giovedì 21 settembre 2017

Repubblica 21.9.17
Torino Spiritualità
Dalla Bibbia a Nietzsche la vera felicità è nell’infanzia
Così dottrine spirituali diversissime tra loro concordano sulla necessità di diventare grandi restando bambini
di Vito Mancuso

Platone nel “Timeo” riferisce di un sacerdote egizio molto anziano che si rivolge a Solone dicendo: «Voi greci siete sempre fanciulli, un greco che sia vecchio non c’è!», intendendo sottolineare la gioventù spirituale di coloro che noi (ironia della sorte) chiamiamo “antichi greci”. Ma non c’è solo la possibilità di essere spiritualmente giovani, vi è anche quella, non meno coinvolgente, di essere spiritualmente bambini. All’infanzia spirituale è dedicato uno dei testi più belli della Bibbia ebraica, il salmo 131: «Signore, non si esalta il mio cuore / né i miei occhi guardano in alto; / non vado cercando cose grandi/
né meraviglie più alte di me. / Io resto quieto e sereno: / come un bimbo svezzato in braccio a sua madre, / come un bimbo svezzato è in me l’anima mia».
Cosa diciamo di una persona che definisce se stessa quieta e serena e che si paragona a un bimbo in braccio alla madre? Diciamo che è felice e contenta, aggettivi che provengono ambedue dal latino. Il primo significato di felix è “fertile, fruttifero”, con riferimento a fetus e a fecundus, sicché l’aggettivo “felice” ha originariamente a che fare con la nascita e la fecondità: uno è felice quando è fertile ed è in grado di generare e di nutrire.
Contentus invece è il participio passato di continere, “contenere, trattenere”, sicché contento è chi rimane entro certi limiti e non vuole di più: si contiene, è contenuto, e quindi è contento. Il bambino in braccio alla madre è felice perché ha a che fare con la fertilità della madre, ed è contento perché questo gli basta. Gli basta vivere, per vivere. Gli basta essere, per essere; non può desiderare altro, è contenuto, e questo lo rende contento.
Noi sappiamo che questa descrizione del bambino non è del tutto vera perché, come scrive il neuroscienziato Franco Fabbro, «nella specie umana il periodo di maggiore aggressività fisica corrisponde all’età di 2-4 anni sia nei bambini sia nelle bambine». Qui però a tema non è l’infanzia reale ma l’infanzia spirituale, quella condizione sognata e talora intravista che esprime una particolare caratteristica della felicità: la felicità come quiete e come pace, lo stato di chi è contento perché è contenuto e si accontenta, non va in cerca di cose superiori alle sue forze ma è soddisfatto di quello che ha e di quello che è.
Forse fu proprio pensando a queste cose che un giorno Gesù disse: «In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come l’accoglie un bambino, non entrerà in esso» (Luca 18,17). Ma in concreto cosa significa, che bisogna comportarsi e ragionare da bambini? San Paolo non la pensava così: «Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino; divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino» (1Corinzi 13,11). E ancora: «Fratelli, non comportatevi da bambini nei giudizi… comportatevi da uomini maturi» (1Corinzi 14,20). La maturità e la ragione sono uno strumento prezioso che va salvaguardato contro ogni tendenza che favorisca l’immaturità e l’irrazionalità. Ma allora in cosa consiste propriamente l’infanzia spirituale?
Rispetto alla traduzione cattolica ufficiale del salmo 131, la Bibbia ebraica presenta una versione diversa al cui centro si legge: «Ho considerato la mia persona e l’ho resa uguale a quella di un bambino appena divezzato da sua madre». Qui si parla di un’azione tutt’altro che infantile, si descrive la maturità di chi giunge a soppesare la propria persona e a scegliere in piena responsabilità quale sapore darle. Prescindendo dallo stabilire se sia più corretta la traduzione dei vescovi o quella dei rabbini, la questione esistenziale ritorna: che cosa significa decidere di essere spiritualmente un bambino?
A mio avviso l’infanzia spirituale consiste in due atteggiamenti di fondo: meraviglia e fiducia. Meraviglia che la vita ci sia e che io la possa vivere, e fiducia in essa nonostante tutto. A questo riguardo penso che ognuno dovrebbe chiedersi se ha fiducia nella vita. La realtà che chiamiamo vita (intesa come natura più storia) possiamo paragonarla a una madre che ci nutre e che ci porta: ebbene, tu come ti trovi tra le sue braccia? Sei tranquillo e sereno, o all’opposto sei inquieto e stai male e vorresti essere da tutt’altra parte?
Naturalmente non siamo noi i primi a farci questa domanda, da sempre gli esseri umani se la sono posta e le loro risposte sono depositate in quell’insieme di saperi e di pratiche che con una parola sola chiamiamo “spiritualità” e che comprende arte, musica, letteratura, poesia, danza, religione, filosofia... Vi sono modi di sentire e di stare al mondo che si determinano nella direzione del- la scontentezza e della ribellione: sono le spiritualità all’insegna del no, nella convinzione che i conti non tornano e che quindi non è possibile essere contenti, anzi bisogna urlare, protestare, lottare. Vi sono altresì modi di sentire e di stare al mondo che esprimono tranquillità, gioia, serenità e chi vi aderisce è come se dicesse a se stesso che la vita è una madre di cui fidarsi ed essere contenti. Riporto al riguardo un brano di Pierre Teilhard de Chardin, gesuita francese, scienziato, teologo, cui la Chiesa dei suoi tempi tolse l’insegnamento e vietò ogni pubblicazione, in una lettera del 20 febbraio 1947: «Malgrado il caos apparente del mondo resto ottimista, perché, nel complesso, mi sembra che gli eventi vadano nella direzione che era legittimo aspettarsi: quella di un’unificazione planetaria dell’umanità, un processo estremamente pericoloso ma biologicamente inevitabile, a cui saremo (e già siamo) costretti a dedicare tutte le nostre migliori energie spirituali».
Nietzsche, a riprova di come questa disposizione non supponga la fede cristiana, presenta una visione analoga. All’inizio dello Zarathustra parla di «tre metamorfosi» al cui termine il leone deve diventare un fanciullo, e aggiunge: «Innocenza è il fanciullo e oblio, un nuovo inizio, un gioco, una ruota rotante da sola, un primo moto, un sacro dire di sì. Sì, per il gioco della creazione, fratelli, occorre un sacro dire di sì».
Credo che Gesù intendesse rimandare a questa fiducia e meraviglia primordiali quando diceva che per entrare nel regno di Dio occorre diventare come i bambini.

IL FESTIVAL
Comincia oggi a Torino per concludersi lunedì 25 settembre l’edizione numero tredici di Torino Spiritualità, dal titolo Piccolo me. Tra gli ospiti di sabato Vito Mancuso, autore di questo testo ( teatro Carignano, ore 21) e Mario Calabresi ( ore 17, Aula Magna Cavallerizza Reale); tra gli ospiti di domenica, Enzo Bianchi e Massimo Recalcati

il manifesto 21.9.17
Torna la coalizione , gelo dal cantiere della sinistra
Insieme ma non troppo. Pisapia: «Se il Pd ha già scelto il candidato premier vuol dire che vuole correre da solo»
di Daniela Preziosi

ROMA  Romano Prodi si fa largo in mezzo alla calca che lo aspetta alla libreria Feltrinelli vicino Montecitorio. È nella capitale per lanciare, oggi con Vincenzo Visco e Laura Boldrini, il «manifesto contro la diseguaglianza» della fondazione Nens. Ma qui l’occasione è di quelle promettenti per i giornalisti: si presenta il saggio La fabbrica delle verità di Fabio Martini, cronista politico della Stampa. C’è un capitolo dedicato alla propaganda renziana. Telecamere e taccuini attendono le chiose del professore.
Ma restano delusi. Lui, che tre giorni fa a Cesenatico ha lanciato stilettate all’indirizzo del segretario del Pd, stavolta evita gli attacchi diretti. E alla domanda se sta seguendo le evoluzioni della legge elettorale, glissa: «No, non so, se c’ero dormivo…».
Una non risposta che però dice molto. Lui, uomo-simbolo del centrosinistra, sa che il momento è delicato: a due passi dalla libreria, alla Camera, succede che a sorpresa l’ultima proposta del Pd riaprirebbe (il condizionale è d’obbligo, così lo scetticismo) la strada alle coalizioni. Si disegna, almeno in via di ipotesi, lo scenario di un nuovo centrosinistra. Quello che il professore auspica da mesi. Alla fine della presentazione del libro il primo ad avvicinarglisi è Bruno Tabacci, uno degli uomini più vicini a Pisapia. Che poco prima si era appartato a confabulare con il dem Daniele Marantelli, braccio destro di Andrea Orlando, altro coalizionista doc. «Proveremo fino alla fine portare a casa una nuova legge elettorale, e questa ha almeno il pregio di reintrodurre le coalizioni nazionali», gli spiega il deputato.
Ma il ritorno alle coalizioni piomberebbe sul cantiere della lista di sinistra come un ciclone. Il ’leader’ potenziale di Insieme Giuliano Pisapia predica l’alleanza con il Pd. Ma ora che la possibilità potrebbe diventare concreta?
Dall’apertura della Festa di Sinistra italiana a Reggio Emilia Nicola Fratoianni si spazientisce all’ennesima domanda su Pisapia: «Faccio fatica a commentare quotidianamente le sue dichiarazioni, trovo che non sia neanche più utile e sia davvero incomprensibile per tutti, non solo per me», sbotta. Ormai c’è anche la parodia del comico Maurizio Crozza, quella di un leader indeciso a tutto. A Pisapia la gag è piaciuta molto.
Ma per Fratoianni c’è poco da ridere: «C’è una cosa su cui è necessario chiarirsi: questa proposta politica, la sinistra che ha il coraggio di indicare un’alternativa, dica con chiarezza che non solo ora perché c’è una legge elettorale che non lo consente, ma anche dopo le elezioni col Pd del jobs act, della buona scuola e dello sblocca Italia, non c’è possibilità di alleanza».
Negli stessi minuti l’ex sindaco di Milano giunge ad Imola ospite della festa dell’Unità, accolto da un Maurizio Martina in versione super-simpatia (che esagera: «Hai portato anche il bel tempo») con la chiara missione di riagganciarlo. Ma a sorpresa dal palco l’avvocato non è tenero con il Pd. «Possibile che Prodi, Veltroni, Letta non si trovino più nel percorso?», chiede, «È evidente che c’è un tentativo da parte del Pd di guardare avanti con il centrodestra anziché con il centrosinistra». E sulla nuova legge elettorale rincara: «Il Rosatellum 2.0 è peggiorativo del Rosatellum. Si va ad elezione con un sistema proporzionale. Ma un po’ di responsabilità il Pd ce l’ha per essere arrivati a questo punto?». L’ex sindaco continua a sperare nelle coalizioni: lunedì 25 sarà a Roma con Nicola Zingaretti, presidente ricandidato della regione Lazio. Ma per lui sul livello nazionale c’è un argomento che chiude ogni discussione: le primarie. «Dire che il candidato premier è il segretario Renzi, significa voler andare avanti da soli», dice a Martina.

il manifesto 21.9.17
Modernità delle gabbie. Il cuore è uno zingaro
«Non sono razzista, ma...». Si tenga conto che oggi l’etichetta «zingaro» (o, più diffusamente, «rom») risulta al primo posto nella classifica della riprovazione sociale. Dal romanticismo magico dell’epopea gitana che sbanca il festival di Sanremo alla consapevolezza di Jannacci e De André
di Luigi Manconi

