Repubblica 24.10.17
Prenderla con filosofia
Da Socrate a
Platone, da Montaigne a Kant: le idee dei grandi pensatori escono dalle
aule accademiche per aiutarci a vivere meglio. È la via della consulenza
filosofica, una disciplina sempre più diffusa. Ecco come si pratica e
cosa la distingue dalla psicoterapia
di Donata Romizi
Illustrazioni
di Olimpia Zagnoli di Donata Romizi Nel 1981 il giovane filosofo
tedesco Gerd Achenbach, terminato il dottorato in Filosofia, decise di
non proseguire sulla via della carriera accademica, ma di aprire uno
studio da filosofo: il primo di questo genere. Uno studio (in tedesco,
Praxis) in cui si inaugurava una pratica (in tedesco, Praxis): la
Pratica filosofica.
L’intenzione di Achenbach era di rendere la
filosofia fruibile al di fuori dell’ambito accademico e scolastico, fare
del filosofo un interlocutore possibile per singoli, coppie, gruppi, ma
anche aziende, cliniche, istituzioni e organizzazioni pubbliche e
private di ogni genere: per qualsiasi pubblico interessato a discutere
con un filosofo questioni importanti per la vita del singolo e della
società. La filosofia ha una tradizione millenaria di domande,
prospettive, possibili risposte, teorie e idee sui problemi più
scottanti dell’esistenza — singola e collettiva: quale senso dare a
questa esistenza? A quali valori orientarsi? Come vivere secondo
giustizia? Qual è il migliore sistema politico? Che senso ha il dolore?
Come rapportarsi alla morte? Cosa significa amare? Che senso ha il
lavoro? Queste e moltissime altre questioni che sgorgano naturalmente
dalla vita stessa sono da sempre al centro dell’indagine filosofica.
Perché non andare a discuterle con un filosofo?
La parte più
innovativa della Philosophische Praxis inaugurata da Achenbach, e anche
quella al centro delle sue elaborazioni teoriche, è anche quella più
conosciuta in Italia: la consulenza filosofica. Nel senso più originario
del termine si tratta di un dialogo libero ( che non segue, cioè,
metodi standard né si pone obiettivi terapeutici o di problem solving)
tra il filosofo e l’“ ospite” ( secondo la terminologia achenbachiana)
che lo consulta — generalmente perché pressato da domande come quelle
già citate, o da qualsiasi altra domanda o problema, ché non c’è
virtualmente limite alle questioni che possono essere oggetto di
un’indagine filosofica. Raramente queste domande verranno discusse solo
nella forma generale già citata: in genere, l’ospite pone al filosofo
una questione concreta e individuale. Questa sarà non tanto: cos’è la
giustizia? Piuttosto: come posso comportarmi in modo giusto in questa
situazione? Non tanto: cos’è l’amore? Piuttosto: posso dire di essere
amato, o di amare, nella mia relazione? Non tanto: che senso ha il
dolore? Quanto: come posso sopportare questa malattia? La competenza
filosofica del consulente lo renderà in grado di far oscillare il
dialogo tra le idee e le teorie generali e il caso individuale e
concreto: usarle per illuminarlo, rivederlo sotto prospettive diverse,
capire le assunzioni implicite che vi si nascondono, le implicazioni che
una certa prospettiva genera. Così, per esempio, la filosofa Lydia Amir
è riuscita con Aristotele ad aprire prospettive nuove a un ospite
deluso dall’amicizia. La filosofa Shlomit Schuster ha reso i pensieri di
Kierkegaard sul perdono fruttuosi per un ospite tormentato dal pessimo
rapporto con i genitori defunti. Lou Marinoff ha calmato con la
filosofia stoica il senso di ingiustizia ingenerato in un ospite dagli
ordini del suo capo al lavoro. Quasi mai però, in una consulenza
filosofica, i filosofi e le loro teorie vengono citati o letti:
piuttosto, la familiarità del filosofo con l’indagine filosofica gli
permetterà di accompagnare l’ospite in movimenti del pensiero altrimenti
inconsueti, di aprirgli prospettive nuove, di mettere i suoi pensieri
in ordine, o in un nuovo ordine, di scardinare certezze nocive, di
notare contraddizioni. Il dialogo filosofico non consiste tanto
nell’applicazione di teorie filosofiche note, quanto nella elaborazione
comune di nuove teorie sul mondo e su sé stessi.
La classica
domanda che si pone a proposito della consulenza filosofica è: in cosa
si differenzia dalla psicoterapia? È una domanda la cui risposta
richiede cautela. Il confine non può essere sempre tracciato con
nettezza: da una parte, esistono orientamenti psicoterapeutici con una
significativa componente filosofica; dall’altra, ci sono molti
consulenti filosofici che integrano l’approccio filosofico con
componenti psicoterapeutiche. Il rapporto è ancora oggetto di accese
dispute tra filosofi pratici. Il disaccordo su questo punto li ha
portati talora addirittura a spaccarsi nettamente in due comunità
distinte, una di “ puristi” e una di “ eclettici” ( in Italia, la
spaccatura corre tra Phronesis e SICoF — oggi Sscf; negli Stati Uniti
tra Appa e Npca).
