domenica 24 settembre 2017

Repubblica 24.10.17
Prenderla con filosofia
Da Socrate a Platone, da Montaigne a Kant: le idee dei grandi pensatori escono dalle aule accademiche per aiutarci a vivere meglio. È la via della consulenza filosofica, una disciplina sempre più diffusa. Ecco come si pratica e cosa la distingue dalla psicoterapia
di Donata Romizi


Illustrazioni di Olimpia Zagnoli di Donata Romizi Nel 1981 il giovane filosofo tedesco Gerd Achenbach, terminato il dottorato in Filosofia, decise di non proseguire sulla via della carriera accademica, ma di aprire uno studio da filosofo: il primo di questo genere. Uno studio (in tedesco, Praxis) in cui si inaugurava una pratica (in tedesco, Praxis): la Pratica filosofica.
L’intenzione di Achenbach era di rendere la filosofia fruibile al di fuori dell’ambito accademico e scolastico, fare del filosofo un interlocutore possibile per singoli, coppie, gruppi, ma anche aziende, cliniche, istituzioni e organizzazioni pubbliche e private di ogni genere: per qualsiasi pubblico interessato a discutere con un filosofo questioni importanti per la vita del singolo e della società. La filosofia ha una tradizione millenaria di domande, prospettive, possibili risposte, teorie e idee sui problemi più scottanti dell’esistenza — singola e collettiva: quale senso dare a questa esistenza? A quali valori orientarsi? Come vivere secondo giustizia? Qual è il migliore sistema politico? Che senso ha il dolore? Come rapportarsi alla morte? Cosa significa amare? Che senso ha il lavoro? Queste e moltissime altre questioni che sgorgano naturalmente dalla vita stessa sono da sempre al centro dell’indagine filosofica. Perché non andare a discuterle con un filosofo?
La parte più innovativa della Philosophische Praxis inaugurata da Achenbach, e anche quella al centro delle sue elaborazioni teoriche, è anche quella più conosciuta in Italia: la consulenza filosofica. Nel senso più originario del termine si tratta di un dialogo libero ( che non segue, cioè, metodi standard né si pone obiettivi terapeutici o di problem solving) tra il filosofo e l’“ ospite” ( secondo la terminologia achenbachiana) che lo consulta — generalmente perché pressato da domande come quelle già citate, o da qualsiasi altra domanda o problema, ché non c’è virtualmente limite alle questioni che possono essere oggetto di un’indagine filosofica. Raramente queste domande verranno discusse solo nella forma generale già citata: in genere, l’ospite pone al filosofo una questione concreta e individuale. Questa sarà non tanto: cos’è la giustizia? Piuttosto: come posso comportarmi in modo giusto in questa situazione? Non tanto: cos’è l’amore? Piuttosto: posso dire di essere amato, o di amare, nella mia relazione? Non tanto: che senso ha il dolore? Quanto: come posso sopportare questa malattia? La competenza filosofica del consulente lo renderà in grado di far oscillare il dialogo tra le idee e le teorie generali e il caso individuale e concreto: usarle per illuminarlo, rivederlo sotto prospettive diverse, capire le assunzioni implicite che vi si nascondono, le implicazioni che una certa prospettiva genera. Così, per esempio, la filosofa Lydia Amir è riuscita con Aristotele ad aprire prospettive nuove a un ospite deluso dall’amicizia. La filosofa Shlomit Schuster ha reso i pensieri di Kierkegaard sul perdono fruttuosi per un ospite tormentato dal pessimo rapporto con i genitori defunti. Lou Marinoff ha calmato con la filosofia stoica il senso di ingiustizia ingenerato in un ospite dagli ordini del suo capo al lavoro. Quasi mai però, in una consulenza filosofica, i filosofi e le loro teorie vengono citati o letti: piuttosto, la familiarità del filosofo con l’indagine filosofica gli permetterà di accompagnare l’ospite in movimenti del pensiero altrimenti inconsueti, di aprirgli prospettive nuove, di mettere i suoi pensieri in ordine, o in un nuovo ordine, di scardinare certezze nocive, di notare contraddizioni. Il dialogo filosofico non consiste tanto nell’applicazione di teorie filosofiche note, quanto nella elaborazione comune di nuove teorie sul mondo e su sé stessi.
La classica domanda che si pone a proposito della consulenza filosofica è: in cosa si differenzia dalla psicoterapia? È una domanda la cui risposta richiede cautela. Il confine non può essere sempre tracciato con nettezza: da una parte, esistono orientamenti psicoterapeutici con una significativa componente filosofica; dall’altra, ci sono molti consulenti filosofici che integrano l’approccio filosofico con componenti psicoterapeutiche. Il rapporto è ancora oggetto di accese dispute tra filosofi pratici. Il disaccordo su questo punto li ha portati talora addirittura a spaccarsi nettamente in due comunità distinte, una di “ puristi” e una di “ eclettici” ( in Italia, la spaccatura corre tra Phronesis e SICoF — oggi Sscf; negli Stati Uniti tra Appa e Npca).