Follonica, mattina del 23 febbraio 2017. Nel retro del supermercato Lidl, due donne di etnia rom vengono sorprese da tre dipendenti mentre frugano tra i cartoni da smaltire. La scena successiva: le due donne sono state rinchiuse all’interno di una gabbia che contiene altri cassonetti bianchi pieni di cartoni. Piangono, gridano a voce altissima, sbattono mani e braccia contro l’inferriata, cercando di forzarla. Fuori dalla gabbia, due dei dipendenti ridono rumorosamente e uno, con voce stentorea, si rivolge alle donne. Ripete più volte che non si può entrare nell’angolo dei rifiuti della Lidl: «No, non si può entrare».
A UN TRATTO, l’eccesso di riso lo fa tossire. Un terzo addetto, nel frattempo, registra tutto col telefonino e si arrampica sulla sommità della gabbia per riprendere la scena dall’alto (successivamente due dei dipendenti verranno licenziati dall’azienda tedesca).
Non si può escludere che dietro il mancato scandalo per l’«ingabbiamento» di due persone, come è avvenuto a Follonica, vi possa essere un oscuro e temibile retropensiero. Se la gran parte delle persone intervistate nei giorni successivi tenderà a ridimensionare l’episodio, definendolo «una burlonata» attribuita a «ragazzi» (definiti sempre ed esclusivamente con tale termine), forse c’è di che riflettere.
I due tratti che abitualmente vengono attribuiti da una parte rilevante del senso comune a rom e sinti – una certa ferinità e una sostanziale irriducibilità alla vita sociale – possono suggerire come sola forma di disciplinamento la soggezione in cattività. Dunque, l’idea che quel tipo di etnia possa/debba essere «chiusa in gabbia».
Si tenga conto che oggi l’etichetta «zingaro» (o, più diffusamente, «rom») risulta al primo posto nella classifica della riprovazione sociale. A seguire, l’elenco dei «nemici» subisce variazioni continue dovute in genere all’influenza di fatti di cronaca che abbiano avuto una eco particolare e nei primi posti si alternano soggetti nazionali o regionali, destinatari, di volta in volta, dell’ostilità sociale.
Non si dimentichi, infatti, che almeno tre gruppi regionali italiani si sono trovati, nell’ultimo mezzo secolo, a contendersi il primato, o almeno le piazze d’onore, in questa speciale competizione: «i siciliani», «i sardi», «i calabresi». Ma il dato costante è che «gli zingari», persino nei momenti di maggiore successo degli «albanesi» e dei «romeni» (corrispondenti all’incremento dei flussi di queste nazionalità verso l’Italia), hanno sempre saldamente occupato il primo posto nel podio (dell’odio).
EPPURE non è stato sempre così. A partire dalla questione, tutt’altro che insignificante, del nome. Qui si è utilizzato e si continuerà a utilizzare il termine «zingaro» in modo neutrale perché fino a una certa fase l’accezione positiva prevaleva nettamente su quella critica. Oggi le cose sono cambiate. E quel termine «zingaro» viene rifiutato innanzitutto dalle comunità rom e sinti (alle quali vanno aggiunte alcune centinaia di caminanti, presenti prevalentemente nella zona di Noto, in Sicilia) e dalle associazioni che ne tutelano i diritti. Si preferisce, cioè, il ricorso alle parole che segnalano l’origine etnica.
Ma, come si è detto, non è stato sempre così.
QUASI MEZZO SECOLO FA, al festival di Sanremo del 1969, trionfava la canzone Zingara, sontuosamente interpretata da Iva Zanicchi (e da Bobby Solo). Appena due anni dopo Nada e Nicola di Bari portavano al successo Il cuore è uno zingaro. Dunque, il maggiore evento nazional-popolare del nostro paese, dove si riflettono la mentalità condivisa e i mutamenti culturali e del costume, celebra l’epopea gitana.
Già nel 1968, Enzo Jannacci portava al secondo turno di Canzonissima Gli zingari: e cantava di «gente bizzarra, svilita», che un giorno arriva di fronte al mare. E solo «il vecchio, proprio lui, il mare, parlò a quella gente ridotta, sfinita. Parlò ma non disse di stragi, di morti, di incendi, di guerra, d’amore, di bene e di male».
Poi, nel 1971, Mario Barbaja nella ballata Il re e lo zingaro ripropone la figura del gitano come eroe di un irriducibile nomadismo verso la libertà. E nel 1976 Claudio Lolli interpreta Ho visto anche degli zingari felici, in cui i protagonisti giocano un ruolo politico-profetico all’interno di un racconto dallo stile espressivo-visionario. E, ancora, nel 1978, Fabrizio De André canta Sally, Francesco De Gregori Due zingari e Umberto Tozzi Zingaro.
AL PERSONAGGIO del gitano si continuano ad attribuire tratti fiabeschi: lo zingaro sembra capace di raggiungere quelle mete dell’interiorità, della libertà, della consonanza con la natura, il cui senso per le comunità sedentarie e confinate nelle città moderne è smarrito. E c’è un verso, nella canzone di Tozzi, che, letto ora, appare davvero “scandaloso”: «La scuola ti ruba i figli e non sono più tuoi».
SONO PAROLE che oggi nessuno potrebbe permettersi. Frequentare la scuola pubblica è unanimemente considerata la principale, forse l’unica forma di integrazione che possa consentire alle minoranze rom e sinti una convivenza pacifica con gli altri residenti nel territorio e un progressivo accesso al sistema della cittadinanza. E dunque, quella frase – se fosse riproposta ai giorni nostri – suonerebbe come l’affermazione di un relativismo radicale fondato su una sorta di mito del buon selvaggio. Un mito indirizzato contro il progresso e contro le sovrastrutture prodotte dai processi di civilizzazione («la scuola che ruba i figli»). Al di là del fatto che si tratta di un’assoluta scempiaggine, è indubbio che chi oggi ripetesse quell’affermazione, e violasse l’obbligo scolastico per i propri figli, si troverebbe (dovrebbe trovarsi) i carabinieri alla porta.
MA, A PRESCINDERE da questi accenti estremi, ciò che conta è che fino a non molti anni fa, nell’immaginario culturale e sociale del nostro paese, la figura dello zingaro e della zingara abbia conservato quei connotati di romanticismo magico e di vitalismo naturalistico di cui si è detto.
E la parola «zingaro», con questa forza evocativa, sopravviverà a lungo nella musica leggera italiana così come nella letteratura, specie in quella popolare.
esmeralda barbie
Non solo. Nel 1995 la Mattel lancerà sul mercato Esmeralda, la bambola zingara della linea di Barbie, parallelamente al successo mondiale del film Disney Il gobbo di Notre Dame.
E in Italia, per anni (dal 1996 fino al 2002), il programma televisivo preserale con i maggiori indici di ascolto vide come protagonista Cloris Brosca nei panni della Zingara, che leggeva le carte e prediceva il futuro.
In tutte queste rappresentazioni, lo zingaro e la zingara trasmettono un’immagine che evoca, per un verso, uno stile di vita fuori da regole e convenzioni sociali e, per un altro, ambientazioni agresti e scenari esotici.
Insomma, lo zingaro è il prototipo di un eroe premoderno e preindustriale, ispirato a valori forti e incontaminati, che rimandano allo spirito di una comunità chiusa, alla contrapposizione natura-cultura e al conflitto perenne tra integrazione e ribellione. E, invece, decenni dopo, le ultime tracce che se ne ritrovano nella musica leggera sembrano registrare un drastico cambiamento di clima e di senso comune.
CHI PERCEPISCE tutto questo e le radici profonde, anche sovranazionali e geopolitiche, che lo determinano è Fabrizio De André che, nella splendida Khorakhané, canta: «I figli cadevano dal calendario/ Jugoslavia Polonia Ungheria/ i soldati prendevano tutti/ e tutti buttavano via». E questo porta a scoprire, in mezzo a noi, che «in un buio di giostre in disuso/ qualche rom si è fermato italiano/ come un rame a imbrunire su un muro». E il paesaggio sociale e urbano ne risulta segnato: «Il cuore rallenta la testa cammina/ in quel pozzo di piscio e cemento/ a quel campo strappato dal vento/ a forza di essere vento».
E così questo ribaltamento dell’antico stereotipo porta all’acutizzarsi del pregiudizio e a una crescente ostilità, cantata dai Punkreas, nel 2000, con questi versi sarcastici: «Chiudete le finestre sbarrate le persiane/ pericolo in città di nuovo queste carovane/ nomadi gitani con abiti sfarzosi/ si nota a prima vista che son pericolosi/ cara io vado dai vicini tu chiudi con la chiave e porta su i bambini/ se fanno i capricciosi e non vogliono dormire/ racconta che gli zingari li vengono a rapire».
COME SI VEDE a questo punto e a questa data, la catastrofe sociale e culturale si è già consumata.
E così nel 2015, un giovane autore, Calcutta, scrive: «Suona una fisarmonica/ fiamme nel campo rom» e nel 2016 un gruppo rock, gli Zen Circus, nel brano Zingara (Il cattivista) dà ironicamente espressione a un diffuso sentimento di intolleranza: «Zingara che cazzo vuoi io so che cosa fai/ stringo il portafogli vai via o chiamo la polizia/ ma quanto puzzerai tu non ti lavi mai/ zingara ci fosse lui vi bruciava tutti sai/ se siete ancora qui è colpa dei buonisti».
Insomma si registra una sorta di aggiornamento, in chiave di cronaca nera e di stigmatizzazione criminale, dell’immagine popolare dello zingaro.
Tratto da un capitolo di «Non sono razzista, ma. La xenofobia degli italiani e gli imprenditori politici della paura», di Luigi Manconi e Federica Resta, Feltrinelli editore

il manifesto 21.9.17
Chi ha paura degli embrioni modificati?
Pubblicati oggi su «Nature» gli esiti dell’esperimento di Kathy Niakan sul ruolo dei geni
di Andrea Capocci

