Repubblica 19.9.17
Dall’antica Alessandria al digitale il fascino eterno dei volumi che insieme alle nostre parole custodiscono la magia del mondo
Flaubert,
Cocteau, García Márquez, Nabokov: i Grandi della letteratura li hanno
sempre letti con passione Perché sono talismani potenti contro l’oblio
Cari ragazzi, vi svelo il segreto per amare i dizionari
di Alberto Manguel
Una
delle sezioni preferite della mia libreria (ora riposta in una scatola
etichettata con cura) è quella che ospitava i dizionari. Per la mia
generazione (sono nato nella prima metà del secolo scorso) i dizionari
erano importanti. La generazione prima di noi teneva alla Bibbia, o alle
opere complete di William Shakespeare o a “La scienza in cucina e
l’arte di mangiar bene” di Pellegrino Artusi o ai sei volumi della
Collection Litteraire Lagarde et Michard. Per le generazioni di questo
terzo millennio, ad avere un valore equivalente forse non sarà un libro,
ma un Game Boy o un iPhone nostalgici. Per molti lettori della mia età,
invece, i nomi degli angeli custodi delle librerie erano Treccani,
Collins, Sopena
o Webster. Il mio, ai tempi del liceo, era
l’edizione spagnola del Petit Larousse Illustré, con quel suo strato di
pagine rosa di frasi straniere che separava i nomi comuni da quelli
propri. Quand’ero giovane, per quelli di noi che amavano leggere, il
dizionario era un oggetto magico dai poteri misteriosi. Anche perché,
come una sibilla benevola, aveva una risposta per tutte le nostre
domande quando leggendo una storia ci imbattevamo in parole difficili. A
scuola, ci insegnavano a essere curiosi. Ogni volta che chiedevamo
all’insegnante il significato di qualcosa la risposta era: «Cercatelo
nel dizionario! ». È un ordine che non l’abbiamo mai vissuto come una
punizione. Al contrario: ci dava le chiavi di una caverna magica in cui
una parola portava alla seguente. Avremo cercato la parola poudroie, per
esempio, dopo aver letto Barbablù: «Je ne vois rien que le Soleil qui
poudroie, et l’herbe qui verdoie» (non vedo altro che il sole che fa
scintillare i granelli di polvere e l’erba che verdeggia) per scoprire
non solo il senso nel quale Charles Perrault l’aveva usata, ma anche che
in Canada poudroyer significava «essere colpiti dal vento (spesso sotto
forma di raffiche) se riferito alla neve». E più avanti nella stessa
pagina, trovavamo quel termine squisito che è poudrin: pioviggine di
ghiaccio nella provincia di Terranova e Labrador.
Fu Aby Warburg,
il grande lettore, a spiegarci ciò che egli chiamava “la legge del buon
vicino” in una libreria. Secondo Warburg, il libro che conoscevamo
meglio non era solitamente quello che ci serviva. Era il suo vicino
sconosciuto sullo stesso scaffale a contenere le informazioni vitali. Lo
stesso si può dire delle parole in un dizionario, seppure, nell’era
elettronica, un dizionario virtuale offre probabilmente meno possibilità
di scoprire a caso una parola o di indulgere in quella felice
distrazione che tanto rendeva felice Emile Littré: «Spesso», diceva, «è
successo che andando a cercare una certa parola, il mio interesse fosse
tale che continuassi a leggere
Tra le fonti dell’Oxford English ci fu anche un folle assassino
la definizione successiva e poi ancora quella seguente, come se stessi tenendo in mano un normale libro».
È
probabile che di queste proprietà magiche non si avesse nemmeno il
sospetto un singolare pomeriggio caldo di quasi tremila anni fa quando,
da qualche parte in Mesopotamia, un nostro antenato anonimo e ispirato
cominciò a imprimere su un pezzo di argilla una breve lista di parole e
il loro significato in accadico, creando così ciò che a tutti gli
effetti era un dizionario. Perché si arrivi a un dizionario somigliante a
quelli dei nostri giorni tocca aspettare fino al primo secolo, quando
Panfilo di Alessandria compilò il primo dizionario greco con le parole
in ordine alfabetico. Francesco della Penna in Italia, Sebastián de
Covarrubias in Spagna, Émile Littré in Francia, Samuel Johnson in
Inghilterra, Noah Webster negli Stati Uniti: i loro nomi sono sinonimi
delle loro opere accademiche. Il monumentale dizionario multilingue
compilato da Ambrogio Calepino nel 1502 divenne il più importante e
vastamente ristampato libro di riferimento del Rinascimento con 166
edizioni nel Cinquecento.
