venerdì 1 settembre 2017

Repubblica 1.9.17
Il Far West del Far East
Quelle pasionarie del Turkestan per l’indipendenza uigura
di Siegmund Ginzberg


Per i cinesi sono una minoranza che non esiste, loro invece si considerano turchi Per Pechino la regione dove vivono si chiama Xinjiang, per loro invece è una terra ingiustamente occupata Ma da secoli e fino a oggi ogni rivendicazione o lotta è passata attraverso le donne
Ma lei viene da Istanbul? La ragazza me l’aveva chiesto in turco. O in uiguro, che è poi un dialetto turco. Emozionata. Come chi ritrova uno di famiglia. O si imbatte nel Cavaliere azzurro che la salverà dal Drago rosso. Per avvicinarsi aveva lasciato i telai, incurante dei miei accompagnatori cinesi. Non me la sentii di deluderla. Le risposi, col poco di turco che ho conservato dall’infanzia, che in effetti ero nato a Istanbul. Ma lei, come
Rabiya Kadeer, ora over 70, vive in America da quando nel 2005 era stata rilasciata per “ragioni umanitarie” dalle prigioni cinesi. Ma tornano a bollarla come istigatrice di “separatisti” e “terroristi” ogni volta che scoppiano incidenti etnici a Urumqi. Così come un’altra donna, Xiang Fei, la “La Concubina fragrante”, vissuta secoli prima, nel Settecento, continua a essere per gli uni il simbolo dell’inimicizia, per gli altri quello della riconciliazione. Di lei abbiamo persino dei ritratti dal vivo, alcuni attribuiti al gesuita Baldassarre Castiglione, che dipingeva alla corte dell’imperatore Qianlong. aveva fatto a indovinarlo? Allora, 35 anni fa, avevo capelli e folti baffi neri. Una giovane uigura del Xinjiang a quei tempi forse non riusciva ad immaginare che un visitatore straniero fosse altro che turco. O forse lo sperava e basta. O forse è che le donne sono più perspicaci.
Molto dipende da chi e da come ve la raccontano. Curioso però che qui la storia (o favola se si preferisce) sia spesso declinata al femminile. È stata ad esempio una donna a impersonare il conflitto negli ultimi decenni. Pasionaria per la dissidenza uigura, e al tempo stesso bestia nera di Pechino, Senonché in alcuni dei ritratti che si suppone la raffigurino è vestita e ha fattezze cinesi, in altri ha fattezze turche e indossa un’armatura europea. Capita, alle figure da romanzo. E in effetti il personaggio ha scatenato fantasie letterarie e diatribe storiche a non finire, di qua e di là della Grande Muraglia. Delle diverse e contrapposte narrazioni verrebbe da fare un romanzo nel romanzo.
Per le fonti letterarie cinesi l’Imperatore Qianlong era follemente e sinceramente innamorato della concubina uigura. Gli era stata portata a Pechino dal generale che gli aveva conquistato il Xinjiang. Con ogni precauzione, compresi bagni quotidiani di latte di cammella perché si preservasse la fragranza naturale che emanava dal suo corpo. Le faceva arrivare ogni giorno meloni freschi e altre leccornie dalla sua terra e le aveva costruito un padiglione della Città Proibita che si affacciava sul bazar musulmano. Queste versioni ne fanno il simbolo per eccellenza dell’armonia tra cinesi han e uiguri musulmani. Le versioni di parte uigura la presentano invece come ribelle irriducibile, che nell’harem imperiale si addestrava alle arti marziali per uccidere l’imperatore e vendicare il proprio popolo. Finché fu fatta avvelenare (o strangolare) dall’Imperatrice madre. Le due opposte versioni della favola si perpetuano. Non c’è accordo nemmeno su dove sia sepolta: nello splendido monumento funerario della famiglia Khoja a Kashgar, secondo gli Uiguri, a Pechino secondo i cinesi.