La rivista scientifica «Nature» ha pubblicato oggi i risultati di un esperimento di modifica genetica realizzato su embrioni umani. Kathy Niakan, biologa trentanovenne del Francis Crick Institute di Londra, ha usato l’innovativa tecnica CRISPR per modificare il Dna di alcune decine di embrioni «sovrannumerari», quelli inutilizzati nei trattamenti di fecondazione assistita e messi a disposizione dei ricercatori, nei paesi in cui la bioetica lo permette.
LA MODIFICA GENETICA degli embrioni è una pratica molto controversa, soprattutto a scopo terapeutico. La ricerca di Kathy Niakan non ha questo fine, visto che lo sviluppo degli embrioni è stato fermato dopo pochi giorni. Ma in paesi come l’Italia l’esperimento sarebbe stato vietato dalla legge 40 del 2004, che proibisce l’uso di embrioni soprannumerari a scopo di ricerca.
Niakan e il suo team ha studiato il ruolo di un gene denominato POU5F1 nelle primissime fasi della crescita dell’embrione, quando esso è composto da al massimo qualche decina di cellule che iniziano a differenziarsi. Si tratta di uno dei fenomeni più affascinanti della biologia. Anche gli animali più complessi, infatti, si sviluppano a partire da un’unica cellula fecondata.
GENERAZIONE dopo generazione, questa cellula si riproduce e trasmette a tutte le altre il suo patrimonio genetico, cioè le istruzioni che ogni cellula deve compiere nel suo ciclo di vita. Tuttavia, nonostante il Dna delle cellule sia lo stesso, dopo pochi giorni di vita le cellule si differenziano e formano tutti gli organi e i tessuti dell’organismo.
Il meccanismo che governa questo processo è in gran parte sconosciuto: come fanno cellule con lo stesso codice genetico a «decidere» di trasformarsi in neuroni, globuli rossi o cellule ossee?
La tecnica CRISPR ha permesso ai ricercatori di modificare geneticamente l’embrione, «spegnere» il gene POU5F1 e osservarne le conseguenze. Le cellule modificate hanno iniziato a differenziarsi troppo presto, impedendo all’embrione di svilupparsi correttamente. Il gene e la proteina OCT4 ad esso associata, come per altro era già noto, potrebbe dunque giocare un ruolo negli aborti spontanei molto precoci.
Ma l’esperimento è soprattuto un test per verificare l’efficienza della tecnica Crispr in questo tipo di esperimenti. In effetti, la tecnica CRISPR è utilissima. Essa permette di modificare il Dna di una cellula con grande facilità e precisione.
CRISPR, però, genera anche timori: nel dicembre 2015, durante una conferenza a Washington, i maggiori esperti del settore avevano concordato una moratoria sulle applicazioni cliniche di CRISPR sugli embrioni. Il rischio, infatti, era che una tecnica ancora poco conosciuta fosse usata non solo per curare eventuali difetti congeniti, ma anche per generare bambini con caratteristiche genetiche prestabilite.
A Washington, proprio il direttore di Nature Philip Campbell aveva annunciato che la sua rivista avrebbe boicottato ricerche che prevedessero la modifica genetica di embrioni. Evidentemente, rimanere fuori da un filone di ricerca così «caldo» è un prezzo troppo alto da pagare per rispettare una promessa.
A KATHY NIAKAN, come alla maggioranza degli scienziati, disegnare bambini a tavolino non interessa. Per i biologi come lei CRISPR rappresenta uno strumento di ricerca per scoprire il ruolo dei geni.
L’uso di embrioni umani, in questo tipo di studi, è necessario poiché lo stesso gene in altri animali può avere una diversa funzione nello sviluppo dell’embrione.
Dunque, stavolta non è il caso di scomodare l’eugenetica nazista o i «bambini OGM». Il vero scandalo è la legge 40 che, nonostante le sentenze della Consulta, è ancora al suo posto.

Repubblica 21.9.17
Dal franchismo a oggi, l’infinito clásico Oggi è uno scontro fra curve (e caste)
di Aldo Cazzullo

Fin da quando, dopo la storica vittoria al Mondiale sudafricano del 2010, Piqué e Carles Pujol fecero il giro del campo con la Senyera , la bandiera catalana, mentre i compagni festeggiavano attorno a quella spagnola. Un altro Pujol, Jordi, in gioventù aveva passato tre anni nelle carceri franchiste proprio per aver intonato «El cant de la Senyera», l’inno vietato dal regime («quasi tutto il teatro si alzò in piedi e si unì a me...»); dopo la morte del dittatore fu il padre dell’autonomia catalana. «Ho fatto sette figli e vinto sei elezioni» amava dire Jordi Pujol nel suo italiano ricercato; omettendo che i suddetti figli avevano imboscato ad Andorra milioni di euro.
Il punto è che la diversità catalana a volte si è rivelata un falso mito. Ne è convinto il più importante scrittore civile di Spagna, Javier Cercas, nato in Estremadura e cresciuto a Barcellona: «Ero bambino, tornavamo al paese, e domandai a mio padre dove finisse la Catalogna e dove cominciasse la Spagna. Mi rispose che quando trovavo i bagni sporchi era il segno che avevamo passato il confine. Ma ora i bagni sono puliti dappertutto. E dappertutto la politica è spaventosamente corrotta».
Il mito vorrebbe Madrid imperiale e franchista, Barcellona borghese e libertaria. In Castiglia i cortigiani e la Guardia Civil, sul Mediterraneo gli industriali e gli anarchici. I quali, quando presero il potere, proposero la tassa sulla verginità «crimine sociale» e stabilirono di abolire le prostitute: Federica Montseny, ministra della Sanità, si impegnò a trasformarle in sarte, per concludere che solo una rivoluzione sessuale avrebbe risolto il problema. Arrivarono prima i fucilatori di Stalin — agli ordini di Togliatti — e poi le truppe di Franco; che era sì tifoso del Real Madrid, ma veniva dalla Galizia (come Rajoy). E comunque il suo delfino, Manuel Fraga Iribarne, fondatore del partito popolare oggi al potere, poco prima di morire ricordava: «Ogni volta che accompagnavo il Caudillo a Barcellona, sfilavamo tra due ali di folla plaudente». Ma non si poteva fare altrimenti. «Le ragazze lanciavano fiori». Era pur sempre una dittatura. «Le grandi famiglie gareggiavano nell’invitarci a casa...».
L’ultimo presidente della Catalogna a proclamare l’indipendenza fu Lluís Companys, esule dopo la guerra civile; Franco se lo fece consegnare dalla Gestapo per metterlo al muro; e le sue ossa sul Montjuic fremono amor di patria. Il suo partito si chiamava Esquerra Republicana de Catalunya, riportato al governo locale settant’anni dopo da Josep Lluís Carod-Rovira, grande amico di Cossiga, che rilasciava interviste in francese perché sosteneva di non aver mai parlato castigliano in pubblico in vita sua. Sul Montjuic è custodita «La esperanza del condenado a muerte», l’opera che Joan Miró dedicò al giovane anarchico Salvador Puig Antich, che neppure Paolo VI riuscì a sottrarre alla garrota: Franco non gli venne neanche al telefono. Puig Antich è sepolto sulla stessa collina che domina il mare, accanto allo stadio delle Olimpiadi 1992, quelle della rinascita della città.
Madrid le Olimpiadi non le ha mai avute, nonostante numerose candidature. Le restano le corride, vietate in Catalogna anche per far dispetto ai rivali e rinnegare la hispanidad ; anche se l’arena più antica è a Olot, come ricorda Cercas, figlio di un veterinario. Il dolore talvolta ha riunito, talvolta ha diviso. Dopo la bomba islamista nella stazione madrilena di Atocha, il ministero dell’Interno accusò l’Eta; la Catalogna andò in massa a votare contro il governo, nelle province di Girona e Lleida il Pp non elesse neppure un deputato. Dopo la strage dell’estate scorsa a Barcellona, i vertici nazionali della sicurezza criticarono i Mossos d’Esquadra, la polizia catalana, per non aver fermato i terroristi.
Le Ramblas sono il cortile di casa dei giovani europei, e sono state colpite per questo: tapas, cerveza, e in fondo alla strada il mare. Qui il dinamismo economico offre casa e lavoro. Però Madrid con i suoi quartieri latinoamericani e meticci è oggi forse più aperta e più internazionale di Barcellona, mai stata così bella eppure ripiegata sul catalanismo: la città che fu crocevia del Novecento — Malraux, Hemingway, Bernanos, Koestler, Gibson e ovviamente l’Orwell di Omaggio alla Catalogna — oggi fa a tutti l’esame di catalano, e assume medici che dicono «adeu» invece di «adios». Ma la vera dicotomia non è tanto tra le due capitali, quanto tra la Catalogna ponte verso l’Europa e la Spagna profonda.
Pablo Iglesias, il capo di Podemos col codone da tanguero, è di Madrid eppure sostiene il referendum; Albert Rivera, il capo di Ciudadanos, è di Barcellona eppure combatte la secessione. E il nerbo della resistenza unionista, oltre alla destra, sono i socialisti andalusi. I separatisti del resto sono sempre i ricchi, catalani e baschi appunto; i poveri restano attaccati alle mammelle dello Stato. Quello spagnolo è vecchio di quasi sei secoli, da quando Isabella portò la Castiglia in dote a Ferdinando che governava Catalogna e Aragona, e insieme presero Granada. Nel 1714 le armi borboniche misero fine all’indipendenza, come amano ricordare i tifosi del Barça al 17° minuto e 14° secondo delle partite contro il Real. Oggi la schermaglia è appunto roba da curve e da caste politiche. Che si assomigliano più di quel che pensano.

La Stampa 21.9.17
La partita che si gioca in Europa
di Cesare Martinetti

La scelta brutale del premier spagnolo Mariano Rajoy di bloccare il referendum catalano con l’arresto di un politico indipendentista e alti funzionari del governo regionale riapre in modo drammatico la questione dei nazionalismi. Dopo la vittoria di Brexit, la netta sconfitta di Marine Le Pen alle presidenziali francesi aveva illuso i custodi dell’Europa, quasi fosse il sigillo a uno scampato pericolo.
Ma si trattava di un’anestesia e il risveglio di ieri è stato altrettanto brutale: dai cosiddetti populismi alle indomate vene nazionaliste passano differenze lessicali, ma spesso nemmeno quelle. Per questo è parso a tutti fragoroso e clamoroso il silenzio registrato ieri a Bruxelles di fronte alla scelta di Madrid di inviare la Guardia civil a bloccare l’organizzazione del referendum del primo ottobre.
Tra i leader europei solo dall’entourage di Angela Merkel, impegnata nelle ultime ore di campagna elettorale, è arrivato un commento in favore del mantenimento della stabilità e dell’integrità statale spagnola. Le reazioni di ieri a Barcellona, per quanto pacifiche, non costituiscono certo il presupposto di una stabilizzazione. C’è da augurarsi che la prova di forza si risolva presto attraverso la politica. Arresti, perquisizioni e Guardia civil evocano la storia nera della Spagna, il muro che si è alzato ieri tra i «mossos» catalani e i gendarmi del governo centrale sono già un confronto non solo simbolico su quel che potrebbe accadere. I leader catalani parlano inevitabilmente di «totalitarismo» da parte di Madrid: noi vogliamo votare, loro hanno dichiarato guerra. Ma indipendentemente dalla svolta che prenderà la vicenda catalana che ha radici storiche e democratiche, essa si inquadra perfettamente nel diffuso senso di angoscia che soffia sul mondo occidentale e che si trasforma di volta in volta in rivolta, chiusura, ricerca di identità, sfiducia e diffidenza per i governi centrali. È la domanda di una nuova sovranità, dopo che l’impalpabile anima europea si è persa nella crisi e nella irriconoscibilità dell’azione comunitaria di fronte alla crisi. Ed è un sentimento che attraversa sul piano orizzontale destra e sinistra, o almeno quello che una volta in politica si chiamava con questo nome. L’altro ieri all’Onu il presidente americano Donald Trump si è proposto come il campione di queste posizioni, sostenendo che il volano capace di unire gli Stati in un nuova strategia è la «difesa della propria sovranità». Il francese Emmanuel Macron si è contrapposto rilanciando la classica posizione multilaterale per affrontare crisi come quella coreana. Tra i due si è aperta una sfida che ha per posta la leadership ideale. Ma a ben vedere, proprio nella vicenda francese, esemplare e simbolica che si è consumata nel ballottaggio presidenziale del 7 maggio, si può distintamente riconoscere il fattore «nazionale» come motore dell’uno e dell’altro campo, di governo e di opposizione. Appena varcata la soglia dell’Eliseo, Macron ha marcato ogni suo atto con il sigillo della République, arrivando a promettere di ridorare la perduta «grandeur». La celebrazione ostentata del 14 luglio - presente Donald Trump, a lungo inutilmente corteggiato da Marine Le Pen - è stato l’atto più teatrale; la schermaglia diplomatica con l’Italia per il controllo dei cantieri di Saint-Nazaire, quello più concreto. C’è dunque un nazionalismo antieuropeo e uno europeista, come quello di Macron o della Scozia che si ribella a Londra e Brexit. C’è quello che si esprime da tempo nell’Europa dell’Est, a Varsavia e con il suo governo eurodiffidente, a Budapest con Orban che considera Putin (altro campione del nazionalismo, ma su altra scala) come modello di democrazia autoritaria. Le elezioni tedesche di domenica, dove Angela Merkel è vincitrice annunciata, segneranno il ritorno dell’estrema destra (con sfumature neonazi) nel Bundestag e misureranno nell’ampiezza dei risultati i sentimenti dei tedeschi dopo la crisi degli immigrati di due estati fa. Ecco, intanto, in Cataluña, sta andando in scena una rappresentazione che ci riguarda tutti.

