martedì 19 settembre 2017

Repubblica 19.9.17
Il retroscena.
Gli errori nel testo, lo scontro di potere e i silenzi delle gerarchie ecclesiastiche
Trent’anni di misteri dietro quella lettera sepolta in cassaforte
di Emiliano Fittipaldi

IL DOCUMENTO sull’«allontanamento domiciliare» di Emanuela Orlandi, verosimile, apocrifo o fasullo che sia, esiste. Ha una sua storia. E un percorso che, dal buio di un armadio blindato in Vaticano, lo ha portato alla luce del sole. Cinque pagine con presunte spese e uscite sono così diventate — a più di 34 anni di distanza dal 22 giugno 1983, giorno della scomparsa della ragazzina che amava Gino Paoli — un nuovo capitolo di uno dei misteri più oscuri della recente storia italiana.
Perché, come racconto nel libro Gli impostori, in uscita per la Feltrinelli venerdì prossimo, delle due l’una: o il documento è vero, e apre ipotesi clamorose sul sequestro e il destino dell’adolescente. O è contraffatto, e segnala il riaccendersi di vecchie e nuove rese dei conti dentro le sacre mura.
È un fatto che il documento misterioso, definito subito «falso e ridicolo» dal capo della sala stampa di papa Francesco, Greg Burke, esca da dentro il Vaticano.
PRECISAMENTE, dall’archivio riservato della prefettura degli Affari economici, un ente che fino a due anni fa fungeva da struttura di controllo contabile e di gestione economica delle amministrazioni vaticane. Una Corte dei conti della Santa Sede, in pratica. L’archivio fin dal 2011 e fino ai suoi arresti nel 2015 è stato gestito dal monsignor Lucio Vallejo Balda, segretario dell’organismo e poi — dal 2013 — anche della pontificia commissione Cosea, che è stata ospitata proprio negli uffici della Prefettura.
Sappiamo che quell’armadio blindato, dove vecchi documenti sensibili erano incredibilmente accatastati alla rinfusa e senza catalogazione, è stato violato nella notte del 29 marzo del 2014, da uno o più ladri che non sono mai stati identificati. Né dal Vaticano, le cui indagini effettuate dalla Gendarmeria guidata Domenico Giani sono tuttora segrete. Né dalla polizia italiana, che è titolare della sicurezza delle strade attorno al palazzo della Prefettura (che è invece da considerare territorio della Santa Sede).
Cosa c’era dentro l’archivio riservato? Quali dossier hanno prelevato i criminali dal forziere? Che uso ne hanno fatto in questi tre anni? È solo durante Vatileaks 2, lo scandalo sulla fuga di documenti segreti scoppiato nel novembre 2015, che si parla per la prima volta di «faldoni trafugati» in Prefettura.
Se alcuni di questi, come le lettere del banchiere Michele Sindona, vengono pubblicati da Gianluigi Nuzzi, nel 2016 il capo ufficio della Prefettura monsignor Alfredo Abbondi, durante uno degli interrogatori del processo in Vaticano, dà le prime, importanti indicazioni sull’inquietante vicenda. Prima spiegando che, circa un mese dopo il blitz notturno, i report carpiti tornarono indietro in un plico anonimo, recapitato curiosamente alla Prefettura stessa. Poi segnalando che i documenti rispediti all’ovile «erano di dieci, vent’anni fa. Nel riordinare i fogli dopo l’effrazione, vidi che gli atti contenuti nell’archivio non erano tanto relativi alla sicurezza dello stato, ma a fatti sgradevoli... Se nel plico fosse mancato qualcosa di rilevante» chiude Abbondi «ce ne saremmo accorti».
Ai magistrati del Papa il sacerdote non dice quali fogli sono tornati nel plico, né cita il fantomatico dossier che l’estensore vuole firmato nel 1998 dal cardinale Lorenzo Antonetti. È l’ex membro di Cosea Francesca Chaoqui che, da testimone oculare, li elenca per la prima volta. Non lo fa a processo, dove dice di essere vincolata al segreto, ma lo fa nel suo libro di memorie, pubblicato nel febbraio 2017. Tra i dossier del plico, afferma la pr, ci sarebbe anche «il file di Emanuela Orlandi, dal quale capisco il finale di una storia che deve rimanere sepolta».
Ora, se il presunto resoconto delle note spese dell’allontanamento domiciliare è stato rubato dall’archivio della Prefettura gestito da Balda e poi restituito come lascia intendere la Chaoqui, vuol dire che era già nella cassaforte prima del furto. Allora chi lo ha messo lì dentro? E quando? E se invece i ladri hanno infilato una patacca tra report originali in un secondo momento, come mai don Abbondi non ha segnalato subito la presenza del falso? Il vaticanista della Stampa Andrea Tornielli ieri ha evidenziato che la nota, secondo le sue fonti, non era tra i fogli rispediti dai criminali. Si sbaglia o è la Chaoqui a mentire quando dice di aver visto con i suoi occhi «un file sulla Orlandi »?
Soprattutto, come suggerisce di nuovo Tornielli, se il Vaticano era a conoscenza del resoconto misterioso da tre anni, e lo considerava contraffatto, come mai non ne ha mai parlato ufficialmente? Come mai monsignor Angelo Becciu, sostituto alla Segreteria di Stato, quando a giugno 2017 il Corriere ha parlato dell’esistenza di un «resoconto economico» con voci che «arrivano fino al 1997» non ha spiegato che si trattava di una pericolosa polpetta avvelenata? E, soprattutto, gli uomini di Giani hanno effettuato indagini per capire chi, e quando, lo avrebbe fabbricato? E con quali scopi?
Anche se ci sono errori formali evidenti (un’intestazione «a Sua Riverita Eccellenza» invece che al canonico «Sua Eccellenza reverendissima», il nome sbagliato di un mittente, la scritta «in fede» alla fine dell’ultima pagina, il nome della Orlandi in bella vista), il documento è ben costruito e architettato. Non ha intestazioni, né timbri e firme, ma sono molti i dossier originali vaticani che non ne hanno, e che hanno riempito giornali e libri durante i primi due Vatileaks.
Studiando l’elenco delle note spese, sembra che chi lo ha compilato conosca molto bene le dinamiche vaticane di fine anni Novanta. Fosse un apocrifo, il report potrebbe anche essere stato scritto lustri fa, da mani esperte che conoscevano pezzi di verità nascoste e volevano minacciare, con quella carta piazzata in una cassaforte piena di segreti, fette della gerarchia ecclesiastica vicina a papa Giovanni Paolo II. È noto, per esempio, che tra Paul Marcinkus, gran capo dello Ior e regista del crac del Banco Ambrosiano, e lo stesso cardinale Antonetti i rapporti non fossero idilliaci.
Meno probabile che il resoconto, sempre ipotizzando sia inattendibile, sia stato composto di recente: il documento non colpisce uomini chiave del pontificato di Francesco, e non sfiora nemmeno lontanamente il Papa argentino. Più in generale, non assegna responsabilità specifiche nella scomparsa della Orlandi, né spiega i motivi del suo presunto «allontanamento». Ora la Santa Sede, oltre a negare con vigore e fastidio la veridicità del documento, dovrebbe forse provare a spazzare via ogni dubbio e veleno, spiegando l’origine di un documento inquietante. Perché è certo, vero o falso che sia, che la nota sull’“allontanamento domiciliare” della Orlandi è uscita dall’interno delle mura leonine.