Repubblica 21.9.17
Torino Spiritualità
Dalla Bibbia a Nietzsche la vera felicità è nell’infanzia
Così dottrine spirituali diversissime tra loro concordano sulla necessità di diventare grandi restando bambini
di Vito Mancuso
Platone
nel “Timeo” riferisce di un sacerdote egizio molto anziano che si
rivolge a Solone dicendo: «Voi greci siete sempre fanciulli, un greco
che sia vecchio non c’è!», intendendo sottolineare la gioventù
spirituale di coloro che noi (ironia della sorte) chiamiamo “antichi
greci”. Ma non c’è solo la possibilità di essere spiritualmente giovani,
vi è anche quella, non meno coinvolgente, di essere spiritualmente
bambini. All’infanzia spirituale è dedicato uno dei testi più belli
della Bibbia ebraica, il salmo 131: «Signore, non si esalta il mio cuore
/ né i miei occhi guardano in alto; / non vado cercando cose grandi/
né
meraviglie più alte di me. / Io resto quieto e sereno: / come un bimbo
svezzato in braccio a sua madre, / come un bimbo svezzato è in me
l’anima mia».
Cosa diciamo di una persona che definisce se stessa
quieta e serena e che si paragona a un bimbo in braccio alla madre?
Diciamo che è felice e contenta, aggettivi che provengono ambedue dal
latino. Il primo significato di felix è “fertile, fruttifero”, con
riferimento a fetus e a fecundus, sicché l’aggettivo “felice” ha
originariamente a che fare con la nascita e la fecondità: uno è felice
quando è fertile ed è in grado di generare e di nutrire.
Contentus
invece è il participio passato di continere, “contenere, trattenere”,
sicché contento è chi rimane entro certi limiti e non vuole di più: si
contiene, è contenuto, e quindi è contento. Il bambino in braccio alla
madre è felice perché ha a che fare con la fertilità della madre, ed è
contento perché questo gli basta. Gli basta vivere, per vivere. Gli
basta essere, per essere; non può desiderare altro, è contenuto, e
questo lo rende contento.
Noi sappiamo che questa descrizione del
bambino non è del tutto vera perché, come scrive il neuroscienziato
Franco Fabbro, «nella specie umana il periodo di maggiore aggressività
fisica corrisponde all’età di 2-4 anni sia nei bambini sia nelle
bambine». Qui però a tema non è l’infanzia reale ma l’infanzia
spirituale, quella condizione sognata e talora intravista che esprime
una particolare caratteristica della felicità: la felicità come quiete e
come pace, lo stato di chi è contento perché è contenuto e si
accontenta, non va in cerca di cose superiori alle sue forze ma è
soddisfatto di quello che ha e di quello che è.
Forse fu proprio
pensando a queste cose che un giorno Gesù disse: «In verità io vi dico:
chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà
in esso» (Luca 18,17). Ma in concreto cosa significa, che bisogna
comportarsi e ragionare da bambini? San Paolo non la pensava così:
«Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da
bambino; divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino» (1Corinzi
13,11). E ancora: «Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi…
comportatevi da uomini maturi» (1Corinzi 14,20). La maturità e la
ragione sono uno strumento prezioso che va salvaguardato contro ogni
tendenza che favorisca l’immaturità e l’irrazionalità. Ma allora in cosa
consiste propriamente l’infanzia spirituale?
Rispetto alla
traduzione cattolica ufficiale del salmo 131, la Bibbia ebraica presenta
una versione diversa al cui centro si legge: «Ho considerato la mia
persona e l’ho resa uguale a quella di un bambino appena divezzato da
sua madre». Qui si parla di un’azione tutt’altro che infantile, si
descrive la maturità di chi giunge a soppesare la propria persona e a
scegliere in piena responsabilità quale sapore darle. Prescindendo dallo
stabilire se sia più corretta la traduzione dei vescovi o quella dei
rabbini, la questione esistenziale ritorna: che cosa significa decidere
di essere spiritualmente un bambino?
A mio avviso l’infanzia
spirituale consiste in due atteggiamenti di fondo: meraviglia e fiducia.
Meraviglia che la vita ci sia e che io la possa vivere, e fiducia in
essa nonostante tutto. A questo riguardo penso che ognuno dovrebbe
chiedersi se ha fiducia nella vita. La realtà che chiamiamo vita (intesa
come natura più storia) possiamo paragonarla a una madre che ci nutre e
che ci porta: ebbene, tu come ti trovi tra le sue braccia? Sei
tranquillo e sereno, o all’opposto sei inquieto e stai male e vorresti
essere da tutt’altra parte?
Naturalmente non siamo noi i primi a
farci questa domanda, da sempre gli esseri umani se la sono posta e le
loro risposte sono depositate in quell’insieme di saperi e di pratiche
che con una parola sola chiamiamo “spiritualità” e che comprende arte,
musica, letteratura, poesia, danza, religione, filosofia... Vi sono modi
di sentire e di stare al mondo che si determinano nella direzione del-
la scontentezza e della ribellione: sono le spiritualità all’insegna del
no, nella convinzione che i conti non tornano e che quindi non è
possibile essere contenti, anzi bisogna urlare, protestare, lottare. Vi
sono altresì modi di sentire e di stare al mondo che esprimono
tranquillità, gioia, serenità e chi vi aderisce è come se dicesse a se
stesso che la vita è una madre di cui fidarsi ed essere contenti.
Riporto al riguardo un brano di Pierre Teilhard de Chardin, gesuita
francese, scienziato, teologo, cui la Chiesa dei suoi tempi tolse
l’insegnamento e vietò ogni pubblicazione, in una lettera del 20
febbraio 1947: «Malgrado il caos apparente del mondo resto ottimista,
perché, nel complesso, mi sembra che gli eventi vadano nella direzione
che era legittimo aspettarsi: quella di un’unificazione planetaria
dell’umanità, un processo estremamente pericoloso ma biologicamente
inevitabile, a cui saremo (e già siamo) costretti a dedicare tutte le
nostre migliori energie spirituali».
Nietzsche, a riprova di come
questa disposizione non supponga la fede cristiana, presenta una visione
analoga. All’inizio dello Zarathustra parla di «tre metamorfosi» al cui
termine il leone deve diventare un fanciullo, e aggiunge: «Innocenza è
il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un gioco, una ruota rotante da
sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il gioco della
creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì».
Credo che Gesù
intendesse rimandare a questa fiducia e meraviglia primordiali quando
diceva che per entrare nel regno di Dio occorre diventare come i
bambini.