Repubblica 21.9.17
Psoe e Podemos incerti E così si prende la scena l’ala dura indipendentista
di Alessandro Oppes

BARCELLONA. Nel giorno più difficile, quello in cui il governo conservatore di Mariano Rajoy ha deciso di percorrrere la via dello scontro frontale con gli indipendentisti catalani, la sinistra spagnola si divide. Non è una novità ma nel momento in cui si tratta di stabilire se, e in che modo, schierarsi a difesa dell’unità nazionale e dell’ordine costituzionale, è un gioco ad alto rischio. Pedro Sánchez e Pablo Iglesias, socialisti e Podemos, due anime dello stesso spettro politico che non riescono a trovare un punto d’intesa. Sánchez, tornato da poco alla guida del Psoe con il risultato trionfale delle ultime primarie, dà mostra di senso di responsabilità. Con molti distinguo, ma si schiera per il rispetto della legalità, contro l’attacco alle istituzioni portato dalla convocazione di un referendum che la Corte costituzionale ha dichiarato fuorilegge. Per questo accetta, con qualche imbarazzo, l’invito di Rajoy alla Moncloa, con il quale il premier ha voluto informare il leader dell’opposizione sull’operazione di polizia senza precedenti realizzata ieri mattina a Barcellona. Appoggiamo il governo, fa sapere, «anche iquelle misure che risultano più diffcili da accettare».
Tutto il contrario del leader di Podemos, che spara a zero contro l’ondata di arresti parlando senza mezzi termini di «prigionieri politici». «Non è sensato che questo accada in un Paese democratico - dice Iglesias - Dobbiamo dare una risposta chiamando alla convivenza e al dialogo». La posizione di Podemos sulla questione catalana è stata ambigua e altalenante fin dalla fondazione del partito, tre anni fa. Forse anche per la necessità di cercare la formula per ampliare la base di consenso in una delle regioni chiave del Paese. Con l’ulteriore complicazione derivante dal fatto che, nel Parlamento di Barcellona, il marchio Podemos è annacquato all’interno di una coalizione sempre più litigiosa, della quale fanno parte anche i Verdi (molto critici rispetto al modo in cui è stato convocato il referendum) e la piattaforma civica Catalunya en Comú della sindaca Ada Colau, combattuta fra i suoi doveri istituzionali e l’adesione al principio del cosiddetto
dret a decidir, il diritto dei catalani a decidere del proprio futuro. Una causa che, ora, sembra risultare convincente anche per lo stesso Iglesias che, comunque, ritiene ancora necessario un consenso nazionale (cioè tra le forze politiche del Parlamento di Madrid) perché si possa convocare un referendum di autodeterminazione in Catalogna con tutte le garanzie legali.
I socialisti si rifiutano invece, per ora, di parlare di referendum e hanno rilanciato, appena tre giorni fa, una proposta destinata a riprendere corpo appena si saranno calmate le acque: si chiama “commissione per la valutazione e la modernizzazione dello Stato delle autonomie”. L’idea, lunedì scorso alle Cortes, è piaciuta al punto che Sánchez è riuscito a farla approvare sia dai popolari di Rajoy sia da Podemos. In sostanza si tratterebbe di mettere allo studio una riforma della Costituzione in senso federale, garantendo alla Catalogna - e forse non solo - maggiori poteri in diversi campi a cominciare da quello della riscossione dei tributi. Prospettiva incoraggiante, che però non troverà mai il consenso dell’ala più estremista della sinistra indipendentista: la Cup (Candidatura d’unitat popular), movimento antisistema presente solo in Catalogna, resta la parte più intransigente di tutto lo schieramento separatista. Per loro non c’è alternativa al referendum, bisogna farlo subito. Dopo l’assedio a cui è stata sottoposta ieri la sede della Cup da parte della polizia, c’è chi teme ora qualche intemperanza da parte delle frange più radicali del movimento.


Repubblica 21.9.17
Le strade sbagliate di Barcellona e Madrid
di Roberto Toscano

MA cosa sta succedendo in Spagna? Arresti di alti dirigenti del governo autonomo della Catalogna; perquisizioni di sedi comunali e sequestro di materiali predisposti per il referendum sull’indipendenza indetto per il primo ottobre; inquietanti divergenze nel comportamento di Guardia Civil e Polizia Nazionale da una parte e Mossos de Esquadra, la polizia catalana, dall’altra. Il capo del governo, Rajoy, assicura che non esiterà se sarà necessario impiegare la massima fermezza per imporre il rispetto della Costituzione, e in concreto si accinge ad applicare l’art. 155 della Costituzione, che autorizza il governo centrale a “commissariare” le regioni autonome. Nel frattempo, trecento professori universitari — riflettendo l’orientamento di una parte certo non secondaria dell’opinione pubblica — esortano il governo a «usare la forza legittima dello stato» contro il separatismo catalano.
La crisi è seria, e colpisce il fatto che sia stato tanto a lungo sottovalutata da parte del governo centrale spagnolo. Un governo che solo la polemica degli indipendentisti catalani può definire “franchista”, ma è, piuttosto, conservatore e immobilista, è stato a lungo incapace di affrontare politicamente il problema e oggi, di fronte alle forzature indipendentiste, sembra capace soltanto di fare ricorso al codice penale e alla forza pubblica. Non vi è dubbio che vi sia da parte del governo regionale catalano una violazione delle vigenti norme costituzionali e degli stessi principi democratici, e francamente risulta curioso che oggi chi ha deciso di perseguire le proprie finalità indipendentiste al di fuori della legalità vigente denunci il “golpe” da parte del governo centrale. Inoltre, nel progetto di referendum non si prevede alcun quorum e si sottolinea che per dichiarare l’indipendenza basterebbe il 50,01 dei voti. Lo slogan principale della campagna indipendentista rivendica il “diritto a decidere”, ma sarebbe più corretto, dal punto di vista democratico, parlare di “diritto ad esprimersi”, come fra l’altro già avvenuto con il referendum non vincolante che ha avuto luogo nel 2014, e che aveva fatto registrare un forte appoggio per la proposta indipendentista. Un responso di cui Madrid avrebbe dovuto tenere conto avviando un processo di riforma costituzionale con l’introduzione della possibilità di un referendum diverso da un semplice sondaggio di opinione, ma con effetti di tipo istituzionale. E oggi Madrid dovrebbe ricordare che non tutto quello che è legalmente possibile è politicamente saggio, soprattutto alla luce delle prevedibili conseguenze.
Quello che in ogni caso non è accettabile è che un evento di tale portata come la spaccatura della Spagna venga deciso da una minoranza, o da una maggioranza non qualificata, e in modo unilaterale. Si parla di un “divorzio” fra Spagna e Catalogna, ma in questo caso quello che propongono i nazionalisti catalani è il divorzio “all’islamica”, il talaq, quello in cui basta la ripetizione per tre volte di «ti divorzio» per liberare (i maschi) dal vincolo matrimoniale. Senza avvocati, senza discussioni sui figli o sulla divisione dei beni. Si dovrebbe invece arrivare a un referendum costituzionalmente valido, con un quorum (nel 1995, nel referendum perso per alcuni punti percentuali dagli indipendentisti del Quebec la partecipazione fu del 93,5 per cento), e una maggioranza qualificata. Sarebbe anche da discutere la formulazione della domanda referendaria, nel senso che molti costituzionalisti sottolineano che all’opzione secca (indipendenza sì/indipendenza no) andrebbe aggiunta quella, che secondo alcuni sondaggi potrebbe risultare la preferita per parte dell’opinione pubblica, dell’introduzione di un sistema federale.
Nel caso di vittoria del sì, inizio di un processo negoziale fra Catalogna e Spagna per definire le condizioni della separazione. Ma non sembra questa la strada che verrà percorsa. Soprattutto dopo questa fase, che minaccia di risultare seriamente traumatica senza contare il pericolo di slittamento verso episodi di violenza, il nazionalismo catalano si avvierà inevitabilmente sulla strada di un’ulteriore radicalizzazione, passando da “Madrid ci deruba” (ricordate “Roma ladrona”?) a “Madrid ci reprime”. La prima affermazione era falsa, ma la seconda potrebbe diventare reale, dato che il governo centrale, politicamente inetto, potrebbe essere tentato di cercare una soluzione della questione catalana attraverso strumenti di tipo burocratico- repressivo.
Qui si apre il discorso sui rapporti di forza politici a Madrid. Il governo Rajoy è un governo di minoranza che ha bisogno dell’appoggio esterno del Psoe e del Pnv (il Partito Nazionalista Basco). I socialisti hanno dichiarato che appoggeranno il governo Rajoy anche nell’ipotesi, costituzionalmente la più radicale, che si arrivi ad applicare l’art. 155 della Costituzione, ma si sono rifiutati di aderire a una mozione di sostegno presentata da Ciudadanos (un partito fortemente centralista) perché non includeva un appello al dialogo e al compromesso. Nel frattempo il Psoe ha proposto in sede parlamentare di portare avanti l’elaborazione di una riforma costituzionale di tipo federale. Da parte sua il Pnv, che pure ha criticato i nazionalisti catalani per essersi discostati dalla via del dialogo politico e della riforma costituzionale (che il partito basco sta sostenendo dopo il lungo e atroce trauma degli anni del terrorismo Eta), non può certo schierarsi a fianco del centralismo di Madrid.
Anche se nessuno pensa che possano ripetersi in Catalogna le tragiche vicende della violenza terrorista del separatismo basco, dovrebbe essere chiaro sia a Madrid che a Barcellona, come lo è oggi per i baschi tanto indipendentisti che anti-indipendentisti, che la via del dialogo ha come sola alternativa quella di una escalation e di una pericolosa perdita di controllo della situazione, e che la soluzione potrà solo essere di natura politico-costituzionale. Ma i tempi della crisi e quelli del dialogo e della riforma non coincidono, e non si vede quindi come la questione possa essere risolta senza ulteriori strappi e lacerazioni — a livello collettivo e personale, e non solo politico — che potrebbero poi risultare difficili da ricucire.

