Repubblica 23.9.17
Il tradimento delle origini
di Roberto Saviano
QUALCHE
giorno fa, fuori tempo massimo e senza averne i requisiti, mi sono
candidato attraverso un post sulla mia pagina Facebook alla guida del
Movimento 5 Stelle. Le reazioni sono state le più disparate, ma la cosa
che mi ha davvero impressionato sono stati gli ultrà del Movimento che
hanno commentato il mio post.
NESSUNO — e dico nessuno — ha
sollevato obiezioni di natura politica. La maggior parte mi scriveva che
non potevo candidarmi “perché non avevo i requisiti”. Incredibile, i
sostenitori di un movimento che ha cambiato continuamente le regole
cardinali della propria struttura, senza fare autocritica e senza
fornire spiegazioni (conseguenti magari all’inevitabile incontro/scontro
con la realtà), si aggrappavano ai requisiti e alla loro mancanza.
Quindi
il paradosso: da un lato una inflessibilità di facciata che sa di
indottrinamento, dall’altro una fisiologica “flessibilità” sulle regole,
diretta conseguenza dell’assenza di uno Statuto che abbia alla base
valori politici. E questa assenza, nonostante i sondaggi, sta divorando
il Movimento dal suo interno. Qui non si tratta di comporre requiem
perché è evidente che quel partito noto a tutti con il nome di M5S gode
di ottima salute. Mi sto solo interrogando su questo: cosa è rimasto del
Movimento 5 Stelle nel Movimento 5 Stelle?
Quando penso alle
prossime elezioni politiche mi viene in mente un detto che suona più o
meno così: “Vediamo di che morte dobbiamo morire”. E a “morire” non
saremo solo noi, a “morire” sarà soprattutto quell’idea di politica
nuova, che in teoria nulla ha a che vedere con compromessi e alleanze di
necessità. Eh sì, perché anche il M5S, se vorrà governare, dovrà invece
scendere a patti.
Qualche giorno fa si è celebrato l’anniversario
del primo V-day. Ricordo solo una cosa di quella giornata e delle
analisi che la seguirono: le persone in piazza appartenevano alla classe
media, con un buon livello di istruzione. Erano giovani, ma non
giovanissimi. Erano tutti outsider, persone in gamba, sfiancate da anni
di berlusconismo e da una opposizione incapace di rappresentare quel
malessere. Erano persone che non riuscivano più a votare, che non
pensavano neanche lontanamente di fare politica, perché a scoraggiarli
erano i ras e capetti locali, rimasti a presidiare quello che restava
della partecipazione politica.
C’era la parte migliore del Paese
in piazza a Bologna nel 2007? Non lo so, ed è inutile stabilirlo oggi.
Quel che è certo è che, a distanza di dieci anni, la fiammata iniziale
si è spenta per lasciare spazio ad altro. A molto altro, in verità,
perché se arrivi al 30% dei consensi, allarghi la base elettorale in
maniera esponenziale e, forse, non sei più in grado di riconoscere le
categorie — sociali, economiche, generazionali — delle quali sei
rappresentativo. Sono però abbastanza certo che chi aveva provato
entusiasmo per le parole d’ordine di democrazia dal basso, orizzontale,
di lotta alle vecchie dinamiche di partito è scappato da tempo dal
Movimento per rifugiarsi ancora una volta nel non voto, per coltivare il
proprio privato alla ricerca di una felicità individuale.
Gianroberto
Casaleggio era un consulente. Al momento del V-day, la Casaleggio
Associati non si occupava solo di gestire il blog di Beppe Grillo, ma
anche della comunicazione politica e delle strategie di partito per
Antonio Di Pietro. La candidatura di Luigi de Magistris nell’Italia dei
Valori alle Europee fu una sua idea. Casaleggio era anche socio, assieme
a Beppe Grillo, con il commercialista Enrico Nadasi e Enrico Grillo,
nipote di Beppe, dell’associazione Movimento 5 Stelle, proprietaria del
simbolo del Movimento, un elemento cruciale. Pensiamo a come gli eredi
della Democrazia Cristiana hanno battagliato negli anni per la proprietà
del simbolo (che poi, dopo Tangentopoli, non aveva tutto questo
appeal); o a Marco Pannella, che donò il simbolo del “Sole che Ride” al
movimento ambientalista. Cosa comporta la proprietà del simbolo? Che,
pena l’espulsione, nessuno all’interno del Movimento può prendere
decisioni in autonomia e che la proprietà del simbolo decide la linea
del Movimento in maniera insindacabile. Grillo è garante e chiede
fiducia per sé e per le proprie decisioni: allora chi viene eletto nel
Movimento che ruolo ha? E ancora: chi decide l’idoneità di una
candidatura anche dopo il cosiddetto voto popolare attraverso la
piattaforma Rousseau di proprietà di Davide Casaleggio? La parola finale
spetta sempre ai garanti, in barba al voto orizzontale, all’uno vale
uno. Ma come mai, viene da chiedersi, Grillo e Casaleggio junior
dell’organizzazione che loro stessi hanno dato al Movimento non si
fidano più? Perché dove manca una caratterizzazione politica può entrare
di tutto. Il vuoto può essere riempito da qualunque cosa. Faccio un
esempio che ciascuno può comprendere. L’unica significativa esperienza
di governo del Movimento 5 Stelle dalla sua fondazione è
l’amministrazione capitolina, ed è un caso di scuola di infiltrazione e
quindi di commissariamento (della sindaca Raggi) da parte della
associazione che gestisce il simbolo. Raggi non decide nulla, poiché per
i vertici del Movimento è diretta emanazione di altri ambienti
politici: questa è la realtà dei fatti, ed è grave per una città tanto
grande quanto i suoi problemi giustificare la catastrofe con l’eredità
del passato. È evidente il peso della devastazione precedente, ma allora
che senso ha avuto proporsi come alternativa di governo?
