Repubblica 24.10.17
Per migliorare il mondo basta un po’ di logica
Da
Alan Turing che inventò il primo computer a Tony Blair che invase
l’Iraq senza prove certe. Due casi agli antipodi che dimostrano
l’importanza della filosofia nelle nostre scelte
di Timothy Williamson
La
disciplina più astratta e teoretica della filosofia è la logica, che ha
anche alcune delle applicazioni più pratiche. Nel 1936 il logico
britannico Alan Turing pubblicò la sua soluzione a un problema
irrisolto, sia filosofico che matematico, sui limiti di ciò che si può
fare in matematica seguendo formali procedure fisse. Per la
dimostrazione ideò una “macchina universale”. Durante la Seconda guerra
mondiale costruì una di queste macchine universali, il Colossus, per
decifrare i codici utilizzati dai tedeschi. Fu il primo computer
elettrico programmabile, e la teoria di Turing ebbe un ruolo
fondamentale nello sviluppo dei computer moderni.
Vi sono problemi
di natura non tecnica altrettanto difficili. Per esempio: come possiamo
vivere pacificamente col prossimo quando siamo in netto disaccordo? Le
società moderne sono profondamente in contrasto su scienza e religione,
morale e politica. Spesso sembra esserci troppo poco in comune perché le
due parti opposte possano discutere razionalmente. Allora raggiungono
un punto morto e ciascuna delle due parti finisce per dire: “Noi abbiamo
ragione, voi avete torto”, sapendo che l’altra parte dirà altrettanto.
Poiché la controversia non può essere risolta con il dialogo, vi è il
rischio che si decida facendo ricorso alla forza.
Davanti a questa
impasse, oggi vi è un diffuso ricorso al relativismo, secondo il quale
entrambe le parti hanno ragione dal proprio punto di vista, e torto dal
punto di vista della controparte, tutto qui. Nessuna parte ha ragione in
modo assoluto o torto in modo assoluto, indipendentemente dai punti di
vista. Questo approccio dovrebbe portare alla pace ed evitare che
ciascuna delle fazioni imponga la propria opinione all’altra facendo
ricorso alla forza. Al contrario di quel che ritengono i relativisti, il
relativismo non comporta tolleranza. È neutrale tra tolleranza e
intolleranza, nessuna delle due è migliore dell’altra. Non c’è nulla di
intrinsecamente progressivo nel relativismo: l’abbiamo visto quando la
consulente di Donald Trump, Kellyanne Conway, ha parlato di “fatti
alternativi” in merito al numero di spettatori presenti alla cerimonia
di insediamento. E in un’epoca di post-verità, la gente si sente
autorizzata a ignorare le prove scientifiche del riscaldamento globale.
Anche se l’approccio alla verità e alla falsità non ha conseguenze
politiche dirette, esso permea il dibattito pubblico rendendolo più o
meno portato al pensiero velleitario.
Le questioni filosofiche
astratte sulla relazione tra verità e certezza hanno una rilevanza
politica. Chi equipara la verità alla certezza, e ritiene che la
certezza è impossibile, riterrà anche che la verità è impossibile. È
impreciso, però, equiparare la verità alla certezza. Anche se non è
certo che ci sia un’attività che provoca il riscaldamento globale,
questo non implica che non è vero che ci sia il riscaldamento globale.
Probabilmente c’è. La possibilità della verità non implica la
possibilità della certezza.
Se abbiamo cura di evitare le
erroneità della logica possiamo evitare le insidie del relativismo. E
ciò sarebbe auspicabile, perché nel relativismo è insito il proprio
fallimento: non è relativista in merito a sé stesso. Ma senza di esso
cosa facciamo quando raggiungiamo un punto morto? L’antirelativismo non
offre soluzioni facili. Ma dobbiamo essere molto sospettosi di chiunque
sostenga che la soluzione di un problema è facile, probabilmente ci sta
raggirando.
Per certi aspetti l’antirelativismo offre un maggior
rispetto per le parti in contrapposizione rispetto al relativismo. Nella
controversia tra osservanti di due fedi quali il cristianesimo e
l’Islam, per esempio, ciascuna delle parti considera la propria opinione
vera in modo non relativo. Il relativismo esclude questa possibilità, e
offre a ciascuna delle parti solo la magra consolazione della verità
relativa, lasciandole entrambe del tutto insoddisfatte. Anzi, offrendo
tale opzione indipendentemente dalla questione specifica, il relativista
si rifiuta di schierarsi realmente con qualsiasi delle due parti.
L’antirelativismo,
al contrario, evita questo atteggiamento di disinteresse. Certo,
prendere in considerazione seriamente l’opinione di entrambe le parti
non significa trovare una soluzione per farle convivere in pace. Ma quel
rispetto intellettuale di base è un buon inizio.
Non possiamo
pensare di trovare una soluzione solida a un problema politico basandoci
su presupposti filosofici incoerenti. Sottoposti a uno sforzo la loro
inconsistenza ci lascerà privi di sostegno proprio nel momento del
bisogno. Se trascuriamo la teorizzazione filosofica astratta, o non la
eseguiamo in modo corretto, rischiamo di partire da presupposti
filosofici errati senza rendercene conto.
Nel marzo 2003 gli Stati
Uniti, sotto il presidente George W. Bush, e il Regno Unito, sotto il
primo ministro Tony Blair, invasero l’Iraq e rovesciarono il regime di
Saddam Hussein. La loro giustificazione era che fosse dotato di armi di
distruzione di massa. L’affer-mazione si rivelò presto falsa. In un
discorso tenuto nel 2004 in difesa delle proprie azioni, Tony Blair
dichiarò: “So solo quel che credo”. Non aveva saputo che ci fossero armi
di distruzione di massa, ma aveva saputo che lui credeva che ci
fossero. Tentò di distogliere l’attenzione dalla questione delle prove
verificabili che ci fossero armi di distruzione di massa alla questione
della propria sincerità. Malgrado il suo disprezzo nei confronti del
rifiuto francese di partecipare all’invasione, la sua autodifesa
richiamava proprio un filosofo francese, Cartesio, secondo il quale la
conoscenza è radicata nella conoscenza del proprio pensiero.
Per
chiunque avesse dimestichezza con le difficoltà implicite nel progetto
cartesiano di liberarsi grazie al pensiero dall’illusorietà della
propria consapevolezza, l’affermazione di Blair fu un immediato
campanello d’allarme. Per altri forse sembrò una dimostrazione di
sincera integrità. Quando esigiamo spiegazioni dai politici è più
pertinente chiedere se le loro azioni erano conformi con le prove
esterne disponibili al momento piuttosto che con il loro punto di vista
soggettivo basato su convinzioni e apparenze. Questa differenza è
attualmente al centro degli animati scambi nell’ambito
dell’epistemologia, la teoria della conoscenza, tra i cosiddetti
esternalisti e internalisti su cosa giustifica le nostre convinzioni, se
mai davvero esiste un tale elemento. Di certo non sorprende che la
filosofia etica e politica influenzino la politica. I filosofi, per
esempio, hanno svolto un ruolo centrale nello sviluppo dell’importante
concetto dei diritti umani. Poiché tutta la conoscenza umana costituisce
una vasta rete interconnessa, per quanto disordinata e allentata,
dovrebbe essere ancor meno sorprendente che anche gli elementi più
astratti e teorici abbiano ramificazioni politiche, per quanto sia
assolutamente imprevedibile quando e come esse avvengano. ?