Repubblica 21.9.17
Il caso Consip.
“Da archiviare le accuse a Woodcock” Sul padre di Renzi duello Napoli-Roma
La procura della capitale chiederà di prosciogliere il pm indagato per violazione di segreto e falso. Al Csm i dissidi sulle intercettazioni
di Dario Del Porto e Conchita Sannino

ROMA. È pronta la richiesta di archiviazione della Procura di Roma per il pm di Napoli Henry John Woodcock. Un capitolo si chiude, l’inchiesta penale, ma restano tutte le altre spine del caso Consip. Mentre emergono, dagli atti delle audizioni al Csm, divergenze sempre più nette tra i sostituti di Napoli e di piazzale Clodio sulla necessità di intercettare Tiziano Renzi, padre dell’ex premier. Nuove rivelzioni anche sul braccio di ferro, consumatosi quasi due anni fa, tra le diverse sezioni del palazzo partenopeo per l’assegnazione dell’inchiesta- madre Romeo.
VERSO L’ARCHIVIAZIONE
I magistrati guidati dal procuratore Giuseppe Pignatone hanno preparato la richiesta di archiviazione per il pm napoletano indagato di falso e rivelazione di segreto. I magistrati di Roma hanno quindi valutato che il collega non ha commesso i reati: né ha trasmesso notizie al Fatto, attraverso la giornalista Federica Sciarelli (a sua volta indagata e prossima all’archiviazione); né ha avallato la tesi di una falsa pista dei Servizi, nell’informativa redatta dal maggiore del Noe, Giampaolo Scafarto. Si chiude così una vicenda che tiene il magistrato partenopeo sulla graticola dal 27 giugno. Dinanzi al procuratore di Roma, Pignatone, e assistitito dall’avvocato Bruno Larosa, Woodcock aveva respinto ogni accusa. A quanto pare, gli hanno creduto.
DIVISI SU RENZI SENIOR
È Nunzio Fragliasso, procuratore aggiunto a Napoli e reggente fino ad agosto, a ricostruire, dinanzi alla prima commissione del Csm, le divergenze tra i suoi colleghi napoletani e quelli romani sulla necessità di “ascoltare” Renzi sr, tuttora sotto inchiesta a Roma per traffico di influenze. Il padre dell’ex premier viene intercettato due volte da Napoli pur senza essere indagato. La prima volta, il 5 dicembre (giorno dopo la caduta del governo). A febbraio scorso, i carabinieri del Noe insistevano per tornare a intercettare Renzi senior. La Procura di Roma frenava: il reato ipotizzato a carico di Renzi padre non lo consentiva. Ma i due pm napoletani decisero diversamente. «Mi dicono i colleghi - ricorda Fragliasso - che l’intercettazione a Renzi sr è stata concordata, addirittura disposta da loro ma di intesa con la Procura di Roma». I pm capitolini raccontano invece una versione diversa.
PALAZZI: PRENDEMMO SOLO ATTO
Fragliasso dice di aver chiesto chiarimenti al procuratore Pignatone che risponde con due note (dell’aggiunto Ielo, e del pm Palazzi) in cui i due magistrati «riferiscono di essere stati informati preventivamente da Woodcock, ma di essersi limitati a prendere atto». Nella sua nota, «Palazzi è articolato». E ricorda che più volte i carabinieri del Noe «dapprima informalmente, poi anche per iscritto» - racconta Fragliasso - avevano «rappresentato l’opportunità di intercettare Renzi sr ed egli aveva sempre risposto negativamente tra l’altro sostenendo, è la risposta scritta, che il titolo di reato non lo consensisse. Dopodiché dice Palazzi: “Vengo informato delle iniziative dei colleghi napoletani, mi limito a prenderne atto”».
D’AVINO: IO INDOTTO IN ERRORE
Si consuma tra dicembre 2015 e luglio 2016 lo strappo fra il procuratore aggiunto Alfonso D’Avino (Pubblica amministrazione) e Woodcock (Dda). L’aggiunto rivendicava che l’inchiesta- madre Consip fosse assegnata alla sua sezione, Woodcock chiedeva la co-delega alla pm Celeste Carrano. Fragliasso ricostruisce: «In una riunione con il procuratore Colangelo, si decise di procedere allo stralcio». Aveva vinto la linea D’Avino. Eppure, lo stralcio non ci fu. Il perché, a questo punto, dovrà spiegarlo al Csm l’ex procuratore Colangelo. Continua Fragliasso: «Sei mesi dopo, viene avanzata una nuova richiesta» per fare entrare la Carrano. La domanda è formulata diversamente: servono rinforzi, ci sono tre nuovi pentiti. A quel punto D’Avino dice sì a Woodcock, ma al Pg Luigi Riello riferirà «di essere stato indotto in errore».
SCONTRO TRA CONSIGLIERI
Su Woodocock è scontro anche tra consiglieri al Csm. «Abbiamo sentito dai lavori della Prima commissione che è radicalmente da escludere l’ipotesi che il pm Woodcock sia responsabile della fuga di notizie sulla telefonata Renzi-Adinolfi», annuncia il consigliere Piergiorgio Morosini, al plenum del Csm di ieri. Replica Luca Palamara, relatore (con Morgigni) su Consip in Prima commissione: «Non è rispettoso del lavoro della Prima commissione annunciare l’esito dei lavori».
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Il pm Palazzi rispose ai colleghi partenopei che gli ascolti non potevano essere autorizzati
TRAFFICO DI INFLUENZE
Tiziano Renzi, padre del leader del Pd, è indagato per traffico di influenze nell’inchiesta Consip.
Avrebbe aiutato un imprenditore che tentava di avere appalti
MAGISTRATO
A sinistra Henry John Woodcock, pubblico ministero a Napoli. L’indagine che lo riguarda (è indagato per rivelazione di segreto istruttorio e falso) sta per essere archiviata dalla procura di Roma
CARABINIERE
Giampaolo Scafarto, ufficiale del Noe, il nucleo operativo dei carabinieri che ha condotto le indagini sul caso Consip. È accusato di aver falsificato alcuni resoconti di intercettazioni

Corriere 21.9.17
«Coalizione? Il Pd non candidi Renzi» Gelo di Pisapia. E D’Alema: mai con loro
L’ex sindaco: facciano le primarie. L’ex premier: con legge elettorale anti Mdp basta fiducia
di Monica Guerzoni


REGGIO EMILIA L’ultimatum arriva a sorpresa e strappa l’applauso ai militanti di Sinistra Italiana, tra le bandiere rosse e le magliette con Che Guevara: «Se il nostro voto è determinante non puoi pensare che noi reggiamo il moccolo mentre tu fai la legge elettorale con Salvini...». La bozza di legge elettorale a dir poco lo disgusta e Massimo D’Alema cerca gli aggettivi più efficaci per stopparla: «È una legge mostruosa, un pasticcio, una porcheria, un obbrobrio che consegna il Paese alla destra. Una follia. Pur di fare del male a noi il Pd produce del male anche a se stesso». Il messaggio è chiaro. Se il nuovo testo passa, Mdp staccherà la spina a Gentiloni.
A Reggio Emilia, accolto da Nicola Fratoianni, D’Alema arriva per un confronto con Fabio Mussi, suo compagno di stanza (e di scorrazzate in moto) ai tempi della Normale di Pisa. L’abbraccio a dieci anni dalla scissione di Sinistra democratica è da foto ricordo, ma quando da Imola filtrano le dichiarazioni di Giuliano Pisapia l’ex premier sfoga tutto il suo fastidio per come la stampa lo rappresenta: «Mi sono stufato di fare la parte del cattivo, dello sfasciacarrozze... Dove sarebbe la differenza di linea tra noi? Io sono uno studioso di Pisapia, è dal primo luglio che stiamo dicendo le stesse cose».
Per una sera sembra davvero così e D’Alema prova a dissimulare la soddisfazione quando gli riportano le frasi di Pisapia. «L’unica svolta possibile è che il Pd guardi a sinistra e non a destra, dicendo apertamente che non è autosufficiente e che il candidato non sarà il segretario del Pd — è la frase che fa scoppiare la pace a distanza — Se vogliono la coalizione facciano le primarie».
Cento chilometri separano Reggio Emilia da Imola e D’Alema intende azzerarli a colpi di notizie: «Entro novembre avremo il nome e il simbolo e alle elezioni ci presenteremo nella stessa lista». Il presidente di Italianieuropei guarda oltre le urne e conferma il traguardo di «una nuova forza politica che non sia soltanto un cartello di sigle». E allora basta con le polemiche, basta con «i litigi e i pettegolezzi inutili».
Pisapia, scandisce più volte D’Alema, ha parlato di una formazione politica alternativa al Pd, di discontinuità di politiche e di leadership: «Poteva dirlo impugnando la sciabola, lo ha detto con garbo ma è un discorso assolutamente chiaro». E quando Alessandro De Angelis gli chiede se dopo il voto sarà possibile un accordo, l’ospite d’onore frena: «Oggi non ci sono le condizioni per una alleanza con il Pd». Ma attenzione alla frammentazione di liste e di gruppi «che litigano attorno al baratro del 3 per cento», avverte, perché se si crea «distacco e disgusto si rischia seriamente un Parlamento nel quale la sinistra non ha voce».
Prevede per il Pd «una disastrosa sconfitta in Sicilia», assicura che gli ex ds non sono «usciti dal partito personale per fare un partitino personale» e scaccia via ombre e dubbi sulla leadership: «La scelta di Pisapia non ha il segno sgradevole della prevaricazione, può rappresentare al meglio tutte le sigle. Ma è evidente che l’esercizio di questo ruolo passa per una collegialità. Penso a un capolista, un primus inter pares. Quella del candidato premier è una finzione». Da Roma arriva la notizia che Anna Finocchiaro è pronta a «chiudere in pace» la sua esperienza parlamentare se riuscirà a far approvare lo ius soli. Ma è ad Andrea Orlando che D’Alema ha voglia di inviare un saluto: «Qualcuno che abbiamo svezzato malamente ci ha chiamati gruppettari ».

