giovedì 21 settembre 2017

Repubblica 21.9.17
Le strade sbagliate di Barcellona e Madrid
di Roberto Toscano

MA cosa sta succedendo in Spagna? Arresti di alti dirigenti del governo autonomo della Catalogna; perquisizioni di sedi comunali e sequestro di materiali predisposti per il referendum sull’indipendenza indetto per il primo ottobre; inquietanti divergenze nel comportamento di Guardia Civil e Polizia Nazionale da una parte e Mossos de Esquadra, la polizia catalana, dall’altra. Il capo del governo, Rajoy, assicura che non esiterà se sarà necessario impiegare la massima fermezza per imporre il rispetto della Costituzione, e in concreto si accinge ad applicare l’art. 155 della Costituzione, che autorizza il governo centrale a “commissariare” le regioni autonome. Nel frattempo, trecento professori universitari — riflettendo l’orientamento di una parte certo non secondaria dell’opinione pubblica — esortano il governo a «usare la forza legittima dello stato» contro il separatismo catalano.
La crisi è seria, e colpisce il fatto che sia stato tanto a lungo sottovalutata da parte del governo centrale spagnolo. Un governo che solo la polemica degli indipendentisti catalani può definire “franchista”, ma è, piuttosto, conservatore e immobilista, è stato a lungo incapace di affrontare politicamente il problema e oggi, di fronte alle forzature indipendentiste, sembra capace soltanto di fare ricorso al codice penale e alla forza pubblica. Non vi è dubbio che vi sia da parte del governo regionale catalano una violazione delle vigenti norme costituzionali e degli stessi principi democratici, e francamente risulta curioso che oggi chi ha deciso di perseguire le proprie finalità indipendentiste al di fuori della legalità vigente denunci il “golpe” da parte del governo centrale. Inoltre, nel progetto di referendum non si prevede alcun quorum e si sottolinea che per dichiarare l’indipendenza basterebbe il 50,01 dei voti. Lo slogan principale della campagna indipendentista rivendica il “diritto a decidere”, ma sarebbe più corretto, dal punto di vista democratico, parlare di “diritto ad esprimersi”, come fra l’altro già avvenuto con il referendum non vincolante che ha avuto luogo nel 2014, e che aveva fatto registrare un forte appoggio per la proposta indipendentista. Un responso di cui Madrid avrebbe dovuto tenere conto avviando un processo di riforma costituzionale con l’introduzione della possibilità di un referendum diverso da un semplice sondaggio di opinione, ma con effetti di tipo istituzionale. E oggi Madrid dovrebbe ricordare che non tutto quello che è legalmente possibile è politicamente saggio, soprattutto alla luce delle prevedibili conseguenze.
Quello che in ogni caso non è accettabile è che un evento di tale portata come la spaccatura della Spagna venga deciso da una minoranza, o da una maggioranza non qualificata, e in modo unilaterale. Si parla di un “divorzio” fra Spagna e Catalogna, ma in questo caso quello che propongono i nazionalisti catalani è il divorzio “all’islamica”, il talaq, quello in cui basta la ripetizione per tre volte di «ti divorzio» per liberare (i maschi) dal vincolo matrimoniale. Senza avvocati, senza discussioni sui figli o sulla divisione dei beni. Si dovrebbe invece arrivare a un referendum costituzionalmente valido, con un quorum (nel 1995, nel referendum perso per alcuni punti percentuali dagli indipendentisti del Quebec la partecipazione fu del 93,5 per cento), e una maggioranza qualificata. Sarebbe anche da discutere la formulazione della domanda referendaria, nel senso che molti costituzionalisti sottolineano che all’opzione secca (indipendenza sì/indipendenza no) andrebbe aggiunta quella, che secondo alcuni sondaggi potrebbe risultare la preferita per parte dell’opinione pubblica, dell’introduzione di un sistema federale.
Nel caso di vittoria del sì, inizio di un processo negoziale fra Catalogna e Spagna per definire le condizioni della separazione. Ma non sembra questa la strada che verrà percorsa. Soprattutto dopo questa fase, che minaccia di risultare seriamente traumatica senza contare il pericolo di slittamento verso episodi di violenza, il nazionalismo catalano si avvierà inevitabilmente sulla strada di un’ulteriore radicalizzazione, passando da “Madrid ci deruba” (ricordate “Roma ladrona”?) a “Madrid ci reprime”. La prima affermazione era falsa, ma la seconda potrebbe diventare reale, dato che il governo centrale, politicamente inetto, potrebbe essere tentato di cercare una soluzione della questione catalana attraverso strumenti di tipo burocratico- repressivo.
Qui si apre il discorso sui rapporti di forza politici a Madrid. Il governo Rajoy è un governo di minoranza che ha bisogno dell’appoggio esterno del Psoe e del Pnv (il Partito Nazionalista Basco). I socialisti hanno dichiarato che appoggeranno il governo Rajoy anche nell’ipotesi, costituzionalmente la più radicale, che si arrivi ad applicare l’art. 155 della Costituzione, ma si sono rifiutati di aderire a una mozione di sostegno presentata da Ciudadanos (un partito fortemente centralista) perché non includeva un appello al dialogo e al compromesso. Nel frattempo il Psoe ha proposto in sede parlamentare di portare avanti l’elaborazione di una riforma costituzionale di tipo federale. Da parte sua il Pnv, che pure ha criticato i nazionalisti catalani per essersi discostati dalla via del dialogo politico e della riforma costituzionale (che il partito basco sta sostenendo dopo il lungo e atroce trauma degli anni del terrorismo Eta), non può certo schierarsi a fianco del centralismo di Madrid.
Anche se nessuno pensa che possano ripetersi in Catalogna le tragiche vicende della violenza terrorista del separatismo basco, dovrebbe essere chiaro sia a Madrid che a Barcellona, come lo è oggi per i baschi tanto indipendentisti che anti-indipendentisti, che la via del dialogo ha come sola alternativa quella di una escalation e di una pericolosa perdita di controllo della situazione, e che la soluzione potrà solo essere di natura politico-costituzionale. Ma i tempi della crisi e quelli del dialogo e della riforma non coincidono, e non si vede quindi come la questione possa essere risolta senza ulteriori strappi e lacerazioni — a livello collettivo e personale, e non solo politico — che potrebbero poi risultare difficili da ricucire.