Corriere 24.9.17
Dal nostro inviato a Caporetto
L’attacco, l’incapacità di resistere, le fughe
Cronaca della grande sconfitta italiana
di Aldo Cazzullo
Non
si è mai capito bene perché i 400 cannoni di Badoglio abbiano taciuto,
nell’alba nebbiosa del 24 ottobre 1917. Ora dalla cima del Kolovrat ci
si butta con il parapendio. Vista da quassù, la vallata dove passarono i
tedeschi sembra un bersaglio facile.
Si è pensato che Badoglio
volesse lasciar entrare il nemico nella trappola per colpirlo con
comodo. In realtà, i tedeschi intercettavano le sue comunicazioni radio:
ovunque il generale si spostasse, veniva individuato e bersagliato;
distrutte le linee telefoniche, sovrastate dal fragore le «trombette
bitonali», abbattuti pure i piccioni viaggiatori. La nebbia fece il
resto. L’ordine di aprire il fuoco non arrivò mai.
Eppure sapevamo
tutto. Fin da sabato 20 ottobre, quando un disertore boemo, il tenente
Maxim, si è consegnato con notizie dettagliate sull’attacco imminente.
L’Isonzo restituisce un cadavere con la divisa dei tedeschi: ci sono
anche loro. Lunedì 22 ottobre arriva il re, che viene avvisato: la
situazione è drammatica. Vengono fatti saltare i ponti sul fiume.
L’editoriale del Corriere della Sera annuncia un’offensiva nemica alle
porte.
Martedì 23 ottobre Cadorna tiene consiglio di guerra, sotto
un ippocastano. I suoi generali sono quasi tutti piemontesi come lui:
Capello, Badoglio, Bongiovanni, Cavaciocchi, Cavallero (che è ancora
colonnello). Si parla dialetto; Caviglia, che è ligure di Finale, si
arrangi. Cadorna è disperato: «Mio padre prese Roma, a me tocca
perderla!». Badoglio si è appena sfogato con l’attendente: «Ce la siamo
data a intendere gli uni con gli altri, e adesso è finita! Non c’è più
nulla, neanche lo stellone!». Ma ora di fronte al comandante in capo che
lo incalza — « e chiel? L’on ca fa chiel? », lei cosa fa? — ostenta
tranquillità: «Mi? A mi ‘n manca gnente. Mi manca solo un campo di
prigionia per i nemici che cadranno nelle nostre mani». Cadorna gli
mette una mano sulla spalla.
Alle 2, le bombe
Pochi giorni
dopo, nelle mani nemiche cadranno 300 mila prigionieri italiani.
Altrettanti, forse più, gli sbandati. Uno dei misteri di Caporetto è che
Badoglio, anziché essere rimosso come Cadorna e Capello, sarà promosso
capo di Stato maggiore dell’esercito.
Il bombardamento comincia
alle 2 del mattino di martedì 24 ottobre. La terra trema. Tempeste di
ferro e nubi di fuoco si abbattono sulle nostre linee. Ma presto la
battaglia si fa silenziosa. Gli italiani presidiano le cime; tedeschi e
austriaci passano nel fondovalle. Piccoli gruppi, armati di
mitragliatrici leggere e mortai da assalto, fanno prigionieri interi
reggimenti: si distingue un tenente di 26 anni, Erwin Rommel. Troppi
soldati italiani in prima linea, spesso tagliati fuori dal
combattimento; troppi pochi nella seconda linea, travolta in poche ore.
A
Nord, nella conca di Plezzo, il silenzio è assoluto. Nell’aria odore di
mandorle amare. Per sapere se i tedeschi hanno usato il gas, il comando
di divisione manda in prima linea un graduato, che informa: «I soldati
sono tutti al loro posto, col fucile fra le mani e la maschera al
volto». Annota l’aspirante ufficiale Giovanni Comisso: «Quei soldati
erano impietriti dalla morte, che la piccola e miserabile maschera non
era servita a impedire». Almeno 800 asfissiati. Il comandante tedesco,
conte Otto von Below, annota compiaciuto: «L’effetto del gas è
devastante». Ora la conca di Plezzo ospita un campo da golf.
Il caffè di Katerina
Piove.
Le truppe sulle cime sono accecate da nebbia e nuvole. Alcuni
intravedono divise austriache passare giù in basso, ma pensano siano
prigionieri scortati dai commilitoni. Altri non si accorgono quasi di
nulla. Come il tenente Carlo Emilio Gadda, che d’un tratto si scopre
circondato dal nemico. Nel pomeriggio a Roma parla alla Camera il
ministro della guerra, generale Giardino: «Venga pure l’attacco! Noi non
lo temiamo!». Nello stesso momento, le avanguardie tedesche scese da
Plezzo e dalla testa di ponte di Tolmino sono già nel primo villaggio,
che darà il nome al disastro e alla sindrome della sconfitta che da
allora grava sull’Italia: Caporetto.
Oggi si chiama Kobarid. Dei
4.472 abitanti nessuno è di origine italiana. Il campanile era a punta;
l’hanno rifatto a cipolla, come sarebbe piaciuto all’imperatore. Nel
piccolo, prezioso museo si avvicendano in un giorno dieci scolaresche:
tutte slovene. Nell’Isonzo si fa rafting e kayak. Le uniche insegne in
italiano sono quelle dei casinò, delle spa, dei dentisti.