Repubblica 21.9.17
Pisapia e i dubbi del popolo Pd “Ora ci dica da che parte sta”
Duello con Martina alla Festa dell’Unità: senza primarie niente coalizione
di Jenner Meletti

IMOLA.  Sullo schermo dietro il palco Giuliano Pisapia viene presentato come “avvocato e politico”. Ma qui, nella grande sala dibattiti, tutti conoscono il suo ruolo di fondatore del Campo progressista e sono venuti a centinaia per sapere – come dice Mauro Lelli, 63 anni, imprenditore iscritto al Pd – «da che parte sta». «Un giorno dice sì, uno no. E invece deve fare una scelta a sinistra, non per il Pd ma per il bene dell’Italia. Se lui fa un passo avanti, anche piccolo, verso il Pd di Renzi, magari anche altri che adesso stanno solo a fare polemiche magari lo seguiranno».
Baci e abbracci quando Pisapia e Maurizio Martina (lo schermo stavolta precisa che è vice segretario del Pd) si incontrano. «Hai portato anche il sereno», dice il ministro. Si annuncia una partita amichevole, con applausi per i due “compagni e amici”, messi però subito sotto torchio da Bianca Berlinguer. «Voi del Pd siete ancora convinti di essere autosufficienti e di ottenere il 40% alle elezioni. Lei, Pisapia, viene sempre invitato alle feste dell’Unità perché è il buono della situazione. I cattivi restano invece sempre fuori. Sarà possibile, anche con il suo aiuto, ricostruire un’alleanza di sinistra?». Giuliano Pisapia ripete che «non sarà mai un nemico del popolo pd», ma pianta paletti precisi. «Un’alleanza con il partito democratico? Credo che con questa legge elettorale se ne parlerà solo dopo il voto. Quando si vuole davvero fare una coalizione si dice apertamente che il candidato non sarà il segretario del Pd ma lo si sceglie attraverso le primarie. Se si dice che il candidato premier è il segretario, allora vuol dire che non si vuole fare la coalizione». Replica il vice segretario pd: «Voi potete proporre agli elettori del centro sinistra un’altra leadership ma dovete riconoscere alla nostra comunità un percorso di partecipazione straordinario, perché portare due milioni di elettori a scegliere il segretario è una prova di democrazia che va oltre il Pd». Il confronto va avanti per oltre un’ora. Pisapia: «Il Pd con il Rosatellum 2 fa una proposta peggiore di quella di alcuni mesi fa». Martina: «La proposta è l’ultimo tentativo possibile che mettiamo a disposizione di tutte le forze. Bisogna superare lo stallo. C’è una possibilità di costruire una nuova legge elettorale e il Pd si prende questa responsabilità. Nessuno porterà a casa la ‘sua legge migliore’, ma dobbiamo provare a collaborare, non diamo per scontato che le strade restino diverse».
Si aggiungono altre seggiole, la grande sala è colma. «Io non mi aspetto – dice Tosca Malagugini, segretaria di circoli pd a Rovigo – grandi novità. Ci sono personalismi che vanno oltre il consentito. Prima di fare il sindaco Pisapia era sconosciuto e adesso è uno che ha la verità in tasca. Spero che usi la ragione. Gli scontri stanno consegnando il Paese alla destra che abbiamo sempre combattuto». Sul palco c’è più fair play. E nasce anche una speranza. «C’è una strada – dice Giuliano Pisapia – per unire la sinistra: lo Ius soli. Dopo la legge di stabilità non si deve andare al voto. Restano mesi per spiegare, con una grande iniziativa, cosa rappresenti questa proposta per la crescita di civiltà del nostro Paese. Questa si chiama concretezza dell’agire».
«Sì, accetto la proposta», risponde Martina, che – caso raro nelle recenti feste del partito riesce a scaldare la “comunità del Pd”. «Il Pd deve superare le sue logiche autosufficienti e nei fatti le abbiamo superate. Ma domando agli altri: voi avete superato l’ossessione verso il nostro segretario e la nostra comunità? ».
Anche alla fine, dalla platea applausi bipartisan.

Corriere 21.9.17
La tenuta di Picasso è in vendita (all’asta) Le immagini online

Picasso passò i suoi ultimi anni nella residenza di Mougins, in Francia: una tenuta di 1.800 metri quadrati (solo l’ala padronale) con vista sulla Costa Azzurra, a pochi chilometri da Cannes. Il pittore — che qui morì l’8 aprile 1973 — l’aveva acquistata nel 1961 per donarla all’ultima delle sue mogli, Jacqueline Roque. La villa ha 32 stanze, due piscine, un campo da tennis di dimensioni regolamentari, una palestra e un centro benessere. Su corriere.it/lalettura , un percorso per immagini raccoglie alcuni scatti della tenuta, che il prossimo 12 ottobre andrà all’asta. Prezzo di partenza: 20,2 milioni di euro. La storia della villa di Mougins è raccontata in un articolo di Elisabetta Rosaspina su «la Lettura» #303, il supplemento del «Corriere» in edicola fino a sabato. (b.co.)

Repubblica 20.9.17
La grande abbuffata di Statali
di Sabino Cassese

Annuncio preoccupante e pericoloso, quello del sottosegretario per la Funzione pubblica, che ha lanciato un «grande progetto per il Paese», consistente in mezzo milione (ma potrebbero salire a 600 mila) di posti di lavoro nei prossimi quattro anni nelle pubbliche amministrazioni.
L’annuncio è stato seguito da un coro di consensi sindacali e ha il sapore di una promessa pre-elettorale, non fatta, però, dal presidente del Consiglio dei ministri, come dovrebbe essere, data la sua entità. Chi ha fatto l’annuncio non è consapevole del danno che un tale subitaneo allargamento dei ranghi pubblici potrebbe fare alla pubblica amministrazione stessa. Dopo il «digiuno» di questi anni di crisi, con il forte rallentamento del «turnover», fare una tale «abbuffata» provocherebbe sconvolgimenti: si pensi solo ai «maxiconcorsi», alle difficoltà che si incontrerebbero nella formazione «on the job», alla difficile sistemazione negli uffici del Nord e del Sud di circa 80 mila persone nel solo prossimo anno. La vicenda della scuola, ancora in corso, evidentemente, non ha insegnato nulla. L’annuncio, peraltro, è stato accompagnato anche da un’altra promessa, quella di far entrare nei ranghi pubblici precari e idonei. Per i primi, si tratterebbe di una ulteriore porta aperta, perché a 50 mila di questi è già stata promessa con legge una sistemazione. Per i secondi, di una elargizione immeritata, perché da tempo si usa concludere i concorsi con lunghe liste di idonei.
Queste liste vengono conservate per tempo talora immemorabile e da esse si attinge anche dopo anni, così premiando chi dal concorso era stato scartato. La sistemazione dei precari e l’assunzione degli idonei, oltre a violare la Costituzione, sono una palese ingiustizia a danno dei più giovani, quelli che non sono riusciti a infilarsi in un lavoro a tempo o in una lista di idonei.
Il «grande progetto per il Paese» annunciato dalla funzione pubblica va ad aggiungersi alle sistemazioni in ruolo nella scuola e all’allargamento degli ingressi disposto già dalla «manovrina» da poco approvata. Quest’ultima, ha triplicato i posti per i quali si può provvedere ai rimpiazzi. Prima, se uscivano quattro dipendenti, se ne poteva assumere uno, ora per ogni quattro che escono, se ne possono assumere tre (e dall’anno prossimo quattro).
Tutto questo accavallarsi di norme e annunci produce una miscela pericolosa anche per la finanza pubblica. È vero, infatti, che i nuovi entranti costerebbero meno di quelli che escono, perché hanno minore anzianità. Ma è vero anche che sta per concludersi una tornata contrattuale, che dovrebbe da sola costare intorno a tre miliardi. I nuovi trattamenti non dovrebbero essere dati anche ai nuovi entranti?
Dalla funzione pubblica si è cercato di spiegare che i rimpiazzi promessi con la grande «abbuffata» non sarebbero meccanici, ma sarebbero fatti sulla base delle nuove norme che prevedono l’esame dei fabbisogni, in modo da evitare l’«over-staffing» attuale di molti uffici pubblici. Quindi, se dieci escono da una prefettura, si valuterà se proprio lì c’è bisogno di personale e non invece al catasto. Buoni propositi. Ma il dipartimento per la funzione pubblica si è attrezzato per fare questa non semplice analisi? Possiede i dati per farla? Ha dialogato con le migliaia di uffici per accertare quali sono i carichi di lavoro, ufficio per ufficio? Se l’ha fatto, perché non rende pubblici questi dati?
C’è, poi, l’argomento, più volte ripetuto, delle minori dimensioni della nostra pubblica amministrazione, rapportata alla popolazione, rispetto a quella di altri Paesi europei. Ma questo non dipende da un difetto di calcolo del numero degli addetti alle amministrazioni pubbliche? La Ragioneria generale dello Stato e l’Istat valutano i dipendenti pubblici, ma vi sono anche altri addetti , quali, ad esempio , i dipendenti delle autorità indipendenti, le varie specie di precari e i lavoratori delle circa 8 mila società pubbliche, che non vengono messi nel calcolo.
Infine, anche se i proponenti di questa trovata lo escludono, si è subito riaffacciata l’idea di riabbassare l’età della pensione per i dipendenti pubblici, per far balenare speranze aggiuntive, mettendo insieme due spinte: le attese di chi vuole entrare e le speranze di chi vuole uscire.
In conclusione, un governo serio non dovrebbe fare promesse elettorali di questo genere, a spese non solo della finanza pubblica (che è in difficoltà), ma anche della stessa pubblica amministrazione (che non gode migliore salute). Ci si augura che Presidente del Consiglio dei ministri e Ministro dell’economia vogliano assumere le proprie responsabilità in materia, ricordando che, dopo un certo digiuno, è meglio mangiare poco e ordinatamente, piuttosto che fare una scorpacciata.

Repubblica 21.9.17
Rossi: “Cazzotti ai fascisti? No, ma basta svastiche”
di Alessandra Longo

ROMA Dare un pugno ad un nazista conclamato incontrato per strada è cosa giusta e ben fatta? Enrico Rossi, governatore della Toscana, e scissionista di punta, ci tiene a dire: «Io non sono tipo da cazzotti, sono mite e pacifico. Però le svastiche non devono essere ammesse». Come mai questa precisazione? Perché l’altro giorno Rossi ha pubblicato su Facebook l’ormai cliccatissimo video di un nero di Seattle che atterra con un solo pugno un suprematista bianco in realtà fisicamente poco dotato. E l’ha commentato così: «Girare per la città con una svastica al braccio? Pessima idea... Ecco cosa succede». Apriti cielo. Pioggia di commenti. C’è chi approva il Rossi muscolare e sogna «i fascisti tutti appesi », chi s’indigna per «il governatore impazzito che incita alla violenza ». Non resta che chiedere al diretto interessato l’interpretazione autentica del suo pensiero.
Presidente Rossi, i fascisti vanno menati?
«Per carità, non era questo il mio messaggio! Ho solo commentato un fatto di cronaca».
A molti è sembrato che lei sia un fautore della risposta fisica. Un pugno e via.
«Ma io sono un mite, un debole! Niente cazzotti, le mani si tengono in tasca. Però, certo, se usciamo dalle battute, dico che in questo momento ci vorrebbe un antifascismo più forte, più militante... ».
Più muscolare?
«Guardi che le minacce fisiche in Italia arrivano dall’altra parte, da quella destra che assedia i parroci pro-migranti in chiesa, che evoca le marce su Roma o promette l’abolizione delle leggi Scelba, Mancino e della Fiano in itinere. C’è un rigurgito di fascismo preoccupante».
Comunque la sua sortita su Facebook ha scatenato gli animi. Lei cita Karl Popper: si ha il diritto di essere intolleranti, in nome della tolleranza...
«Ma non è l’apologia del cazzotto. Servono piuttosto leggi come quella firmata da Emanuele Fiano che vieta di esibire celtiche e svastiche. La nostra Costituzione è antifascista o non è».
Forse l’equivoco in Rete nasce dai riferimenti familiari che lei ha fatto. Per esempio quando scrive: “Anche mio nonno Gigi e suo fratello Cesare in pieno regime fascista stesero con un cazzotto un repubblichino al bar dalla Gina a Casine di Buti. Avevano ragione da vendere e fecero proprio bene”.
«Questi sono i racconti di casa. Vengo da una famiglia antifascista. I repubblichini volevano mandare la gente a dormire dopo che aveva sgobbato tutto il giorno. Il nonno e lo zio Cesare invece volevano andare al bar. Vedendo il video mi è venuta in mente la storia che sentivo da piccolo. Il nonno sferrò un bel pugno al repubblichino. Però dopo gliela fecero pagare».
Se lei fosse stato al posto del nero di Seattle avrebbe mandato ko sul marciapiede il suprematista?
«Le reazioni non si possono mai prevedere, sono molto personali ».
Uno dei suoi estimatori l’ha presa sul serio e lancia un appello. “Fascisti tutti appesi!”.
«Quello che a suo tempo dovevano fare i partigiani l’hanno fatto ».

