologici del suo marxismo », questo mi raccontò in una delle nostre conversazioni.
L’impolitico Bortolotto si tenne costantemente alla larga da qualunque tentativo di offrire una sponda sociologica al suo pensiero. I libri che ha scritto, meno di quindici in tutto - tra cui brillano Consacrazione della casa, Dopo una battaglia, Wagner l’oscuro e, naturalmente, Fase seconda (tutti editi da Adelphi) – sono la dimostrazione di uno stile che per ricchezza lessicale, precisione di dettaglio, immaginazione figurale richiamano la grande saggistica di Mario Praz, Emilio Cecchi e soprattutto, improvviso come un lampo, Roberto Longhi.
Sebbene avesse lungamente insegnato a Roma, non c’era in Bortolotto nessuna indulgenza accademica, semmai un costante riferirsi ai riflessi segreti di una tradizione che è stata tanto abbagliante quanto in larga parte misconosciuta. Le vertiginose escursioni su Chopin e Puccini, su Strauss e Strawinsky, le considerazioni brillantissime sull’Operetta, il magistrale ripensamento della musica moderna, mostrano non solo il geniale eclettismo. Ma altresì la consapevolezza che tra l’autore e l’opera si stendesse una zona oscura e impalpabile che solo la scrittura avrebbe potuto rendere esplorabile.
Fase seconda (1968), fu certamente il frutto più ardito di una stagione musicale che lo aveva visto intellettualmente impegnato. Bortolotto apparteneva alla generazione dei Clementi, Donatoni, e, a lui più vicini, Berio, Nono. Una generazione fulgente, la prima forse in cui la musica italiana, dopo tanto tempo di decadenza, seppe porsi sullo stesso piano del resto della musica mondiale.
Si entra con difficoltà nei libri di Bortolotto, ma una volta dentro è difficile uscirne. È come trovarsi in un segreto labirinto, dove è preferibile lasciarsi guidare dalle emozioni che esso ci suscita, piuttosto che dall’intelligenza che lo governa. Perdersi per poi improvvisamente ritrovarsi. In una stranezza che a volte prende il nome di letteratura.
Ricordo le volte in cui Bortolotto, a lungo collaboratore di Repubblica, veniva al giornale con i suoi pezzi battuti a macchina e tormentati da cancellature e frasi sovrapposte con la biro. Periodi lunghi e scarsamente leggibili, al punto da suscitare talvolta una gioia masochistica in chi vi si avvicinava con curiosità mentale. L’apparizione di quest’uomo alto, grosso, imponente, del tutto simile a una natura ottocentesca schizzata fuori da una pagina di Victor Hugo, sembrava improvvisamente animare lo spazio circostante di echi carnali sopravvissuti a qualunque dieta spirituale. Mario “l’epicureo” fu dopotutto anche questo: una bellissima anomalia di un mondo che nella sua parte migliore ha lasciato scarsissime tracce.