sabato 23 settembre 2017

Repubblica 23.9.17
Identikit della scuola italiana alla ricerca di nuove ricette contro le disuguaglianze
di Tomaso Montanari

Il saggio di Christian Raimo analizza i punti critici del nostro sistema educativo. Un mondo complesso che continua a essere diviso tra serie A e serie B
“Tutti i banchi sono uguali”. La scuola è l’uguaglianza che non c’è: fin dal titolo l’ultimo libro di Christian Raimo (per Einaudi) è un invito pressante a riprenderci la scuola pubblica: per ristabilirne la funzione costituzionale, che è quella di rimuovere gli ostacoli all’eguaglianza sostanziale e al pieno sviluppo della persona umana.
«Nel fiorire di iniziative sulla scuola – ha scritto Walter Tocci – è mancata quella piú utile, cioè la valutazione dei risultati delle politiche seguite dai diversi governi». È esattamente questo lo scopo del libro di Raimo: e il risultato è l’accorata cronaca di un naufragio.
Tutta la riflessione è innervata e sostenuta da dati: facciamo tre esempi. La scuola italiana dell’obbligo è messa più o meno come i nostri acquedotti: perde ciò che dovrebbe portare fino in fondo. L’ultima rilevazione dell’Istat fissa infatti la dispersione scolastica al 14,7%, con picchi del 24% in Sicilia o in Sardegna: la media europea è dell’11%, e stanno peggio di noi solo Spagna, Portogallo, Malta e Romania. Una ricerca Isfol certifica che i figli di genitori privi di titolo di studio proseguono oltre l’obbligo solo nel 44,9% dei casi, mentre per i figli di genitori laureati la percentuale è del 99,1%.
Ma la selezione sociale non è finita: uno studio della Fondazione Einaudi del 2016 dice che la metà di coloro che riescono a continuare e si iscrivono alle superiori prende ripetizioni private. Un giro d’affari da 800 milioni l’anno, per il 90% al nero: ma soprattutto un potentissimo fattore di discriminazione economica. E chi non ce la fa entra nella categoria dei neet ( not in education employment or training) che ingoia il 25,7% dei giovani dai 15 ai 29 anni, ossia 2,3 milioni di persone. Non è una scuola per poveri, quella italiana: perché, come ha spiegato Roberto Contessi, autore di Scuola di classe (Laterza) «non è quasi mai in grado di colmare le diseguaglianze di partenza, e si limita a certificarle ». Il che non vuol dire soltanto, commenta Raimo, «che il figlio del notaio farà il notaio e quello del contadino il contadino, ma che si riprodurranno disuguaglianze tra Nord e Sud, città e aree interne, laureati e non laureati, attraverso processi di selezione interna e di legittimazione di questo classismo — vedi l’incidenza del contesto famigliare sull’abbandono scolastico o vedi la distinzione per esempio tra licei e istituti tecnici e professionali che rimane il più forte marcatore di una formazione di serie A e una di serie B».
È questo il risultato di una stagione in cui i consulenti del ministero per l’Istruzione sono stati pescati tra gli esperti di “meritocrazia” delle multinazionali. Tutto è cominciato, suggerisce Raimo citando il pedagogista Piero Lucisano, «quando abbiamo cercato di mostrare che un buon sistema formativo produce un ritorno economico ». Fino ad arrivare a tappe forzate a un tempo — il nostro — in cui l’alternanza scuola- lavoro fornisce al mercato una gran massa di mano d’opera gratuita senza alcuna prospettiva di avere in cambio una qualche formazione: fa una certa impressione apprendere che diecimila studenti italiani vengano inviati ogni anno nei fast food di McDonald’s. In Italia, insomma, lo scopo della scuola non è più quello, assegnatole già da Condorcet nel Settecento, di «diminuire l’ineguaglianza che nasce dalle condizioni economiche, mescolare tra di loro le classi che tale differenza tende a separare». No, oggi è quello teorizzato dall’economista americano Kenneth Arrow: «L’istruzione superiore non aumenta né la conoscenza né la socializzazione. Al contrario, serve come dispositivo di screening, in quanto individua persone di diversa abilità, trasmettendo così informazioni a chi compra lavoro ».
È da qui che dovrebbe ricominciare una qualunque sinistra italiana: per poi magari occuparsi anche dell’università, alla quale si iscrive ormai il «5,3% dei figli di genitori senza titolo di studio, il 14% dei figli di genitori con la sola licenza elementare, il 45% dei figli di diplomati e l’83,6% dei figli di laureati». Ma qua ci vorrebbe un altro libro: lucido e duro come questo.