Lasciando da parte il — pur interessante e in parte anche fondato — Kulturkampf contro le psicoterapie e/o la psichiatria lanciato da filosofi pratici come Achenbach, Schuster e Raabe, si possono individuare alcune differenze, almeno di tendenza, tra un dialogo filosofico e uno di tipo psicoterapeutico. Al centro di quest’ultimo sta il paziente, con il suo stato psico- emotivo: ciò che questi dice viene spesso interpretato, per risalire alla sua condizione psico-emotiva e possibilmente migliorarla. Al centro del dialogo filosofico stanno il problema, la domanda, i concetti su cui l’ospite interpella il filosofo, e su cui viene condotta un’indagine comune di tipo prevalentemente razionale. Di fronte a una persona che pone la domanda su quale sia il senso della vita, uno psicoterapeuta tenderà a chiedersi — per esempio — se questa domanda sia il sintomo di una depressione o di uno stato di malessere interiore o di difficoltà in qualche ambito relazionale; il filosofo prenderà la domanda “ sul serio” e cercherà di elaborare una riflessione e una risposta insieme al suo ospite.
Il fine primario del dialogo filosofico è quello di approfondire, migliorare, allargare la comprensione del problema — nel senso filosofico classico: cercare insieme la verità. Spesso questo porta con sé anche un miglioramento della condizione psico- emotiva dell’ospite, ma ciò non è il fine principale dell’indagine filosofica. Il filosofo non lavora sulla persona, ma con la persona sui pensieri, le domande, i concetti che le premono. Il filosofo si interrogherà meno sulle cause dei pensieri del suo interlocutore (“Perché pensa questo?”), mentre più spesso analizzerà con il suo “ospite” le ragioni a sostegno di un certo modo di pensare (“È giustificato pensare così?”). Ove le ragioni si rivelassero deboli, esse potranno anche essere sottoposte a critica, mentre è caso raro che uno psicoterapeuta critichi ciò che dice un paziente.
Il rapporto tra consulenza filosofica e psicoterapie non è il solo tema su cui i filosofi pratici sono in disaccordo: anche il rapporto tra Pratica filosofica e filosofia accademica divide gli animi, così come il ruolo dell’università nella formazione dei filosofi pratici.
L’Italia è forse l’unico Paese al mondo in cui addirittura più di un’università offre un intero percorso di studi sulla Pratica filosofica, in genere centrato sulla consulenza. Sul tema hanno scritto sia filosofi pratici che filosofi accademici ( Neri Pollastri, Davide Miccione, Moreno Montanari, Umberto Galimberti, Luigi Vero Tarca, Romano Madera, Pier Aldo Rovatti — per citare i piú noti). Nell’area di lingua tedesca, ove la Pratica filosofica è nata, il rapporto della Philosophische Praxis con la filosofia accademica è invece molto debole. Pochissimi i filosofi accademici che abbiano mostrato interesse per essa, nessuno che abbia scritto un libro sul tema. Solo in Austria l’Università di Vienna offre dal 2014 un master in Pratiche filosofiche. In molti paesi del mondo sono solo associazioni di filosofi pratici a formare i filosofi pratici, e sono in molti a ritenere che l’università non si debba “immischiare” in questa professione.
In Italia il profilo professionale del filosofo pratico si concentra prevalentemente sulla consulenza o sul lavoro filosofico con gruppi e in team in contesti aziendali o in istituzioni pubbliche di vario tipo (ospedali, cliniche psichiatriche, prigioni, scuole). Diverso è lo scenario nell’area di lingua tedesca. Qui la consulenza filosofica è ancora concepita e praticata principalmente come dialogo a due nello studio privato del filosofo. Tuttavia, nessun filosofo pratico al mondo vive di sola consulenza filosofica. Per questo la gran parte di loro integra l’offerta proponendo altre modalità di Pratica: viaggi, passeggiate, colazioni, serate a tema, filosofia nei caffè, filosofia con i bambini, e altro ancora. Anche in questi casi il filosofo lavora al di fuori di un contesto accademico o scolastico e non insegna; piuttosto, mette la propria competenza al servizio delle domande e dell’elaborazione del pensiero altrui. Anche in quest’ambito fervono accese discussioni su quali pratiche considerare legittimamente filosofiche e quali no.
A più di trentacinque anni dalla nascita della Philosophische Praxis il bilancio è ambivalente. Da una parte, la Pratica filosofica è diffusa in tutto il mondo: ci sono associazioni di filosofi pratici in quasi ogni Paese, congressi internazionali a intervalli regolari, riviste specializzate, scuole di pensiero, pubblicazioni e un sito internet in sette lingue ( The Philo- Practice Agora). D’altra parte, però non si può dire che la professione in quanto tale si sia affermata: al mondo sono pochissimi i filosofi pratici che riescano a vivere di questo. Il che, alla luce di quanto detto, poco stupisce: non esiste a tutt’oggi un profilo professionale definito e condiviso, non c’è un percorso formativo anche solo tendenzialmente omogeneo, non c’è consenso sugli standard di qualità, non c’è nemmeno consenso su cosa sia — in definitiva — la Pratica filosofica!
L’agire nel mondo richiede un certo grado di dogmatismo, e l’esistenza di una professione presuppone una certa omogeneità di pensiero tra chi la pratica: cose che riescono tipicamente difficili ai filosofi. A più di duemilacinquecento anni dalla famosa caduta di Talete nella buca l’evoluzione della Pratica filosofica sembra confermare il cliché del filosofo inetto a muoversi sul piano mondano: i filosofi escono dalla torre d’avorio accademica per andare nel mondo, ma non sanno poi giocare seguendone le regole. L’idea della filosofia come libera professione getta la filosofia in un campo magnetico contraddittorio di attrazione- repulsione verso il mondo. Qualche filosofo la chiamerebbe “dialettica”, e se ne aspetterebbe buoni frutti. Un imprenditore la chiamerebbe “ confusione” e prospetterebbe un esito fallimentare. Il futuro è aperto. ?