Ma
veniamo al punto cruciale di questa mia riflessione che dimostra come la
condizione attuale del M5S, al di là delle mistificazioni di facciata,
sia sul piano del metodo e della pratica politica in perfetta continuità
con quanto l’Italia ha vissuto negli ultimi decenni. Silvio Berlusconi
dal nulla fondò un partito politico che alle europee del 1994 veleggiava
al 30% e lo fece utilizzando la sua struttura aziendale: il partito
personale, il partito azienda. Il Movimento 5 Stelle oggi è una
evoluzione di quella patologia, perché al di là dei proclami sulla
politica dal basso e sull’assenza di personalismi, è il primo caso di
un’entità politica gestita da associazioni riconducibili a singoli e da
srl che pretendono fiducia incondizionata. Il caso Cassimatis lo
conferma.
I leader del Movimento, quelli che hanno consolidato la
propria immagine nel corso di questi anni, non sono che figuranti
destinati a diventare figurine qualora dovessero accettare il vincolo di
mandato che, al di là delle motivazioni di facciata, e cioè di
preservare la fedeltà nei confronti degli elettori, genererebbe un
mostro: il controllo da parte di associazioni e di srl riconducibili a
Beppe Grillo e a Davide Casaleggio di istituzioni pubbliche. A
proposito, vado interrogandomi da qualche giorno su una questione: ma
quando, tra cento anni, Davide Casaleggio e Beppe Grillo decideranno di
trasferirsi nella costellazione Gaia, chi erediterà le redini del
Movimento 5 Stelle: figli, nipoti, zie? Nemmeno Berlusconi potè tanto:
basti pensare che quando si ventilò l’ipotesi che Marina Berlusconi
potesse succedere al padre, dalla coalizione di centro- destra si
levarono voci più che critiche. Oggi dal conflitto di interessi siamo a
un passo dal cadere nella privatizzazione della democrazia.
È,
questo, un punto di non ritorno e i figuranti, gli ospiti fissi dei
salotti televisivi sanno di non potersi più fermare a riflettere su cosa
sia accaduto a loro e al Movimento, e probabilmente non hanno nemmeno
gli strumenti per farlo. Voglio essere facile profeta: i Di Maio, i Di
Battista, i Toninelli saranno per sempre “politici”, nella declinazione
dispregiativa che del termine hanno dato loro stessi, perché dalla
visibilità provata, dalla sensazione di riuscire a raggiungere il potere
— pure se di facciata — non si torna indietro. Altro che due mandati.
Oggi l’unica parola d’ordine rimasta a disposizione del Movimento è che
gli altri sono peggio. Accettiamo retoricamente l’argomentazione, ma
poi? Chi ha creduto in questo vento nuovo lo ha fatto per sentirsi dire,
di fronte a errori, fallimenti e contraddizioni che “gli altri sono
peggio”? Lo si sapeva già. E oltre questo? Cosa rimane, qual è
l’orizzonte politico?
In queste ore il Movimento è riunito a
Rimini per festeggiare la partenza della campagna per le politiche
dell’anno prossimo. Io vedo invece la formalizzazione del fallimento di
tutte le premesse. Da domani il Movimento non avrà più un portavoce, ma
un leader. Un capo che rimarrà comunque solo un figurante, incapace sul
piano politico e culturale di opporre alcunché al dominio del dedalo di
associazioni e di srl che peraltro non hanno neanche lontanamente
intenzione di rinunciare ai loro altri clienti e che cambiano le regole a
loro capriccio chiedendo atti di fede. Perché solo un atto di fede può
far digerire in Sicilia (proprio in Sicilia!), dopo anni in cui si è
professato il rispetto di legalità e magistratura, una candidatura che
un tribunale ha dichiarato illegittima. Gli altri saranno peggio, ma il
Movimento dimostra di seguirne i passi con disinvoltura coprendosi,
peraltro, di ridicolo perché il pasticcio siciliano è conseguenza della
necessità di far credere che le decisioni nel Movimento siano sempre
prese dal basso. E intanto, Silvio Berlusconi…