Lasciando da parte il — pur interessante e in
parte anche fondato — Kulturkampf contro le psicoterapie e/o la
psichiatria lanciato da filosofi pratici come Achenbach, Schuster e
Raabe, si possono individuare alcune differenze, almeno di tendenza, tra
un dialogo filosofico e uno di tipo psicoterapeutico. Al centro di
quest’ultimo sta il paziente, con il suo stato psico- emotivo: ciò che
questi dice viene spesso interpretato, per risalire alla sua condizione
psico-emotiva e possibilmente migliorarla. Al centro del dialogo
filosofico stanno il problema, la domanda, i concetti su cui l’ospite
interpella il filosofo, e su cui viene condotta un’indagine comune di
tipo prevalentemente razionale. Di fronte a una persona che pone la
domanda su quale sia il senso della vita, uno psicoterapeuta tenderà a
chiedersi — per esempio — se questa domanda sia il sintomo di una
depressione o di uno stato di malessere interiore o di difficoltà in
qualche ambito relazionale; il filosofo prenderà la domanda “ sul serio”
e cercherà di elaborare una riflessione e una risposta insieme al suo
ospite.
Il fine primario del dialogo filosofico è quello di
approfondire, migliorare, allargare la comprensione del problema — nel
senso filosofico classico: cercare insieme la verità. Spesso questo
porta con sé anche un miglioramento della condizione psico- emotiva
dell’ospite, ma ciò non è il fine principale dell’indagine filosofica.
Il filosofo non lavora sulla persona, ma con la persona sui pensieri, le
domande, i concetti che le premono. Il filosofo si interrogherà meno
sulle cause dei pensieri del suo interlocutore (“Perché pensa questo?”),
mentre più spesso analizzerà con il suo “ospite” le ragioni a sostegno
di un certo modo di pensare (“È giustificato pensare così?”). Ove le
ragioni si rivelassero deboli, esse potranno anche essere sottoposte a
critica, mentre è caso raro che uno psicoterapeuta critichi ciò che dice
un paziente.
Il rapporto tra consulenza filosofica e psicoterapie
non è il solo tema su cui i filosofi pratici sono in disaccordo: anche
il rapporto tra Pratica filosofica e filosofia accademica divide gli
animi, così come il ruolo dell’università nella formazione dei filosofi
pratici.
L’Italia è forse l’unico Paese al mondo in cui
addirittura più di un’università offre un intero percorso di studi sulla
Pratica filosofica, in genere centrato sulla consulenza. Sul tema hanno
scritto sia filosofi pratici che filosofi accademici ( Neri Pollastri,
Davide Miccione, Moreno Montanari, Umberto Galimberti, Luigi Vero Tarca,
Romano Madera, Pier Aldo Rovatti — per citare i piú noti). Nell’area di
lingua tedesca, ove la Pratica filosofica è nata, il rapporto della
Philosophische Praxis con la filosofia accademica è invece molto debole.
Pochissimi i filosofi accademici che abbiano mostrato interesse per
essa, nessuno che abbia scritto un libro sul tema. Solo in Austria
l’Università di Vienna offre dal 2014 un master in Pratiche filosofiche.
In molti paesi del mondo sono solo associazioni di filosofi pratici a
formare i filosofi pratici, e sono in molti a ritenere che l’università
non si debba “immischiare” in questa professione.
In Italia il
profilo professionale del filosofo pratico si concentra prevalentemente
sulla consulenza o sul lavoro filosofico con gruppi e in team in
contesti aziendali o in istituzioni pubbliche di vario tipo (ospedali,
cliniche psichiatriche, prigioni, scuole). Diverso è lo scenario
nell’area di lingua tedesca. Qui la consulenza filosofica è ancora
concepita e praticata principalmente come dialogo a due nello studio
privato del filosofo. Tuttavia, nessun filosofo pratico al mondo vive di
sola consulenza filosofica. Per questo la gran parte di loro integra
l’offerta proponendo altre modalità di Pratica: viaggi, passeggiate,
colazioni, serate a tema, filosofia nei caffè, filosofia con i bambini, e
altro ancora. Anche in questi casi il filosofo lavora al di fuori di un
contesto accademico o scolastico e non insegna; piuttosto, mette la
propria competenza al servizio delle domande e dell’elaborazione del
pensiero altrui. Anche in quest’ambito fervono accese discussioni su
quali pratiche considerare legittimamente filosofiche e quali no.
A
più di trentacinque anni dalla nascita della Philosophische Praxis il
bilancio è ambivalente. Da una parte, la Pratica filosofica è diffusa in
tutto il mondo: ci sono associazioni di filosofi pratici in quasi ogni
Paese, congressi internazionali a intervalli regolari, riviste
specializzate, scuole di pensiero, pubblicazioni e un sito internet in
sette lingue ( The Philo- Practice Agora). D’altra parte, però non si
può dire che la professione in quanto tale si sia affermata: al mondo
sono pochissimi i filosofi pratici che riescano a vivere di questo. Il
che, alla luce di quanto detto, poco stupisce: non esiste a tutt’oggi un
profilo professionale definito e condiviso, non c’è un percorso
formativo anche solo tendenzialmente omogeneo, non c’è consenso sugli
standard di qualità, non c’è nemmeno consenso su cosa sia — in
definitiva — la Pratica filosofica!
L’agire nel mondo richiede un
certo grado di dogmatismo, e l’esistenza di una professione presuppone
una certa omogeneità di pensiero tra chi la pratica: cose che riescono
tipicamente difficili ai filosofi. A più di duemilacinquecento anni
dalla famosa caduta di Talete nella buca l’evoluzione della Pratica
filosofica sembra confermare il cliché del filosofo inetto a muoversi
sul piano mondano: i filosofi escono dalla torre d’avorio accademica per
andare nel mondo, ma non sanno poi giocare seguendone le regole. L’idea
della filosofia come libera professione getta la filosofia in un campo
magnetico contraddittorio di attrazione- repulsione verso il mondo.
Qualche filosofo la chiamerebbe “dialettica”, e se ne aspetterebbe buoni
frutti. Un imprenditore la chiamerebbe “ confusione” e prospetterebbe
un esito fallimentare. Il futuro è aperto. ?