Ci si scontra con più ferocia sul passato che sul presente, sui nomi delle cose piuttosto che sullo stato delle cose. Xinjiang significa “Nuovi territori” o “Nuova frontiera”. È il nome datogli con la conquista Manciù. Come il Far West americano, il termine evoca leggende, epopee, violenza, pericoli, ma anche immense opportunità. I grandi viaggiatori del Novecento chiamavano questa regione Turkestan orientale, e i loro abitanti islamici Turki. Ma poi Turkestan sarebbe diventata parola tabù, proibita in Cina. Come Kurdistan lo è in Turchia. Per converso, il termine “Uiguri” non esisteva, era praticamente sconosciuto prima del 1934. A inventarlo fu l’allora governatore cinese del Xinjiang, Sheng Shicai. Distinse 14 etnie là dove Pechino ne considerava cinque. Poi le manovrò una contro l’altra. Spinse musulmani uiguri a massacrare Hui e Han, e vice- versa. Fu una guerra di tutti contro tutti, con l’intervento di tutte le potenze interessate: quasi una prova generale della Siria dei nostri giorni. I metodi con cui Sheng si mantenne al potere in Xinjiang negli anni Trenta e Quaranta somigliano a quelli di Assad (ricorse anche ai gas). E fanno impallidire quelli del “Barone sanguinario” Ungern-Sternberg in Mongolia. Eppure nelle foto d’epoca, che lo ritraggono con moglie e figlia, sembra un tranquillo padre di famiglia.
Sono andato a rispolverare le foto in bianco e nero che avevo scattato 35 anni fa in Xinjiang con la Nikkormat prestatami dal fotografo del giornale. Avevo l’impressione che il tempo si fosse fermato, da secoli. Incontravo facce antiche, figure che parevano immutate da secoli lungo le strade dall’Asia centrale all’Anatolia, reincarnazioni di Nasreddin Hodja (per i cinesi Afandi) sul suo asinello, di guerrieri di altri tempi. Al mercato di Kashgar le donne uigure giravano ancora con una coperta in testa, un burqa integrale che neanche in Afghanistan.
Sono andato a cercare su internet immagini più recenti. Mi ha colpito una foto a colori che ritrae una bellissima signora uigura con un foulard rosso e un lungo vaporoso vestito giallo di organza. Scattata a Kashgar nel 2014 a una fermata di autobus della città vecchia, dice la didascalia. A guardare meglio, ho come un senso di dèja vu. La cosa che mi impressiona è come il resto - i personaggi maschili che la circondano, i loro sguardi, i muri fatiscenti sullo sfondo - siano quasi identici a quelli nelle mie foto di decenni prima. Incredibile come in Cina possa cambiare tutto, a ritmi vorticosi, e a guardare meglio poi ti accorgi che in fondo è cambiato meno di quel che sembra.
La mia interlocutrice di allora mi aveva chiesto se ero turco. Non se ero musulmano. La discriminante era etnica, non religiosa. Gli uiguri sentivano di essere turchi, parlavano turco, mangiavano come i turchi, somigliavano più ai turchi che ai cinesi. Gli “altri” erano gli Han, i cinesi, quelli venuti da fuori, che parlavano cinese, mangiavano cinese, comandavano in cinese. In mezzo c’erano gli Hui, musulmani come gli uiguri (anzi sono la maggioranza dei musulmani in Cina), ma più simili ai cinesi. Le carte si rimescolano, poi le vecchie separazioni che sembravano sopite tornano a galla e riavvampano. Non è tanto o solo questione di religione. Ci sono barriere di lingua, di percezione del tempo, di cucina, e persino di gusti musicali. Gli uiguri parlano turco, gli altri solo cinese. Anche e soprattutto quando sarebbero in grado di intendersi in entrambe le lingue. L’ora ufficiale del Xinjiang è quella di Pechino, cioè di tutta la Cina. Tra gli uiguri è frequente spostare in segno di sfida avanti di due ore le lancette, secondo quella che dovrebbe essere l’ora solare locale. Gli uiguri non mangiano maiale, gli altri sì. Il che fa sì che è raro che si frequentino in occasioni conviviali.
Una ragazza uigura che voglia sposare un cinese incontrerebbe in famiglia più difficoltà di una palestinese innamorata di un israeliano. C’è più di qualche similarità. Anche nei pregiudizi reciproci («Gli uiguri pensano solo a divertirsi. Noi cinesi a lavorare», «Ci odiano, proteggono i terroristi »). Nel pugno di ferro. E pure nell’imposizione di inutili umiliazioni. Tra le più recenti: il rinnovo forzato di tutti i passaporti degli islamici, la proibizione di dare ai figli il nome Mohammad e la messa al bando di barbe e mustacchi “strani”.