domenica 24 settembre 2017

Repubblica 24.10.17
Quando soffro uso il pensiero
Nei momenti difficili, come le malattie e i lutti, ho imparato ad “ abitare la distanza”: così l’esercizio filosofico accompagna la mia vita
di Pier Aldo Rovatti

Che filosofia e vita vissuta in prima persona possano procedere assieme l’ho imparato subito, al mio primo anno di università a Milano (1961), da un maestro d’eccezione, il fenomenologo Enzo Paci. Non so quanto lui riuscisse ad applicare a sé stesso il suo insegnamento, conosco però bene gli effetti che ebbe su di me. Ero infatti abbastanza lontano dal pensare che la filosofia fosse innanzi tutto uno stile di vita, al di là e al di fuori di qualunque intellettualismo libresco. In seguito ho cercato di entrare in questa dimensione, diciamo, “pratica”; non era così ovvio né così semplice passare dai libri alla vita quotidiana per poi ritornare magari ai libri con uno spirito diverso, imparare a “leggerli” così e farmi un’idea di quali fossero davvero da leggere e quali meno. Mi illudo di esserci in parte riuscito, comunque non ne sono tanto sicuro, come non sono certo di avere fatto buon uso della prestigiosa rivista ( aut aut intendo) che Paci mi lasciò in eredità.
Quello che ho imparato direi che consiste in primo luogo in un tipo di narrazione e quindi in un modo di scrivere e descrivere i fatti: sto cercando, in questo preciso momento, di darne una pallida idea a chi mi sta leggendo. E cioè: niente presupposti schematici, niente concessioni alla retorica, nessuna sbandierata certezza, piuttosto una pratica del dubbio elevata a esigenza fondamentale. Facile da dire, quasi impossibile da realizzare. Ma ho anche imparato, facendo le prove su me stesso (anche a mio danno) che la parola “impossibile” è una delle parole più importanti in filosofia. Occorre precisare: in una “certa” filosofia, quella che si presta a incrociarsi con l’esperienza concreta, il che significa lasciare fuori tante altre filosofie nelle quali alla fine prevale il rapporto di potere tra alto e basso.
Se mi sento di fare qualche esempio autobiografico? La filosofia mi ha aiutato a prendere distanza, anzi ad “abitare la distanza” come ho avuto modo di dire in ciò che ho pubblicato. Forse ci sono riuscito poco e male, ma ho sempre avuto in mente che questo era l’obiettivo da tenere fermo nei momenti difficili della vita, quando mi sembrava che tutto mi crollasse addosso. Provo un certo pudore a scendere nei particolari ma questi momenti sono in genere quelli che tagliano l’esistenza di ciascuno con dolori che sembrano insopportabili; le malattie, i lutti soprattutto.
I miei genitori sono morti in rapida sequenza durante gli anni Ottanta, mia madre non ha retto alla morte del suo compagno. Ricordo che intorno a me, presso i miei quattro fratelli, si produsse una frenesia del fare qualcosa, del rendersi operosi e utili, mentre io mi sforzai di starmene a lato, in silenzio, facendo appello ai consigli filosofici che avevo interiorizzato. Ci riuscii solo in parte, però guadagnai — proprio in quei momenti — una lucidità strana, un modo di stare vicino agli altri e al tempo stesso di vivere in profondità la perdita, il buco che si era scavato dentro di me, che mi permise di non crollare pur restando con gli occhi fissi, per dir così, sul tragico evento.
Venivo guardato, dai miei fratelli (più grandi di me) che si affaticavano per non dover pensarci troppo, con un sentimento di relativa sorpresa perché già si erano abituati ad associare il mio occuparmi di filosofia con l’idea che io fossi un tipo un po’ bizzarro. Forse pensavano anche che volessi disinteressarmi all’evento luttuoso, e magari avevano buone ragioni per stigmatizzare la mia apparente estraneità. In realtà io vivevo un’esperienza opposta, di fortissima intensità.
Quella distanza che allora avevo tentato di procurarmi (e che poi in altre contingenze meno drammatiche della vita ho cercato di riprodurre) era in effetti il mio modo per avere un’esperienza della prossimità più “vera” (termine difficile!), senza essere completamente sommerso dai flutti di un’emotività eccessiva.
Potrei aggiungere altri esempi di episodi salienti, come quando mi sono trovato disarmato dentro una pesante cappa depressiva e, non volendo ricorrere a medici della mente, ho fatto appello alle mie risorse filosofiche per risalire infine alla superficie. In quel caso dovevo distanziarmi almeno un poco da me stesso.
Ma, al di là dei singoli episodi, nella “normalità” (diciamo così) di ogni giorno ho fatto continuamente un lavoro terapeutico su me stesso al quale non saprei che nome dare, se non quello roboante di esercizio filosofico. Attraverso di esso mi sono tolto parecchi tic mentali (altri, ahimè, sono rimasti) che mi portavo dietro fin dall’adolescenza: credo di avere ammansito un poco la mia impulsiva reattività con iniezioni costanti di spirito ironico. Ecco, l’ironia è una meravigliosa risorsa filosofica: è possibile alimentarla e anche comunicarla ad altri ( ho tentato di farne il sale del rapporto educativo con i miei figli). Tuttavia non è priva di effetti indesiderati poiché ha sempre due facce, una amichevole e una ostile ( almeno all’apparenza), per cui chi ti sta vicino ti vive spesso come un provocatore. Ma è la filosofia stessa, come già sapeva Platone, ad avere una doppia faccia e a renderti la vita sempre un po’ difficile. Non è certo un comodo lasciapassare per la felicità ( sempre che esista).