Repubblica 24.10.17
Il bene e il male davanti al semaforo
Passare
con il rosso di notte? È uno dei tanti quesiti che pongono un tema
universale. Di questo si occupa la nuova disciplina: l’obiettivo non è
guarire l’individuo ma offrirgli una prospettiva diversa
di Federico Capitoni
L’associazione
della filosofia alla parola “pratica” ancora sorprende molti, abituati a
pensare che la madre di tutte le discipline riguardi la pura
speculazione, l’accademia e — nel peggiore dei casi — un mondo teorico,
ideale, che non trova alcuna applicazione nella realtà. Quando si parla
di pratiche filosofiche è dunque naturale essere pronti a spiegare cosa
si intende, non solo in termini concettuali, ma anche professionali,
visto che quello del filosofo pratico, per quanto ancora poco diffuso, è
un mestiere a tutti gli effetti.
Le pratiche filosofiche sono
molteplici, ma possono dividersi in due grandi tronconi: quelle
individuali e quelle collettive. Nel primo caso si parla prevalentemente
di consulenza filosofica, un dialogo tra un consultante (colui il quale
espone un suo problema) e un consulente (il filosofo) che ha
l’obiettivo di fare luce sulla questione, senza intenzioni risolutive.
Può considerarsi una pratica alternativa, ma non affine, alla
psicoterapia, sebbene non vengano messi in campo strumenti o modelli
psicologici e non si miri alla soluzione del problema, ma soltanto a
escogitare nuovi punti di vista per guardarlo e affrontarlo. Non c’è
alcuno scopo terapeutico e non esiste la figura del paziente ( tanto
meno del malato). Se c’è invece un riferimento filosofico, esso non è
una scuola, ma una modalità: quella socratica delle continue
interrogazioni e messa in discussione di ogni proposizione. Cogliere in
fallo logico l’interlocutore spesso tradisce un suo errato
posizionamento rispetto alla questione.
Lo stesso approccio
socratico, argomentativo, è alla base anche delle pratiche collettive,
un mondo più ampio, fatto di tante attività — caffè filosofici,
Philosophy for Children, Philosophy for Community, dialoghi in stile
filosofico — tutte accomunate però dal medesimo processo, controllato —
non diretto! — dal filosofo professionista che assume il ruolo di
facilitatore. Normalmente disposti in circolo, per eliminare ogni
gerarchia e per fare in modo che lo spazio vuoto creato al centro sia il
luogo neutro delle argomentazioni, i partecipanti — facilitatore
incluso — iniziano un dialogo che normalmente scaturisce dalla lettura
di un testo non filosofico. Più raramente il tema è già deciso prima di
iniziare il dibattito, si preferisce utilizzare un testo perché è
interessante anche il processo grazie al quale si arriva all’argomento. I
partecipanti fanno osservazioni non sul testo, bensì a partire da
questo, il che consente di vedere come in un brano, che pure possiede
una tematica centrale, la comunità possa individuare un argomento
laterale o non palesemente emergente. E ciò mostra l’inevitabile
collegamento di temi anche apparentemente lontani. Il testo serve dunque
a scatenare, accendere, la riflessione, che prende corpo attraverso la
libera circolazione delle opinioni.
Quel che c’è di filosofico
sono la pratica dialettica, l’argomentazione e un processo di astrazione
che esercita la mente: si parte sempre da casi particolari per arrivare
all’universalizzazione del concetto, per quanto il tempo (raramente si
superano le due ore) lo consenta. Nessuno, quando si comincia, lo sa, ma
è esattamente quello che succede: è naturale che dall’esperienza di
vita del singolo, se sia il caso o meno di passare col semaforo rosso
anche alle tre di notte quando non c’è nessuno (e magari neanche le
telecamere che controllano, cosa che fa spesso la differenza), si giunga
a una riflessione più generale prima sulle regole e poi sul rapporto
bene/ male. Se il dialogo naviga da solo, il facilitatore quasi non
interviene; è chiamato invece a rilanciare il dialogo e a spostare
l’asse su cui il pensiero si è disposto se la discussione si arena.
