Repubblica 1.9.17
Le parole dell’odio
di Stefano Bartezzaghi
Durante
una lite che sarebbe culminata nel deposito di escrementi canini sullo
zerbino della parte avversa, un’anziana signora, temibile e
picchiatella, espose sul pianerottolo un cartello che terminava con
l’anatema: «Taci, inquilina!». Qualsiasi parola può infatti essere
piegata a insulto. A controprova, la frase razzista postata su
TripAdvisor dal politico di Forza Italia non ha nulla di scorretto, se
non sintatticamente: «Non ho apprezzato una cameriera di colore a
servire con costume parzialmente ampezzano ». È quindi vano badare ai
singoli vocaboli, attribuendo loro un valore che in realtà non hanno. Da
quanto tempo, peraltro, «fascista» non è più un insulto, cioè non
riesce più a sollevare l’indignazione che vorrebbe?
Il razzismo si
camuffa da senso comune, la violenza «fa problema» solo dopo che è
avvenuta. Sullo stupro ormai si fanno distinguo, leggiamo titoli come
«Picchiato e ripreso con lo smartphone» e dei profughi un ragazzo del
Tiburtino dice, quasi pacato: «Toccherebbe bruciarli». A partire dalla
perfetta negazione del valore del corpo dell’altro, i segni dell’odio
oggi non sono più nelle qualifiche ma nelle azioni. Da temere è questo:
la parola che è tutta un programma.