Repubblica 21.9.17
Dal franchismo a oggi, l’infinito clásico Oggi è uno scontro fra curve (e caste)
di Aldo Cazzullo
Fin
da quando, dopo la storica vittoria al Mondiale sudafricano del 2010,
Piqué e Carles Pujol fecero il giro del campo con la Senyera , la
bandiera catalana, mentre i compagni festeggiavano attorno a quella
spagnola. Un altro Pujol, Jordi, in gioventù aveva passato tre anni
nelle carceri franchiste proprio per aver intonato «El cant de la
Senyera», l’inno vietato dal regime («quasi tutto il teatro si alzò in
piedi e si unì a me...»); dopo la morte del dittatore fu il padre
dell’autonomia catalana. «Ho fatto sette figli e vinto sei elezioni»
amava dire Jordi Pujol nel suo italiano ricercato; omettendo che i
suddetti figli avevano imboscato ad Andorra milioni di euro.
Il
punto è che la diversità catalana a volte si è rivelata un falso mito.
Ne è convinto il più importante scrittore civile di Spagna, Javier
Cercas, nato in Estremadura e cresciuto a Barcellona: «Ero bambino,
tornavamo al paese, e domandai a mio padre dove finisse la Catalogna e
dove cominciasse la Spagna. Mi rispose che quando trovavo i bagni
sporchi era il segno che avevamo passato il confine. Ma ora i bagni sono
puliti dappertutto. E dappertutto la politica è spaventosamente
corrotta».
Il mito vorrebbe Madrid imperiale e franchista,
Barcellona borghese e libertaria. In Castiglia i cortigiani e la Guardia
Civil, sul Mediterraneo gli industriali e gli anarchici. I quali,
quando presero il potere, proposero la tassa sulla verginità «crimine
sociale» e stabilirono di abolire le prostitute: Federica Montseny,
ministra della Sanità, si impegnò a trasformarle in sarte, per
concludere che solo una rivoluzione sessuale avrebbe risolto il
problema. Arrivarono prima i fucilatori di Stalin — agli ordini di
Togliatti — e poi le truppe di Franco; che era sì tifoso del Real
Madrid, ma veniva dalla Galizia (come Rajoy). E comunque il suo delfino,
Manuel Fraga Iribarne, fondatore del partito popolare oggi al potere,
poco prima di morire ricordava: «Ogni volta che accompagnavo il Caudillo
a Barcellona, sfilavamo tra due ali di folla plaudente». Ma non si
poteva fare altrimenti. «Le ragazze lanciavano fiori». Era pur sempre
una dittatura. «Le grandi famiglie gareggiavano nell’invitarci a
casa...».
L’ultimo presidente della Catalogna a proclamare
l’indipendenza fu Lluís Companys, esule dopo la guerra civile; Franco se
lo fece consegnare dalla Gestapo per metterlo al muro; e le sue ossa
sul Montjuic fremono amor di patria. Il suo partito si chiamava Esquerra
Republicana de Catalunya, riportato al governo locale settant’anni dopo
da Josep Lluís Carod-Rovira, grande amico di Cossiga, che rilasciava
interviste in francese perché sosteneva di non aver mai parlato
castigliano in pubblico in vita sua. Sul Montjuic è custodita «La
esperanza del condenado a muerte», l’opera che Joan Miró dedicò al
giovane anarchico Salvador Puig Antich, che neppure Paolo VI riuscì a
sottrarre alla garrota: Franco non gli venne neanche al telefono. Puig
Antich è sepolto sulla stessa collina che domina il mare, accanto allo
stadio delle Olimpiadi 1992, quelle della rinascita della città.
Madrid
le Olimpiadi non le ha mai avute, nonostante numerose candidature. Le
restano le corride, vietate in Catalogna anche per far dispetto ai
rivali e rinnegare la hispanidad ; anche se l’arena più antica è a Olot,
come ricorda Cercas, figlio di un veterinario. Il dolore talvolta ha
riunito, talvolta ha diviso. Dopo la bomba islamista nella stazione
madrilena di Atocha, il ministero dell’Interno accusò l’Eta; la
Catalogna andò in massa a votare contro il governo, nelle province di
Girona e Lleida il Pp non elesse neppure un deputato. Dopo la strage
dell’estate scorsa a Barcellona, i vertici nazionali della sicurezza
criticarono i Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, per non aver
fermato i terroristi.
Le Ramblas sono il cortile di casa dei
giovani europei, e sono state colpite per questo: tapas, cerveza, e in
fondo alla strada il mare. Qui il dinamismo economico offre casa e
lavoro. Però Madrid con i suoi quartieri latinoamericani e meticci è
oggi forse più aperta e più internazionale di Barcellona, mai stata così
bella eppure ripiegata sul catalanismo: la città che fu crocevia del
Novecento — Malraux, Hemingway, Bernanos, Koestler, Gibson e ovviamente
l’Orwell di Omaggio alla Catalogna — oggi fa a tutti l’esame di
catalano, e assume medici che dicono «adeu» invece di «adios». Ma la
vera dicotomia non è tanto tra le due capitali, quanto tra la Catalogna
ponte verso l’Europa e la Spagna profonda.
Pablo Iglesias, il capo
di Podemos col codone da tanguero, è di Madrid eppure sostiene il
referendum; Albert Rivera, il capo di Ciudadanos, è di Barcellona eppure
combatte la secessione. E il nerbo della resistenza unionista, oltre
alla destra, sono i socialisti andalusi. I separatisti del resto sono
sempre i ricchi, catalani e baschi appunto; i poveri restano attaccati
alle mammelle dello Stato. Quello spagnolo è vecchio di quasi sei
secoli, da quando Isabella portò la Castiglia in dote a Ferdinando che
governava Catalogna e Aragona, e insieme presero Granada. Nel 1714 le
armi borboniche misero fine all’indipendenza, come amano ricordare i
tifosi del Barça al 17° minuto e 14° secondo delle partite contro il
Real. Oggi la schermaglia è appunto roba da curve e da caste politiche.
Che si assomigliano più di quel che pensano.