La
pratica non è soltanto nel processo dialogico, ma anche nel
coinvolgimento esistenziale. Il tema deve essere sentito, la filosofia
diventa pratica se ci riguarda. Se nella consulenza ancora resiste un
dualismo (il consultante va dal filosofo e non sa di fare filosofia),
nelle pratiche collettive, il partecipante diventa subito filosofo egli
stesso, anche perché può affrontare una questione che lo concerne senza
però che per lui costituisca un problema da risolvere e che lo fa
soffrire. Così si può parlare di giustizia, di identità, di regole, di
creatività: parole dalle quali sviscerare i contenuti e le
manifestazioni nella vita di tutti i giorni. Nulla impedisce di alzare
il livello, se il facilitatore lo ritiene opportuno. Nel caso di una
discussione sul rapporto tra egoismo e altruismo, per esempio,
normalmente vi sono due opposte fazioni: chi crede nell’altruismo vero,
assoluto, e chi pensa che questo si fondi comunque sull’egoismo
(impossibilità del dono puro: il dare procura comunque soddisfazione e
contentezza). Si possono introdurre allora gli ultimi risultati delle
ricerche neuroscientifiche secondo cui quello che chiamiamo egoismo non è
altro che uno strumento biologico umano per la salvaguardia della
specie e di cui siamo naturalmente dotati. Altrimenti dovremmo sentirci
in colpa ogni volta che troviamo parcheggio, dacché lo abbiamo sottratto
a chi arriva un secondo dopo di noi... E se ognuno cedesse il
parcheggio all’altro, quel posto rimarrebbe sempre libero.
Questo
filosofare concerne appunto la vita e non ha alcuna ambizione di
addivenire a una qualche verità. E benché viga un atteggiamento logico,
non c’è una guerra tra tesi opposte, se ne accettano anche di mediane;
non esiste la formale polarizzazione di A e B e il tertium, una volta
tanto, è possibile. Chi ha voluto argomentare sulla necessità del
vaccino obbligatorio dicendo che chi non si vaccina è un pericolo per
gli altri, si è ovviamente visto rispondere, logicamente, che chi è
vaccinato è protetto, mentre chi non lo è la pensa esattamente come
“l’untore”; dunque l’argomentazione cade. Ma poi la realtà ci dice che
ci sono bambini che si vorrebbe vaccinare ma che appartengono a una
piccola percentuale di individui clinicamente non vaccinabili e si
conviene che l’eccezione va tutelata. Eccezione che in un sistema
rigorosamente logico non dovrebbe esistere. La filosofia esce così
dall’università e entra nell’esistenza di ognuno. Ciò che conta sono le “
buone ragioni”, purché sempre argomentate, più che la logica
infallibile. E soprattutto che si pensi e si parli non per sentito dire,
per studi o per dogmi di pensiero, bensì con la propria testa. È anche
il motivo per cui gli incontri funzionano meglio se svolti tra non
studiosi: quelli finirebbero altrimenti per citare le teorie dei grandi
pensatori e il dialogo assumerebbe le fattezze del convegno
universitario.
Invece l’attività, allenamento del pensiero, trova
grande successo tra i normali cittadini, nelle scuole, nelle aziende e
anche nelle carceri (un libro di recente uscita per Mursia, Filosofia
dentro, racconta di esperienze nei penitenziari), cioè tra persone che
senza saperlo sollevano i grandi temi della storia della filosofia: una
volta, parlando di pregiudizio, è stato detto da un bambino di undici
anni che “ per non avere pregiudizio bisognerebbe disporre di un
giudizio ‘puro’, senza un’idea che lo precede”, che è esattamente la
questione fenomenologica di Cartesio prima e di Husserl poi.
I
partecipanti colgono altresì con gioia anche l’aspetto comunitario e
sociale degli incontri. La maggior parte di loro confessano che le
occasioni per confrontarsi civilmente e mantenere una conversazione a un
livello che non sia quello superficiale della chiacchiera sono
normalmente scarse. E che si torna a casa stimolati, magari — e per
fortuna — con meno certezze, ma con un processo di riflessione ormai
innescato che non può far altro che alimentare ulteriori ragionamenti e
dialoghi: il motore filosofico è partito.
La filosofia diventa
cura, ma non intesa come terapia, bensì come cura di sé, palestra per la
mente. Per prendersi cura di sé si può andare a pilates, al cinema, in
gelateria e — perché no? — a un dialogo filosofico. ?