martedì 19 settembre 2017

Repubblica 19.9.17
Due popoli prima ostili poi accomunati dai genocidi praticati dai turchi
Noi armeni e i curdi fratelli nella tragedia
di Antonia Arslan

Non avevo mai conosciuto un curdo di persona, ma quanto ne avevo sentito parlare! La zia Henriette, il mio angelo tutelare, la persona che mi coccolava e amava incondizionatamente, ne aveva un’enorme paura. (…) Aveva tre anni, e giocava sulle ginocchia di sua madre quando il padre venne ucciso, decapitato, e la sua testa fu gettata addosso alla moglie. (…) Ma molto più dei soldati turchi, che pure le avevano ammazzato padre e fratelli, la terrorizzava la sola menzione dei curdi, «le tribù curde che scendevano dalle
montagne», come diceva qualche volta quando i suoi fantasmi la lasciavano in pace e le veniva voglia di raccontare le sue storie. E questo perché durante la deportazione delle donne armene un suo fratellino era stato brutalmente strappato dalle braccia della madre da un cavaliere curdo, o forse per qualche altro oscuro motivo seppellito nel fondo della sua mente. (…) Eppure — mi divenne chiaro negli anni — autore del genocidio armeno fu il governo turco, non i curdi. Questi vivevano nell’Anatolia orientale, nelle stesse zone degli armeni, circondati da aspre montagne, intorno ai grandi laghi e sugli altopiani; ma mentre gli armeni erano soprattutto contadini ed esperti artigiani, i curdi si dedicavano perlopiù alla pastorizia. I rapporti fra loro divennero tesi nel corso della seconda metà del XIX secolo, man mano che i sultani si appoggiarono ai curdi proprio in funzione anti-armena, per contrastare ogni richiesta di autonomia nelle province orientali. (…) La “parola che comincia per G” evoca tuttavia una forma di sterminio più efferata e pervasiva di qualunque strage: l’eliminazione totale di una minoranza, definitiva e programmata dall’alto, che nelle intenzioni dei perpetratori (i Giovani Turchi e la loro funesta ideologia) non lasciò scampo a nessun membro dei popoli- bersaglio. Un genocidio — per definizione — è organizzato da un governo verso una parte dei suoi concittadini, per motivi etnici, politici o religiosi: da ritrovamenti di documenti e nuove importanti ricerche oggi sappiamo con certezza che la tragedia degli armeni fu presa a modello dai nazisti per l’organizzazione della Shoah. (…) Dopo la fine della guerra, toccò anche ai curdi. La loro origine etnica, la cultura e i linguaggi — almeno tre, parecchio differenti fra loro e scritti in tre alfabeti diversi, ma con comuni radici indoeuropee — li resero sospetti al nuovo padrone del Paese, il generale Mustafa Kemal, e alla sua volontà di creare uno Stato-nazione uniforme, cementato da un forte patriottismo e da un unico linguaggio, il turco. Il conflitto divenne endemico, come testimoniano senza alcun dubbio, dal 1925 in poi, le continue ribellioni verso il potere centrale e i tremendi massacri del 1937-1938.
Ci si può domandare allora: perché, dopo averli usati contro le popolazioni cristiane d’Anatolia, una volta distrutte queste, prendersela con i curdi? Erano musulmani, erano stati alleati fedeli. Vivevano sulle loro montagne, erano pastori e fieri guerrieri, avevano partecipato all’abbattimento dell’impero e alla costruzione del nuovo Stato sotto la guida di Mustafa Kemal, in procinto di essere incoronato Ataturk (“padre dei turchi”). Dopo la proclamazione della repubblica nel 1923 si aspettavano perciò di riscuotere il loro credito, partecipando alla costruzione della nuova Turchia su un piano di parità con la maggioranza turca. Questa era stata la promessa. Ma non avevano fatto i conti con l’ideologia sottesa al partito dei Giovani Turchi, che non a caso era stato chiamato “Unità e Progresso”. “Unità” di tutti i popoli di etnia turcomanna sotto un’unica bandiera. (…) Oggi i curdi sono stanziati in un’area geografica che si estende su quattro Stati (Turchia, Iran, Iraq, Siria). Non si conosce il loro numero preciso: tuttavia si parla di una cifra che varia dai 25 ai 30 milioni. La loro organizzazione sociale è sempre stata sostanzialmente tribale, strutturata in clan solidamente legati da una lealtà interna fortissima, che ha loro permesso di resistere abbastanza bene a ogni tentativo — per quanto pervasivo e violento — di snaturamento. In tempi moderni, questo è avvenuto soprattutto nei confronti della repubblica turca, che per tutto il secolo scorso ha perseguito con la minoranza curda una politica durissima di assimilazione feroce, dando luogo a una serie infinita di sollevazioni e di rivolte, tutte schiacciate nel sangue, senza risparmiare i gas tossici. (…) Oggi possiamo dire che la paura e l’ostilità reciproca fra armeni e curdi, che era stata tanto bene seminata durante i massacri del 1915-1916, è stata superata grazie a diversi fattori, di diversa importanza, ma che hanno parlato al cuore e alla memoria degli armeni, così soli, per tanti anni, nel loro ricordo. Prima di tutto, la condivisione del lutto. Man mano che gli anni, e le generazioni, passavano, e che il destino dei curdi si sviluppava in modi così simili a quello degli armeni, l’odio e il rancore di questi si attenuava, nella considerazione che uno era stato e rimaneva il comune nemico, il governo di quel Paese che delle legittime aspirazioni di entrambi i popoli aveva fatto strame, con pari ferocia: alla brutale eliminazione degli armeni corrispondendo il tentativo di assimilazione forzosa dei curdi, alla damnatio memoriae dei primi la cancellazione di ogni identità particolare dei secondi, ivi comprese le scuole, la lingua, i nomi dei luoghi. (…) Poi si è scoperto di recente che i capi di alcune tribù curde non solo rifiutarono di dare la caccia agli armeni, ma offrirono ospitalità a centinaia di rifugiati, difendendoli per anni senza pretendere da loro la conversione, e poi mettendoli in salvo in zone sicure della Siria. La mente afflitta delle vittime aspira dal profondo del cuore a scacciare gli incubi e i demoni dell’angoscia, a raggiungere infine la pace, acquietandosi nel ritrovare spiragli di umanità condivisa: così, concludendo con una piccola storia personale, furono enormi il mio lieto stupore e la mia commozione quando, alcuni anni fa, dopo un incontro sul genocidio armeno in una cittadina della Riviera del Brenta fra Padova e Venezia, un giovane medico, che mi disse di essere il capo della comunità curda in Italia, prese la parola per chiedere scusa solennemente, a nome del popolo curdo, a tutti gli armeni per la tragedia del 1915. Fu davvero come una benefica rugiada su una pianta assetata.