Anche
quando i bersaglieri sono entrati a Caporetto il 25 maggio 1915, primo
giorno di guerra, gli abitanti erano tutti sloveni. L’unica che parlava
italiano, Katerina Medves, in segno di pace ha fatto il caffè; i nostri
non si sono fidati, l’hanno fatto bere prima a lei.
Gli alpini del
battaglione Exilles hanno preso subito — Dio solo sa come — il Monte
Nero, una parete di duemila metri a picco sull’Isonzo. Poi il fronte è
rimasto quasi fermo per oltre due anni. Migliaia di morti per avanzare
di pochi metri. All’improvviso gli italiani devono retrocedere per 150
chilometri.
I l saluto con la pipa
La rotta è totale. Il
generale Farisoglio ordina alla sua divisione di ritirarsi, e fugge in
automobile: finisce in braccio ai tedeschi. Nel seminario di Cividale
sono ricoverati oltre duemila feriti, tre per letto. Anche il generale
Amadei precede i suoi uomini in ritirata. Sul Rombon già innevato
tengono magnificamente gli alpini piemontesi, riscattando l’insipienza
dei compatrioti in alta uniforme: gli Schuetzen non avanzano di un passo
contro i battaglioni Dronero, Saluzzo, Borgo San Dalmazzo, Ceva,
Argentera, Monviso. Ma giù in basso il generale Arrighi dà l’ordine di
abbandonare la gola di Saga, senza combattere. Gli austriaci vi si
infilano esultando, increduli. Gli alpini del Rombon, scrive Mario
Silvestri nel suo libro divenuto un classico, Caporetto, «sono
abbandonati alla loro sorte: la morte per gelo o la resa». Il generale
Rossi incita a resistere «sino all’ultimo uomo», e se ne va per primo.
Le strade sono intasate. Il generale Andrea Graziani trova il tempo di
far fucilare il fante Alessandro Ruffini, che l’ha salutato senza
togliersi la pipa di bocca (c’è chi dice un sigaro). Si vedono scene
miserevoli: soldati si inginocchiano per aver salva la vita, qualcuno
bacia le mani ai vincitori, altri gridano «viva l’Austria, viva la
Germania, viva il Papa!». Il generale Villani si spara in testa.
Il tenente Gadda
Cadorna
lascia Udine appena in tempo per non essere catturato pure lui. Con le
prime parole accusa i fanti: «La mancata resistenza di reparti della II
armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi
al nemico...». Sono le 13 del 28 ottobre. Il governo legge l’annuncio e
capisce che il Paese può crollare. Il testo viene attenuato; ma ormai è
tardi. Il destino di Cadorna è deciso. In realtà, la gran parte dei
soldati si sono battuti con valore: lo provano gli oltre mille corpi
custoditi oggi nell’ossario tedesco a strapiombo sull’Isonzo. L’unico a
riconoscerlo è Cavaciocchi. Sarà il primo a essere silurato.
Il
nemico è già oltre il Tagliamento. Rommel ordina di avanzare senza
aprire il fuoco, se non per necessità: ha catturato più di novemila
prigionieri, talora senza sparare un colpo. L’auto di Badoglio è colpita
da una granata, lui si salva per miracolo. Gli artiglieri sfilano gli
otturatori e scappano; ma il sottotenente Vincenzo Cardarelli riesce a
salvare i due cannoni di cui è responsabile. Comincia il martirio del
Friuli: chi può si unisce alla carovana in ritirata verso Ovest, gli
altri si barricano in casa. A Est, lunghe file di italiani si mettono in
marcia verso Mauthausen e gli altri campi di prigionia. In centomila
moriranno di fame. Il tenente Gadda per tutte le notti sognerà i suoi
amici che gli chiedono conto: «Tu hai lasciato passare gli
austriaci...».
Il riscatto sul Piave
Come l’esercito
italiano sia rinato sul Piave e sul Grappa, pochi giorni dopo, è una
specie di mistero. Il nemico non si aspettava di avanzare tanto; ma non
si attendeva neppure un riscatto così improvviso. Non c’è più da andare
all’assalto di montagne che nessuno ha mai sentito nominare, da prendere
città in cui nessuno è mai stato; c’è da difendere la famiglia, badare
alla terra; cose che i fanti contadini conoscono bene. È un mistero
anche come Badoglio — ribattezzato ironicamente «marchese di Caporetto» —
si riveli l’organizzatore della resistenza. È la vera nascita
dell’Italia: una babele di dialetti, un popolo giovane diventano nelle
trincee una nazione.
Resta il fatto, scrive Silvestri, che «la
vera Italia non è quella del Piave, ma quella di Caporetto. Caporetto
viene da lontano e va lontano. L’Italia del Piave non è la regola ma
l’eccezione». Quello che avvenne cent’anni fa «era già avvenuto prima,
avvenne dopo, avviene sotto i nostri occhi; e ci sono tutte le premesse
perché avvenga in futuro».