Repubblica
Afd, il colpo di scena della star dell’ultra-destra “A noi anche il voto dei gay”
di Tonia Mastrobuoni

VIERNHEIM IL COLPO di scena arriva verso la fine. «Non sono nell’Afd nonostante la mia omosessualità, ma perché sono omosessuale ». Lo ripete due volte, poi il mento le trema, e gli occhi che le diventano lucidi sono come un segnale alla sala. I trecento che sono venuti a sentire Alice Weidel scattano in piedi e cominciano freneticamente ad applaudirla. Ai giornalisti in sala resta la penna sospesa a mezz’aria.
POCO prima era ancora una gag - «vi voglio dire una cosa: sono omosessuale! Nessuno se ne va?» - ma poi la commozione ha preso il sopravvento. Per il suo ultimo comizio prima delle elezioni di domenica, Weidel ha preparato uno scoop. Qui nel profondissimo ovest, nella zona industriale dell’Assia che si affaccia sull’Odenwald, dove i partiti tradizionali sono ancora delle rocce e i Verdi archeologia della politica, all’Afd è già riuscito un colpaccio.
Nel Land della capitale finanziaria Francoforte, del tempio dell’arte Kassel e delle industrie, la destra populista potrebbe incassare il 14%, domenica prossima. «Avremo risultato più alto di tutta la Germania ovest», grida sul palco Mariana Harder-Kuehnel, la candidata di punta del Land.
Ma Weidel, tallonata da una stampa che non riesce giustamente a conciliare l’immagine liberale e cosmopolita della lesbica dichiarata con un partito islamofobico e xenofobo, è stanca del fatto che si indaghi sulla sua vita privata: «Perché non scrivono mai nulla delle mie proposte?». Così tenta un contropiede e si mette a caccia di un territorio ancora vergine, per un partito della destra: gli elettori omosessuali. Nel Land dove una quarantina di anni fa un pioniere dei Verdi, Joschka Fischer scandalizzò la vecchia politica presentandosi al parlamento regionale con le scarpe da tennis, è venuta a formulare una tesi un tantino azzardata.
«A noi omosessuali - scandisce davanti ai sostenitori - non frega nulla del matrimonio per tutti, se di sera non possiamo uscire di casa». E alla frase successiva, già urla: «Ci sono bande di musulmani che danno la caccia agli omosessuali. È uno scandalo! Senza sicurezza non c’è libertà. Bisogna votare il partito della legge e dell’ordine, l’Afd». E giù esempi presi dalla cronaca: presunti nordafricani che avrebbero lapidato travestiti a Darmstadt, siriani che avrebbero rincorso una coppia gay a Berlino per prenderli a cinghiate, eccetera. «La molestia sessuale è diventata sport nazionale, da quando Angela Merkel è diventata cancelliera », azzarda. Ovazione in sala, un anziano col cappellino da baseball è scatenato, grida «Merkel vattene». Weidel ne approfitta per bere un sorso d’acqua e rincarare la dose: «Merkel ha spaccato il Paese!». Giù applausi.
Negli ultimi sondaggi, l’Afd è saldamente il terzo partito: secondo Yougov, i populisti guidati dal tandem Weidel-Alexander Gauland sarebbero al 12%. Nonostante la recrudescenza dei toni, le simpatie con i soldati della Wehrmacht di Gauland, l’antisemitismo di Hoecke o l’islamofobia e la tendenza al complottismo un po’ di tutti. E nel mezzo dell’operazione “charme” verso i gay, a Weidel è scappato ieri un sonoro «i fascisti di ieri sono gli antifascisti e i buoni di oggi». I fascisti, forse le andrebbe ricordato, non avevano un gran opinione degli omosessuali.
Klaus Hofmann è il padrone di casa, qui a Viernheim. La cittadina industriale è appena fuori Mannheim, la città dove Berta Benz tentò oltre un secolo fa il primo viaggio in automobile per andare a trovare sua madre. «Tutti parlano di noi dell’Afd, ma lo sa qual è il tema vero? La fine dei socialdemocratici. E nessuno ne parla». Gli chiediamo il perché del successo del suo partito: «Semplice. Lo ha ammesso anche Meister, un big della Cdu in Assia. Ha visto il duello in tv tra Merkel e Schulz? È stato un duetto, più che un duello. E Meister lo ha chiamato ‘il migliore spot per l’Afd’».
Giacca e cravatta, ci ha accolto fuori dalla sala comunale, dribblando un gruppetto della sinistra giovanile della Spd che è venuta a protestare con fischietti e cartelli “No Afd”. Ride, allargando le braccia: «Mi hanno regalato dei lumini da cimitero… temo che serviranno al partito, quando Martin Schulz incasserà domenica prossima il peggior risultato della storia della Spd». Al momento, i sondaggi sembrano dargli ragione.

La Stampa 21
L’intervento dello psicanalista argentino
L’esercito degli “adulti biologici”
Bambini ossessivi e superficiali
Conservare la magia dell’infanzia non significa evitare di crescere
di Miguel Benasayag

Cosa rimane dell’infanzia nell’età adulta? Ci sono, anzitutto, due aspetti opposti dell’essere bambini: il lato positivo, che va mantenuto e non soppresso - e sul quale insisteva anche la pediatra e psicoanalista Françoise Dolto, che per me è stata una vera amica - riguarda la possibilità di meravigliarsi, la curiosità, ed è quello che garantisce anche agli adulti un senso di libertà, la pulsione verso la ricerca. Si tratta di un’innocenza non intesa quindi in senso angelico quanto come capacità di restare aperti alla vita, al divenire, il non acquietarsi sulle proprie certezze, il non diventare sclerotizzati.
I desideri nascosti
Quando la persona cresce tende, per la maggior parte del tempo, a schiacciare questo bambino interiore per adottare posizioni più rigide, di falsa responsabilità, che non sono altro che ruoli teatrali, una specie di esoscheletro che la nostra società identifica come l’adulto responsabile, controllato, che domina i propri desideri, non cede all’avventura e agli impulsi. Mentre invece dalla positività dell’infante che siamo stati nascono desideri, sogni, progettualità. Per questo è fondamentale restare fedeli a questa nostra natura più giovane: ci consente di guardare il mondo con apertura, al di là della necessità. Il bambino che è in noi dice «non esiste un cammino fisso da percorrere, il cammino si fa camminando». Ed è proprio questa apertura alla vita, all’imprevisto, alle affinità elettive, l’aspetto positivo dell’infanzia che va preservato.
Il lato negativo, invece, è quello dell’irresponsabilità, l’unico che viene mantenuto da quegli adulti che sopprimono il bambino che sono stati: in questo caso, coloro che vivono negli esoscheletri della responsabilità sono ancor più e a maggior ragione bambini, e nel senso peggiore, in quanto non coscienti dei legami sociali, di contesto e di relazione. Io li chiamo «adulti biologici», ovvero persone che si possono definire adulte solo in base alla loro innegabile età anagrafica ma che in realtà non sono mai cresciuti: sono quelli che - e ne vedo così tanti da pensare che siano la maggioranza - si aggrappano ossessivamente agli oggetti, alla materialità, o si abbandonano a passioni smodate, violente (come ad esempio i tifosi o i fanatici di automobili). Ecco, in questi casi, emerge proprio quel lato infantile non canalizzato correttamente: è l’infantilismo più pericoloso, che denota un livello inesistente di sviluppo e di saggezza. Mi sconcerta constatare quanto sia diffuso.
Oggi, per di più, questo infantilismo si è ibridato con il mondo digitale e il lato immaturo degli adulti si è sviluppato enormemente perché tutto è diventato ludico, privo di qualsiasi senso o finalità a parte il piacere immediato. Per questo i genitori dovrebbero fare bene il proprio lavoro, mentre oggi tendono a essere fallimentari: educare un bambino vuol dire insegnargli la pazienza, la dilazione, la capacità di fermarsi a riflettere prima di agire. Le nostre società producono invece sempre più adulti biologici schiavi dell’immediatezza, gettati nel flusso di un’accelerazione del tempo che rende incapaci di sopportare la frustrazione, la noia, i vuoti, le difficoltà tipiche della vita adulta. La grande industria, la tecnologia, veicolano e incoraggiano questa dipendenza e inferiorità.
Il telefonino
Prendiamo come esempio il telefonino: è un «oggetto transizionale», va nel senso contrario rispetto all’autonomia e alla responsabilizzazione che all’apparenza conferisce, in quanto dà l’impressione di essere sempre legati ad altro e ad altri, rimuovendo di fatto la sensazione di dover essere presenti a noi stessi, responsabili del presente, del qui ed ora. E cancella anche la responsabilità verso noi stessi, rendendoci spesso incapaci di stare soli, piuttosto che sempre all’interno di un gruppo o di una «community».
La problematica del rapporto del bambino nell’adulto riguarda soprattutto l’infantilizzazione cattiva dell’adulto che paradossalmente va ad eclissare il lato buono del bambino in noi. Sempre più si tende a trasferire la responsabilità verso le macchine, si delegano alla tecnologia quelle funzioni che sarebbero proprie del nostro essere umani. Oggi siamo convinti che la nostra società sia ormai de-sacralizzata ma è vero l’opposto: è diventata seguace di una nuova religione, della promessa tecno-scientifica per cui tutto è possibile, e per ciò stesso lecito.
Non di rado quando mi soffermo su questo punto mi accusano di essere un «bio-conservatore» in senso politico, di oppormi al progresso, ma la verità è che non tutto è possibile né per forza dovrebbe esserlo, esiste una singolarità del vivente che pone dei limiti a tali orizzonti e che dobbiamo conoscere, altrimenti l’assimilazione del vivente al digitale rischia di schiacciare la nostra identità su quella delle macchine. Ma non solo: la promessa tecno-scientifica è ingannevole perché impedisce agli adulti di essere davvero tali, perché ciò significherebbe essere in pace con i propri limiti: un limite non è una limitazione negativa, è qualcosa che può proteggere la vita e definirla in senso positivo. Essere genitori vuol dire anche questo: trasmettere tale struttura dei limiti, insegnare ad accettarli, a fare i conti con la nostra finitudine.
La tecnologia
L’adulto che è intrappolato nella tecnologia, che ha trasformato la propria vita in una serie di atti ludici, ha ucciso il bambino che era in lui nel momento in cui ha scelto, benché inconsciamente, di vivere in un mondo privo di avventura, di aleatorietà, in cui tutto è simulacro di altro e si basa sull’imitazione di qualcosa che non si vive. Dobbiamo ritrovare quel lato positivo del bambino che siamo stati per ricominciare ad esplorare e smettere di seguire il senso unico tracciato dalla tecnologia. La sicurezza che sembra darci è illusoria: tutta la vita è rischio, le scoperte implicano l’ignoto, occorre tornare ad abitare un tempo che non sia più solo lineare e sempre accelerato. Non è un caso che per i bambini non abbia significato l’espressione «guadagnare tempo»: loro vivono quasi al di fuori di esso. È necessario colonizzare la tecnica per evitare che essa colonizzi l’umano. Come? Riappropriandoci del nostro tempo e resistendo alla tentazione di cadere nella linearità transitiva, quella per cui facciamo sempre tutto in vista di qualcos’altro, di un obiettivo: per i bambini il mezzo e il fine coincidono, non sono separati, il cammino è tutto, mentre per certi adulti conta solo l’arrivo. Ecco, dobbiamo recuperare questo lato anti-utilitaristico dell’infanzia.
Le competenze
In conclusione, poiché intrecciata a doppio filo a tutto questo, vorrei condividere una brevissima riflessione su quella che oggi si chiama la «pedagogia delle competenze»: a mio avviso, insegnare gli strumenti utili ad andare sempre per la via retta è sbagliato e controproducente. Dobbiamo proteggere i bambini da questa specie di terrorismo dell’urgenza, di una male interpretata efficienza, ricettività: l’urgenza non è la risposta ai problemi, è il problema. Non riusciamo più ad abitare le nostre vite, siamo sempre proiettati verso altro: un altro tempo (il futuro), altri luoghi, altre persone che ci dicono chi dovremmo diventare. Bisognerebbe riprogettare l’educazione istituzionale, come pure quella in famiglia, in modo da tutelare i giovani nei confronti dell’esigenza di rapidità, linearità, transitività e dire «no, prendetevi il vostro tempo per sperimentare, per strutturarvi, fare esperienze, e così capire chi siete».