I compilatori di dizionari sono delle
creature sorprendenti la cui maggiore gioia, prima che ogni altra cosa,
sono le parole. A dispetto della definizione del dottor Samuel Johnson,
sui lessicografi «innocui sgobboni», sono noti per la loro passione e
perché si liberano delle convenzioni sociali quando è in gioco il loro
grande compito. Pensate a James Murray, la mente dietro al grande Oxford
English Dictionary, che per molti anni ricevette migliaia di
suggerimenti di parole da includere da un chirurgo americano che viveva
in Inghilterra ma che non aveva mai incontrato. Più tardi scoprì, e ne
restò splendidamente indifferente, che il suo collaboratore, oltre ad
essere un ricercatore di talento, era anche un infermo mentale assassino
che risiedeva in un ospedale psichiatrico a Broadmoor. Pensate a Noah
Webster, che sorpreso tra le braccia della domestica dalla moglie, alla
sua esclamazione «Dottor Webster, sono sorpresa!» rispose correggendola
«No, signora, quello sorpreso sono io, lei è stupita ».
I lettori
di dizionari sono animati da altrettanta passione. Flaubert, egli stesso
un grande lettore di dizionari, alla parola “dizionario” nel suo
Dizionario dei luoghi comuni scrisse: «Dire: “Ha valore solo per gli
ignoranti”». Gabriel García Márquez, mentre scriveva Cent’anni di
solitudine, iniziava la giornata con la lettura del Diccionario de la
Real Academia Española — «ogni nuova edizione del quale», faceva notare
il critico argentino Paul Groussac, «rendeva nostalgici della
precedente». Ralph Waldo
L’Anglo-Saxon Dictionary era uno dei passatempi di Borges
Emerson
leggeva il dizionario per mero piacere letterario. «Non c’è in esso
alcun gergo», diceva, «nessun eccesso di spiegazioni, ed è denso di
spunti, la materia prima di possibili poesie e storie». Vladimir
Nabokov, a Cambridge, scovò una seconda edizione dei quattro volumi del
Dizionario interpretativo della grande lingua russa vivente di Vladimir
Dahl e decise di leggerne dieci pagine al giorno perché, vivendo lontano
dalla sua terra natia, era cresciuta in lui morbosamente «la paura di
perdere o di corrompere sotto l’influenza straniera l’unica cosa che
aveva salvato dalla Russia — la lingua».
Nel mondo alfabetico, la
sequenza convenzionale delle lettere svolge la funzione di ossatura
pratica di un dizionario. L’ordine di tipo alfabetico è di squisita
semplicità e impedisce le sfumature di gerarchie implicite nella maggior
parte degli altri me- todi. Le cose elencate sotto la A non sono né più
né meno importanti dei libri elencati sotto la Z, tranne il fatto che
in una libreria la disposizione spaziale comporta che i libri della A
sullo scaffale superiore e quelli della Z in basso siano meno
corteggiati dei loro fratelli nelle collocazioni intermedie. Jean
Cocteau, che diventava sempre più parsimonioso, aveva concluso che un
semplice dizionario fosse sufficiente a contenere una biblioteca
universale, perché «ogni capolavoro letterario», egli osservava, «non è
altro che un dizionario in disordine». Se, come abbiamo detto, ciascuno
di noi è la lingua che parla, i dizionari sono le nostre biografie.
Tutto ciò che sappiamo, tutto ciò che sogniamo, tutto ciò che temiamo o
desideriamo, ogni conquista e ogni trivialità, sta in un dizionario.
Se
i libri registrano le nostre esperienze e le librerie sono gli archivi
della nostra memoria, allora i dizionari sono i nostri talismani contro
l’oblio. Non sono un omaggio commemorativo alla lingua che parliamo, il
che darebbe loro l’odore cattivo delle tombe, né un tesoro, perché ciò
implicherebbe qualcosa di chiuso e inaccessibile. Nel concreto, i
dizionari raccolgono le nostre parole per conservarle e restituircele
permettendoci di vedere quali parole hanno definito le nostre esperienze
nel tempo e ci permettono di scartare e rinnovare altre in un continuo
processo battesimale. In questo senso i dizionari preservano la vita:
confermano e rinvigoriscono la linfa vitale di una lingua. Naturalmente,
ci sono dei dizionari storici che contengono termini non più in uso e
dizionari delle cosiddette lingue morte, ma anche essi concedono ai
soggetti che contengono delle brevi resurrezioni ogni qualvolta qualcuno
li consulta. Borges, studiando le antiche saghe nordiche cercava spesso
parole nell’Anglo-Saxon Dictionary di Bosworth e Toller e si dilettava a
recitare il Padre nostro nella lingua degli antichi abitanti della
Bretagna «per fare a Dio», diceva, «una piccola sorpresa».
«Sorpresa», spiega saggiamente il mio Garzanti è «ciò che giunge inaspettato, suscitando meraviglia».
Traduzione di Guiomar Parada