Repubblica 21.9.17
“I diciottenni di oggi inesperti come i quindicenni del ’76”
Adulti sempre più tardi
Uno studio Usa: posticipate di 3 anni le scoperte di sesso, alcol e auto. “Famiglie agiate e figli unici, crescere non è urgente”
“Dal 2000 crollo continuo nel numero di giovani che si allenano a entrare nel mondo dei grandi” “Ma la Rete non è l’unica spiegazione: questo trend è iniziato prima del boom dell’Internet di massa”
di Giuliano Aluffi

ROMA. “Fermate il mondo, non voglio crescere”. Gli adolescenti di oggi, rispetto a quelli degli scorsi decenni, ritardano sempre di più le esperienze dal sapore più adulto, come avere un partner, lavorare, provare l’alcol, guidare l’auto dei genitori. Lo dice uno studio che, analizzando lungo il corso degli ultimi 40 anni la propensione di 8,4 milioni di adolescenti americani (età 13-19) alle attività più “da grandi”, ha trovato che le eleganti etichette “millennial” (con cui si indicano i nati tra 1980 e 1994) e “iGeneration” (1995-2012) sono sovrapponibili al più nostrano “bamboccione”.
«I diciottenni di oggi sono come i quindicenni di ieri. E i venticinquenni di oggi sono come i diciottenni di un tempo» spiega l’autrice dello studio Jean Twenge, docente di psicologia alla San Diego State University, che sul tema ha scritto anche un saggio appena uscito:
iGen: why today’s super- connected kids are growing up less rebellious, more tolerant, less happy – and completely unprepared for adulthood
(Atria Books). «A partire dal 2000 si assiste un crollo continuo nel numero di adolescenti che fanno cose considerate un allenamento a entrare nella vita adulta. Intorno al 2010 i 17-18enni uscivano per appuntamenti romantici meno di quanto facessero i 15-16enni negli anni 90. E mentre intorno al 1991 il 54% dei diciassettenni aveva già avuto esperienze sessuali, nel 2015 questa percentuale è scesa al 41%». Una tendenza simile, nota lo studio, per il primo contatto con l’alcol: dal 1993 al 2016 la percentuale di 13-14enni che hanno fatto quest’esperienza è scesa del 59%.
Una riluttanza che, nello studio pubblicato su Child Development, risulta essere trasversale a tutti i sessi e le etnie statunitensi. «Abbiamo considerato alcune ipotesi come l’effetto di Internet: se oggi si passano online più ore di un tempo, è chiaro che restano meno ore per uscire o fare lavoretti» risponde Twenge. «Ma il web non può essere la sola spiegazione, perché vediamo questo trend iniziare anche da prima del boom dell’Internet di massa ». L’interpretazione più convincente, per gli autori dello studio, è la teoria life- history, secondo cui chi vive in un ambiente agiato ha meno fretta di crescere rispetto a chi passa l’adolescenza tra rinunce e ristrettezze. Quando il futuro è incerto e le risorse sono scarse, gli esseri umani avrebbero infatti un forte incentivo a bruciare le tappe verso la maturità sessuale, così da aumentare le proprie chance di riprodursi nonostante le avversità. Chi è protetto da un contesto familiare più confortevole, invece, può indugiare più a lungo nel parco giochi dell’adolescenza.
«Dal 2000 in poi i figli hanno avuto più agi. Rispetto agli anni 70 è aumentato il reddito delle famiglie e si è ridotta la loro dimensione» osserva Twenge. «Così i bambini hanno iniziato a sentire come meno pressanti le urgenze dettate da un orologio biologico formatosi in tempi più primitivi ». Che ora è messo a tacere anche dallo smartphone: «Negli ultimi anni vediamo un’accelerazione del fenomeno: comunicando di più tramite quel mezzo, i teenager sentono meno bisogno di uscire e ritrovarsi fisicamente».

Repubblica
“Meno tempo con gli amici, colpa del web anche in Italia un’adolescenza dilatata”
di Elena Dusi

ROMA. Niente sesso, alcol, né pomeriggi sul muretto: siamo gli adolescenti dell’era smartphone. La “crescita lenta” in Italia è stata misurata, tra gli altri, da Alessio Vieno, professore di psicologia dello sviluppo e della socializzazione all’università di Padova e direttore di Lab ID, laboratorio di ricerca su internet e dipendenza. I suoi dati provengono dalla ricerca Health Behaviour in School-aged Children (Hbsc), cui partecipano 43 paesi. In Italia sono state analizzate le risposte di 65mila ragazzi di 11, 13 e 15 anni.
Cosa avete misurato?
«I quindicenni che hanno avuto un rapporto sessuale sono diminuiti del 3-4% fra 2002 e 2010. Gli astemi totali in Italia sono passati dal 19% del 2002 al 25% del 2014. La tendenza è ancora più accentuata in altri paesi europei: l’aumento medio è del 14%. In Norvegia non tocca alcol il 56% dei ragazzi, ed erano il 23% nel 2002. Questa è sicuramente una buona notizia dal punto di vista della salute pubblica. Ma a noi interessa leggerla anche da un punto di vista diverso, quello della voglia di fare esperienze nuove».
Quali altri dati avete trovato?
«È diminuito il tempo trascorso con gli amici. Parliamo di “tempo non strutturato”, al di fuori di scuola, sport e attività supervisionate dagli adulti. Abbiamo il dato europeo, non ancora quello italiano, ma parliamo di un’ora e mezzo al giorno in meno tra 2002 e 2014. Le patenti per l’auto sono crollate del 40% tra il 1992 e il 2012, ci fa sapere l’Aci».
Perché avviene questo?
«Perché le attività online succhiano tempo».
E che effetto ha sullo sviluppo dei ragazzi?
«Letti insieme, i numeri ci danno un messaggio chiaro: gli adolescenti hanno meno voglia di provare esperienze nuove. E sappiamo che sperimentare è l’unica strada per crescere. Quello che impariamo nasce dai nostri successi e insuccessi. Il risultato finale è un’adolescenza dilatata, che fatica a trovare sbocco nell’età adulta».
Secondo la ricerca Usa la colpa è di internet.
«Ci credo solo in parte. Le sperimentazioni online sono virtuali, quindi attenuate. Si può sempre cambiare identità, se qualcosa su Facebook va storto. Ma non penso, come sostiene Jean Twenge, che l’iPhone abbia distrutto una generazione».
I genitori che possono fare?
«Sono loro i primi a usare i social media, e spesso anche a sfruttare gli schermi come silenziatori, per far stare zitti e buoni i loro bambini».

Repubblica 21.9.17
Corrado Augias. Cosa resta del 20 settembre
GENTILE dottor Augias, l’Italia si riconosce nel 25 aprile, nel 2 giugno, nella celebrazione dei martiri delle Fosse Ardeatine, ma ha rimosso la festa del 20 settembre. Dopo la caduta del fascismo, la Repubblica mantenne l’abolizione decisa da Mussolini di quella festa. Il 20 settembre 1870 l’Unità italiana veniva finalmente completata sancendo la sconfitta del potere temporale della Chiesa cattolica. Istituita per legge nel 1895, detta festa, almeno fino al primo decennio del Novecento, era rimasta assai popolare soprattutto a Roma, strappata al suo isolamento di secoli e trasformata dall’arrivo degli “italiani” in una vera capitale. La memoria del 20 settembre (testimoniata dalla presenza in tante città italiane di vie e piazze intitolate all’evento) andò perdendosi quando le varie forze componenti la società civile, trovando ostacoli a realizzare in Italia uno Stato veramente laico e una Chiesa cattolica rinnovata, attenta alla diffusione dei valori religiosi e alle verità di fede, preferirono praticare soluzioni compromissorie tese ad avvicinare comunque Quirinale e Vaticano.
di Lorenzo Catania

IN UNA parte della lettera che ho dovuto tagliare per le solite ragioni di spazio, il signor Catania ricordava un episodio così penoso da sconfinare nel ridicolo che francamente ignoravo. Ernesto Rossi, promotore del movimento “Giustizia e Libertà”, redattore con Altiero Spinelli del Manifesto europeista di Ventotene, dopo avere commemorato a Firenze il 20 settembre, venne denunciato per vilipendio alla religione di Stato e subì una perquisizione domiciliare per sequestrare il dattiloscritto con il discorso incriminato. Un’azione che sarebbe oggi inconcepibile il che aiuta forse a spiegare perché il 20 settembre abbia perso il suo rilievo emotivo. Non ha perso però la sua importanza storica, il dominio temporale della Chiesa era un relitto, l’unità politica della penisola sarebbe stata incompleta senza Roma. A questo aveva pensato Cavour — non vedrà quel giorno essendo mancato nel 1861 — facendo ripetutamente presente a papa Pio IX quanto la sua missione spirituale si sarebbe giovata dell’abbandono di troppe incombenze di governo. L’ostinazione del pontefice fu, per varie ragioni, irremovibile e si arrivò a quei poveri morti inutili, da una parte e dall’altra, e ai quattro colpi di cannone contro le mura aureliane. Seguirono anni di separazione ( non expedit) con i cattolici estranei alla vita politica, chiusi nel 1929 con il Concordato. Porta Pia fu un’impresa necessaria di non particolare gloria, ci si limitò a cogliere il momento: Napoleone III era stato sconfitto dai prussiani a Sedan, la sua protezione del papa era venuta meno. Così non era stato vent’anni prima, nel 1849, quando Luigi Napoleone, non ancora proclamatosi imperatore, aveva mandato le truppe e l’artiglieria per abbattere la Repubblica Romana che, prima di spegnersi, ebbe modo di darsi la più avanzata carta costituzionale d’Europa. Molti di quei principi, ancora attualissimi, sono stati riversati un secolo dopo nell’attuale Costituzione della Repubblica. I due eventi, 1849 e 1870, vanno letti insieme per capire che cosa veramente accadde in quel 20 settembre.